Capitolo XIX- Deus, ecce deus

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«A questo punto la vostra soluzione dovrebbe aver assunto il colore della foglia, ovvero un bel verde scuro.»

Il laboratorio era silenzioso e gelido, la mattina dell'undici ottobre.
Situata al terzo piano, nella stanza non era mai giunto correttamente il caldo dei riscaldamenti, dai tempi in cui la scuola era stata appena costruita ed era ancora un collegio maschile.
Un difetto architettonico, si diceva, ma tutti si erano convinti da tempo che si fosse deciso volontariamente di spegnere ogni forma di riscaldamento all'ultimo piano.
Alle nove di mattina gli spifferi soffiavano in ogni remoto angolo della sala, e i raggi irradiati dalle alte finestre chiuse potevano poco contro il gelido delle mattonelle e dei piani da lavoro.

Montgomery girava tra quelle lastre di marmo con lieve preoccupazione, intento a osservare i gruppi lavorare, temendo qualche possibile incidente.
I suoi passi riecheggiavano in mezzo a quell'attutito chiacchiericcio, dietro di lui la polvere, alzatasi dal pavimento, danzava nei crudi raggi del sole.

«Questo verde... è orrendo.» Julius ispezionò la provetta con fare schizzinoso, tenendola davanti a se tra due dita: il mento alzato, il viso inclinato da una parte, si rivolse ad Emeline.
«La tua com'è?»

«Identica alla tua» lei mosse il liquido, e quello assunse un colore ancora più denso.
«Credo di impazzire.»

Montgomery li aveva divisi in sette gruppi da quattro: lungo gli infiniti corridoi del laboratorio, nelle loro uniformi e nei loro visi seri, erano al pari di automi, tutti intenti nella stessa azione. Molti di loro infrangevano quell'asettico quadro con risate e sorrisi.

Julius ed Emeline erano stati sorteggiati per finire nello stesso gruppo, insieme a due tipi dall'aria poco furba e all'apparenza completamente contrari all'idea di girare provette con all'interno foglie di spinaci.
Si erano seduti sul bordo della finestra a chiacchierare, escludendo del tutto la possibilità di aiutare.
Julius aveva fatto spallucce, affermando con acidità che la loro partecipazione sarebbe stata più un danno che un aiuto.
Allora lui ed Emeline si erano messi al lavoro, completamente incerti e annoiati.

Julius appoggiò la provetta al portaprovette davanti a lui.
«Santo Dio, spiegami questo a cosa serve.»Lanciò un'occhiata obliqua al verde del pigmento, sedendosi poco dopo.
Tenendo il viso sul pugno della mano si voltò verso la finestra, il colletto della sua camicia a tendersi. «Dove sono finiti?»

Emeline si appoggiò al ripiano vicino al muro. «Non ne ho idea.»
Poi li vide: erano andati ad infastidire un altro gruppo.

«A volte mi sembra che gli unici sensati in questo corso siamo noi due» fece Julius.

«Ora dovreste prendere il rettangolo di carta alla vostra sinistra, e col contagocce farvici cadere una sola goccia dell'estratto, nel punto delimitato dalla striscia rossa.»
Montgomery girava lungo i tavoli.
Ripeté più volte quella stessa raccomandazione, lo faceva ogni volta che si fermava da un gruppo, e matematicamente c'era sempre qualcuno tra gli studenti che, appena non era visto, alzava gli occhi al cielo.

«Sai, io preferisco di gran lunga Reid» disse Emeline.

«Eh?» Julius sembrò risvegliarsi dallo stato di sonnolenza in cui si trovava; alzò di poco il viso, liberando il palmo dal suo peso.

«Non puoi dire che non sia un bravo insegnante.»

«Non mi dice niente.» Era per via di un voto dell'esame di biologia; troppo basso per i criteri di Julius, Reid era rimasto inflessibile.

«E dai... ricordi quando al secondo anno portò in classe dell'acido solforico per farci vedere quella specie di processo geologico?»

Lui sbuffò una risatina.
Al tempo non si conoscevano, -cosa incredibile. Come avevano fatto a non notarsi mai, per due anni, seguendo quasi tutti gli stessi corsi? Ad Emeline era dovuta servire una lezione di latino, per farglielo notare davvero- eppure condividevano le stesse assurde memorie degli anni prima.

«Quello è stato un bel colpo, lo ammetto.»

Poi entrambi concordarono sulla mediocrità di Montgomery.

