Capitolo XXV- Solve et Coagula

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I giorni di ottobre si erano susseguiti con una logorante e malinconica lentezza, mentre una graduale e dolorosa presa di coscienza si instillava negli animi, e tutti iniziavano a comprendere di esseresi definitivamente lasciati alle spalle l'estate; le finestre coperte da una lieve patina di brina opaca, e gli studenti, che avevano preso a indossare il cappotto sotto il mantello dell'uniforme, davano un senso di atrofizzata tristezza, una lieve depressione invernale che si stava lentamente risvegliando: nessuno animava più il cortile esterno, e laddove prima c'erano scacchiere di dama e studenti sonnecchianti allora non rimaneva che il fogliame secco e l'erba spessa, trascurata dai custodi, i quali sembravano agire solo d'estate.
Al cortile venne presto sostituita la sala interna all'Università. Un salone spoglio e pieno di spifferi, ma al cui centro regnava un caminetto di ardesia in cui bruciavano sempre legna e carta proveninente dai quaderni di chi studiava lì vicino.

Il cielo non sembrava far altro che essere plumbeo, e, capriccioso, diventava sempre più restio a lasciare spazio ai deboli raggi di un sole pallido e ammalato: non avrebbe nevicato ancora per un mese, ma al momento nessuno poteva saperlo. Si parlava di folte nevicate e di passaggi bloccati, e una lieve preoccupazione aleggiava nell'aria, seconda solo a quella per gli esami: se avesse nevicato, una di quelle mattine, sarebbero rimasti costretti dentro all'università? Oppure, se avesse preso a nevicare mentre si era di ritorno verso casa, cosa sarebbe successo?
Un'infernale bufera, i cavalli che impazzivano, le carrozze ribaltate: l'argomento monopolizzò presto le chiacchiere. Tutti si erano lasciati trasportare da una banale e drammatica paura, esageratamente pessimistica, sul proprio sciagurato futuro.

«Ma insomma» fece a un certo punto Ezra, il quale, seduto su una delle poltrone vicino al caminetto, stava cercando di studiare qualcosa a proposito del campo elettromagnetico.
«Sembra proprio che voi non abbiate mai vissuto in Scozia! Guardatemi, sono americano e l'idea di una possibile tormenta nemmeno mi sfiora la mente. È raro che nevichi a Edimburgo, e non succederà fino alla fine di dicembre.»

«Lasciaci sognare» aveva ribattuto un tipo, che sembrava star studiando dal suo stesso libro.
«Nella fortunata ipotesi in cui una valanga travolgesse la mia carrozza, non dovrei più studiare per questo maledetto esame!»

Julius, seduto sull'altra poltrona, aveva riso; la febbre aveva imperversato per altri tre giorni da quel pomeriggio di inizio ottobre, e al quarto giorno di malattia Ezra sembrava intenzionato a chiamare un medico. Era stata Emeline a fermarlo, dicendo che la febbre sarebbe scemata da sola, e che non c'era motivo di consegnarsi così facilmente all'autorità, quando la sua non era né una febbre infettiva, né una cronica, bensì qualcosa di totalmente diverso e da cui sarebbe guarito; non era, quindi, uno di quei malanni deliranti che col tempo prosciugavano il corpo, che scucivano la vita punto per punto.
Così nessun medico fu chiamato, e Julius il quinto giorno guarì. Da allora era tornato in salute esattamente come prima -benché il suo costante e tipico pallore suggerisse il contrario- e, a parte una notte in cui si era svegliato piangendo, gridando di sentirsi nuovamente la febbre, tutto sembrava essere tornato come prima.
In quel momento stava seduto, le braccia lungo i braccioli della poltrona e un tallone appoggiato al ginocchio dell'altra gamba, ascoltando Ezra con divertimento.

«Per favore, aggiungete altra legna.» Emeline, appoggiata in quella porzione di muro in cui la carta da parati sembrava pericolosamente in procinto di scollarsi, indicò due ciocchi di legno ai ragazzi che erano più vicini al fuoco.
Quelli annuirono con garbo, prima di gettare tra le fiamme la legna.

«Hai freddo?» chiese Ezra, alzando gli occhi dal libro e togliendo gli occhiali, con un gesto veloce e abituato.

«Non proprio» rispose lei. «Ma non mi piace vedere il fuoco spegnersi.» Poi riprese il libro che stava leggendo, e del quale teneva il segno con un raffinato segnalibro d'argento.

«Non credevo avessi tempo per dilettarti nel leggere qualsiasi cosa che non fosse da studiare» ironizzò Julius, allungandosi oltre lo schienale della poltrona per osservare il titolo.
Dietro di lui, fuori dalla finestra, era iniziata la pioggia, e il cielo, nonostante fosse mattina, era ancora torvo e buio come il fondo di un lago.
«La Mandragora» disse. «Di Machiavelli lessi