«Un esperimento sulla cromatografia!» sibilò Julius, sdegnato, gli occhi lievemente sgranati e l'indice a indicare la provetta.

«Non credo ci sia nulla di più inutile.»
Ruotò gli occhi in un freddo gesto infastidito, poi Emeline si mise a giocare con l'ampolla vuota davanti a lei.

Otto giorni si erano susseguiti senza Ezra; lui, che era partito per un viaggio improvviso e mal giustificato, aveva lasciato un sottile vuoto, echeggiante nelle mattine fredde e nei pomeriggi dorati dal Sole.
Mancava vederlo stendersi sull'erba, ridere e mangiare caramelle all'orzo.
Julius, che sembrava essere abituato a queste sue temporanee assenze, ne soffriva in silenzio; spedì una lettera all'indirizzo che Ezra gli aveva lasciato -lettera che firmò anche Emeline, ma che si scordò di leggere- e, sorprendentemente per il suo carattere, si limitò ad attendere il suo ritorno con la pazienza di un monaco.
«Ezra ti ha più risposto?» chiese Emeline, mentre svuotava nel lavandino una delle provette.

Julius annuì. «È tornato ieri sera tardi.»
Poi si fermò di colpo.

«Bastardo

Si udì un boato di chiacchiere, un oh! collettivo che scemò completamente dopo qualche frazione di secondo.
Julius si voltò di scatto, il braccio appoggiato allo schienale della sedia, Emeline puntò subito lo sguardo verso il tavolo vicino al loro.
Uno dei due ragazzi del loro gruppo teneva tra le mani una provetta vuota, il suo contenuto riverso sull'uniforme di un altro studente, che Emeline riconobbe subito come quello con cui Julius aveva avuto un rapido diverbio il giorno dell'esame di latino.
La sua camicia e i pantaloni erano ora di un verde acceso, macchiati in maniera indelebile, e l'altro ridacchiava senza ritegno.

Il silenzio era assoluto, ma quando anche Julius si accorse della vittima di quel brutale scherzo scoppiò in una risata contagiosa e divertita, fortissima e sprezzante come quella di un ragazzino.
«A questo punto i vostri vestiti dovrebbero aver assunto il colore della foglia, ovvero un bel verde scuro» sussurrò, e prese a ridere ancora più forte.

«Cosa sta succedendo?» fece Montgomery, e quando vide la scena rimase impassibile, troppo sconcertato per dire qualcosa.
Si passò una mano sul viso, l'altra a premere il fianco.
«Credevo che foste maturi!» esclamò, in un impeto di frustrazione.
«Siete in una rinomata scuola scientifica, per Dio! Al terzo anno! Come vi permettete?»
Poi sembrò accorgersi delle risate di Julius.
Emeline, dietro di lui, gli faceva segno di stare zitto, mentre tratteneva le risate.

«Lo trovate così divertente?» lo interrogò Montgomery, furioso nel suo completo a scacchi.

Julius, con una notevole forza d'autocontrollo, si fece di nuovo serio.
Con gli occhi umidi di lacrime e le labbra tremanti, scosse la testa.
«No, affatto» disse, ed Emeline si voltò sperando di non essere colta in una risata.

«Allora spiegatemi perché ridete!»

«Non arrabbiatevi per questo, vi prego»dichiarò allora lui, sotto lo sguardo d'odio dell'altro ragazzo.
«Ma è che lo trovo davvero un bel parallelismo con qualcosa che mi è successo tempo fa.»

Montgomery, confuso, pareva sul punto di sbottare di nuovo con un monologo sulla loro scarsa maturità del gruppo, quando:
«Scusate» disse una voce, flebile oltre la porta d'ingresso, e tutti si voltarono.

La porta era appena accostata, e la metà di una figura sbucava, in attesa del permesso d'entrare. Alta, sottile come l'illustrazione di un'enciclopedia; capelli biondi mossi dagli spifferi, ciocche che più volte vennero scostate dal viso.
Teneva una mano a tamburellare sull'anta della porta, la tenne finché non si decise ad entrare senza permesso.
«Scusate, ho dimenticato qui un mio libro.»

«Questo non è il momento!» gli gridò contro Montgomery, sprezzante senza alcun motivo apparente.

Ezra sbiancò di colpo, portando le mani in avanti, sorpreso.
Si guardò intorno, alla ricerca d'occhi familiari. «Mi scusi» sibilò, prima di richiudere la porta.

Calò di nuovo il silenzio; Julius era ritornato inespressivo, e ad Emeline sembrò quasi che nel suo sguardo fosse comparso uno strano lampo risentito, come d'allarme.
Si sistemò la giacca e lanciò un'occhiata al professore.

«Ringraziate che non abitate al Dormitorio, o sareste tutti a pulirne i pavimenti, a quest'ora!»La voce di Montgomery venne sovrastata dai rintocchi della campana di fine lezione.

«Posso sapere che cosa è successo?» Ezra si staccò dal muro, venendo loro incontro a braccia aperte.
Scambiò un breve e forte abbraccio con Julius, ad Emeline lasciò un veloce bacio sulla guancia.
Ritornava quel giorno da una settimana a Glasgow, dove diceva d'aver soggiornato da quel suo zio che l'aveva cresciuto -meglio dei suoi genitori, come gli era sfuggito una sera-.

Quella settimana Emeline era restata alla Tenuta e Julius a Blackcurrant, e, a parte un tè a casa del secondo, non si erano quasi mai visti al di fuori delle mura della Vaas.
Ma avevano passato molto tempo nelle sue biblioteche, davanti a quei libri che Emeline ancora non era riuscita a decifrare, seguendo l'impossibile promessa che Ezra gli aveva lasciato prima di partire: gettare le basi per il percorso che avrebbero dovuto seguire.

«Oh, nulla di che. Montgomery che rimane deluso dalla nostra immaturità. Com'è andata nella piccola valle verde?» chiese Julius, mentre tra le mani sfogliava il libro che l'altro aveva dimenticato in laboratorio.

«Come al solito. Colazioni in città e nuovi vestiti. Lì fa già un discreto freddo, più che qui.»

Julius annuì. «Mh-hm» mormorò, mentre leggeva una pagina di fitto latino.

«Ora puoi anche ridarmelo, sai.»
Ezra incrociò le braccia, quasi divertito.

«Sei riuscito a capirlo?»

«Il necessario. È un latino semplice, simile quasi all'italiano.»

«Ho notato. Di chi è? In copertina non c'è scritto.»

«Bernardo da Treviso. L'ho trovato in una biblioteca di Glasgow. Sapete la sua storia?»

«No» disse Emeline, avvicinandosi a Julius. Lui si limitò a scuotere di poco la testa, mentre continuava a leggere.

Ezra abbozzò un sorriso, poi si voltò di scatto. Un gruppo di studenti del primo anno passò loro vicino.
Parlavano a voce molto alta, e le loro risate erano simili agli schiamazzi di tante allegre cornacchie; discutevano su un certo esame di anatomia generale, che sembrava preoccuparli parecchio.
Ezra li seguì con lo sguardo, gli occhi attenti. Sembrava essere in ascolto, affascinato da quella visione; stava fermo, ma il suo busto si era lievemente sporto verso di loro, quasi bramasse inconsapevolmente di far parte anche lui di quello stormo chiacchierante.
Sia Julius che Emeline sapevano che l'unica materia in cui Ezra fosse stato mai bocciato era stata proprio anatomia; il primo anno, all'esame, aveva ricevuto un voto bassissimo. Julius giistificava il tutto incolpando l'ansia, Ezra non si giustificava affatto, tuttavia era scontato che non gli facesse piacere parlare della cosa.
«Soprattutto vista la professione di suo padre» le aveva detto Julius.

Il gruppo scomparve dietro l'angolo del muro.
Ezra si voltò di nuovo verso la finestra, luminoso e con un rinnovato sorriso ad arricciargli gli angoli degli occhi.
«Venite alla Cattedrale. Non c'è nessuno a controllare l'entrata, adesso.»

Effettivamente nessuno li aspettava, dall'alto e stretto portone di legno della Cattedrale. Squisitamente medievale, restaurato da poco con cardini e rifiniture d'un acciaio lucido contro il vecchio del cedro, il portone cigolò quando Ezra lo spinse senza grazia, tenendolo quando Emeline e Julius entrarono.

Non aveva mai visto l'interno della Cattedrale, ma non deluse le aspettative gotiche e sacre che Emeline si era fatta a riguardo.

L'entrata, divisa in tre strette navate dagli alti soffitti -sottili come ostie, intarsiati come gioielli bizantini-, si dipanava all'infinito fino a un vecchio coro adibito a centralino, al momento vuoto.

Le finestre, geometriche e appuntite, componevano una scacchiera immaginaria e colorata, attraverso la quale la luce si mostrava densa e attutita, bagliori profondi e cupi come riflessi di rubini e topazi e zaffiri grezzi.

Passi si udivano calpestare i pavimenti dei matronei laterali, tetri e poco illuminati; gli studenti che li percorrevano assumevano un'essenza evanescente, divenendo quasi della stessa sostanza fragile della polvere.
Emeline alzò lo sguardo verso il matroneo, osservando il fruscio di un mantello sfuggire dall'ombra.
Sopra di lei una selva di volte si dipanava immobile e intricata.

«Di qua.» Ezra, sicuro nel suo tragitto, svoltò bruscamente verso una porta di legno nascosta sotto al porticato di sinistra.
Era socchiusa, ma lui la spalancò comunque con vigore lasciando passare gli altri due, per poi richiudersela alle spalle.

«Bernardo da Treviso fu un alchimista italiano.» Iniziò, mentre saliva il primo scalino della lunga scala a chiocciola.
Era tremendamente buio, ed Emeline sentì Julius imprecare un paio di volte, spaventato d'inciampare.

«Nato da una famiglia discretamente ricca, il padre medico lo istruì alle scienze della biologia e della chimica, dandogli i primi rudimenti. In seguito scelse il percorso alchemico, seguendo maestri come Geber e Alberto Magno.»

«Geber» soffiò Julius.
«Il ponte tra alchimia e chimica.»

«E il più grande alchimista medievale.»
Ezra continuava a salire, in quella che sembrava una spirale infinita.

Iniziava a sentire un lieve giramento alla testa, ma Emeline non ci fece caso; era quasi piacevole, quell'infinito cerchio, quegli scalini che sembravano moltiplicarsi dal nulla, quella perfetta rotazione dei muri, quasi lei stesse girando insieme a una ruota di mulino.

«Bernando aveva come unico scopo di vita la ricerca della pietra filosofale» continuò Ezra, la voce rotta da qualche breve affanno.
«E girò le corti di quasi tutti i reali d'Europa. Venne anche qui in Scozia. Fu truffato diverse volte, tra cui da un tedesco che si professava gran maestro dell'ermetismo. Ma non smise mai di abbandonare le ricerche, non perse mai la fede in ciò che faceva, anche quando iniziò ad invecchiare e a trovarsi senza più un patrimonio.»

«Potresti benissimo finire così» sbuffò Julius, annaspando tra uno scalino e l'altro.
«Ti ci vedo.»

«Non posso perdere un patrimonio che non ho» disse lui, ed entrambi risero.

«Cosa successe, dopo?» chiese Emeline, senza tono, in semplice attesa di risposte.

«Si diceva che un maestro religioso, che viveva in un monastero lontano dal mondo, fosse riuscito a svelare l'arcano della vita eterna.
Così Bernardo, nonostante fosse ormai vecchio, decise di farsi suo adepto.»
La sua voce, che era stata fioca e quasi cantilenante fino ad allora, si fletté in un nuovo tono, dolcemente teatrale.  
«Ma quando Bernardo chiese al maestro quale fosse la verità riguardo la vita eterna, egli gli rispose: "Sciocco! L'ultimo segreto della scienza ermetica non è altro che la frode!"»

Uno spiraglio di luce esterna sbucò da oltre il muro, segnando la fine delle scale.
Ezra saltò con agilità gli ultimi due scalini, poi aspettò gli altro oscillando da un piede all'altro.

«Dio, siamo riusciti a riveder le stelle, finalmente?» Julius, ansimante, sembrava aver sofferto la salita ancora più di Ezra.
Lui si era già diretto verso il corridoio, passando da lampada a lampada per illuminarle una ad una.
Il primo piano affacciava da un lato verso l'entrata, con un sottile balcone che mostrava, dall'alto, il piano inferiore, e dall'altro dava sul cortile, ormai vuoto a quell'ora.
Regnava una quiete serale assoluta, rotta solo dagli scricchiolii che le assi di legno producevano sotto il peso dei passi.

Ezra si diresse verso una delle ultime porte. Tirò fuori dalla tasca un piccolo mazzo di chiavi, e ne scelse una d'ottone.
«Venite» disse poi, mentre la faceva scattare nella serratura e apriva la porta.

«Meglio di Blackcurrant» ironizzò, lanciando uno sguardo a Julius.
Lui ridacchiò con poco umorismo, facendo roteare gli occhi.

Era una stanza estremamente piccola, del tipo che ci si potrebbe aspettare in un collegio; severa, stretta verso una finestra rettangolare dai vetri appannati di condensa, l'unica cosa che la salvava dal renderla anonima era il fatto che appartenesse ad Ezra; e lui, incapace di nascondere i suoi interessi perfino a quell'arida stanza, l'aveva trasformata nel suo improvvisato studio di lavoro.
Difatti, quando Emeline oltrepassò la soglia, pensò subito a quel posto come a una di quelle piccole serre che andavano di moda qualche anno prima: di quelle contenute in una stanza, piene di vasi e piante dalle fronde ombrose, solo più disordinata.
Il letto, dalla struttura d'acciaio, stava relegato in fondo alla stanza, contro il muro.
Sopra di lui una sottile serie di mensole era abitata da spessi tomi -Aristotele, Parmenide, Epicuro- misti a vasi di rampicanti cadenti, che pendevano contro i bordi del letto come una naturale tenda di germogli. 
La scrivania era occupata da provette contenenti fiori secchi, libri dalle raffinate illustrazioni botaniche e dai lunghi titoli -bulbi e altri organi sotterranei di immagazzinamento, gimnosperme: conifere e affini; angiosperme: piante da fiore-, e una serie di lettere non aperte.

Sebbene anche la sua stanza fosse in disordine, era qualcosa di completamente diverso da quella di Julius; quasi volesse essere così, volesse mostrarsi studiatamente confusionaria, e ci fosse una programmazione ben precisa dietro a tutte quelle piante, a quel verde e a quei libri aperti.

«Non ho nulla da mangiare, scusatemi.»

«Fa niente» Julius si avvicinò alla scrivania, aprendo a colpo sicuro il secondo cassetto di destra.
Ne tirò fuori uno scolorito pacchetto di caramelle all'arancia.
Lo fece tintinnare con allegria.
«Mi accontenterò di queste.»
Poi le offrì ad Emeline.

«Quindi il vero segreto dell'ermetismo è la truffa?» Lei, appoggiata al bordo della finestra, stava osservando lo stelo di una rampicante caderle lungo la stoffa della gonna.

Ezra si voltò, tra le dita il pacchetto di caramelle. «Assolutamente no.»

Julius si buttò sul letto con uno sbuffo.
«Cristo, quanto sono scomodi i letti della Cattedrale!»

«Emeline, hai presente il canto ventinove dell'Inferno?» chiese Ezra, incrociando le braccia.

Lei roteò poco gli occhi, cercando di ricordare. «Il canto dei falsari.»

«Esatto. Nella decima Bolgia si trovano i falsari. Dante li divide in quattro tipi: i falsari di persona, di moneta, di parola, e gli alchimisti.
Ai tempi della Commedia l'alchimia aveva un'importanza totalmente diversa da quella che assume oggi, ed era considerata una scienza lecita. Dante condanna quella branca della disciplina che veniva detta sofistica. L'alchimia sofistica, l'alchimia falsa, quella, appunto, in cui si utilizzavano frodi e inganni per dimostrare la trasmutazione dei metalli. Ricordi qual era la pena per i falsari?»

«Erano corrotti nel fisico» disse allora lei, tetra.
«Colpiti da lebbra e altre malattie. Giacevano sul fondo della bolgia e cercavano di sostenersi l'un l'altro.»

Julius emise una risatina.
«Se devo andare all'Inferno preferisco che non sia perché ho cercato di cavare oro dall'argilla.»

«Sono indeboliti dalla malattia, tormentati dai pruriti atroci della scabbia, e credo sia un contrappasso lecito. Hanno tentato di snaturare i metalli in vita, il loro corpo viene snaturato dopo la morte» Ezra si sedette sul bordo del letto.
«C'è sempre, in qualunque disciplina, una sfaccettatura sbagliata o opportunistica. Nell'alchimia è la falsificazione. Ma di per sé la scienza esoterica è più celata e meno accessibile delle altre, perciò è più difficile comprendere quando si è di fronte alla sua gemella sofistica o meno.
Molti, moltissimi alchimisti medievali si sono spacciati per tali, sono stati presentati a corti europee di ogni genere, hanno stupito pubblichi interi con le loro trasformazioni, quando in realtà erano semplici falsari, e la loro meraviglia consisteva soltanto in qualche reazione ben bilanciata e un po' di pirite. Questi individui erano considerati alla stregua dei veri alchimisti, quelli che ricercavano il vero fine alchemico. Eppure erano fatti di una sostanza imparagonabili alla loro.»

Julius lo guardava, mentre mordeva le pellicine dell'indice.
Emeline prese una caramella dal pacchetto; era di un arancio intenso, simile all'ambra. Ricordava di aver letto in un libro della Faraday che la pietra filosofale dovesse avere un aspetto simile: cristallina, dal colore cupo e intenso, simile a una gemma rara.

«Quindi il monaco di Bernardo era un falsario.» Julius sgretolò tra i denti l'ultimo pezzo di caramella, poi sistemò un braccio dietro la testa.

Ezra annuì.
«E credo lui lo avesse capito. Per questo non smise mai di ricercare la pietra filosofale.
Per tutta la vita. Nel suo trattato più importante parla del suo viaggio alla ricerca della Grande Opera.
"l'Io è ciò da cui bisogna partire" dice, riferendosi al percorso da intraprendere per dare inizio alle tre fasi di creazione.»

A quel punto Emeline si staccò dalla finestra. «Abbiamo fatto delle ricerche, in questi giorni»disse.
«Ma è stato come se nessun libro volesse darci informazioni utili. Come se ci tenesse celata la verità.»
Ricordava le frasi, talmente prive di senso che le parevano parole mischiate come in una strana partita a dadi.
Julius a volte tornava sulla traduzione dei documenti di Ezra, ma quelli ogni giorno sembravano ancora più restii ad essere tradotti.
Aveva smesso di provare a tradurre qualche giorno prima; Emeline, dal piano terra di Blackcurrant, lo aveva sentito strappar fogli per quello che le era sembrato un secolo intero. Quando poi era sceso per il tè aveva solo detto: «Credo che mi prenderò una pausa.»
Ma con i tomi della biblioteca la situazione non era diversa.
Tutto era troppo criptico; velato di una nebbia densa, protetto da mura solide come quelle che ammantavano quei castelli che, in campagna, si scorgevano sempre tra la foschia.

«Lo sospettavo» disse Ezra.
«Anche per me è stato così. In questi giorni ho provato a documentarmi -la biblioteca di Glasgow fa impallidire la nostra- ma tutto mi è sempre parso troppo confuso... impossibile da capire, come leggere un dialogo di Platone a dieci anni.»
Poi si alzò, rimase a pensare qualche secondo e si volse verso le mensole piene di libri.
«Sappiamo che il percorso alchemico ha il fine di sconvolgere l'individuo, di riassestare la coscienza e di farla combaciare di nuovo con la Natura e il resto del mondo. Cos'altro?»

«Ci deve essere una crescita interna. Una specie di cancellazione dell'identità, una volontà di ripulirsi da ciò che è superfluo.»Julius si mise seduto a gambe incrociate, le mani a stringere lungo le caviglie.

«Esatto!» Ezra sorrise, saltando sul letto per raggiungere la mensola più alta.

«E poi? Cos'altro?»

«È... è necessario staccarsi dai sentimenti negativi, dalle pulsioni, da tutto ciò che non ci permette di ricongiungerci col nostro genio. Si deve costruire una connessione con il proprio nume.»

«Deus, ecce deus¹» fece Julius, citando Virgilio.

Ezra rise: le sue risa sincere ed euforiche riecheggiarono tra le fronde delle piante. «Esatto, esatto» disse, per poi mormorare, mentre prendeva un libro.
«Dio, siete davvero così sagaci!»

Julius ridacchiò, poi con un gesto deciso si alzò dal letto.
Emeline si avvicinò ad Ezra, ma lui allontanò dal suo viso il libro, impedendole di leggere il titolo.
«È vero, non sappiamo precisamente nessun procedimento, ma la storia di Bernardo mi ha fatto riflettere.
"l'Io è ciò da cui bisogna partire".
Bisogna indagare nell'Io, nell'anima razionale per potersi specchiare dentro.
Bisogna ricercare l'essenziale, il vivere senza ingombri esterni, vivere secondo ragione, alla ricerca di un ricongiungimento con qualcosa di maggiore. Noi, che dal basso guardiamo sempre a qualcosa di più alto.»
Strinse la spina del libro tra le dita, e lo voltò. Era un vecchio tomo delle Enneadi di Plotino.

«E chi ci parla di contatto con la coscienza, chi ci mostra i presupposti per quest'unione mistica meglio della filosofia?»

glossario

¹Deus, ecce deus: il nume, ecco il nume!
Parole pronunciate dalla Sibilla Cumana, in riferimento all'arrivo dell'ispirazione poetica.

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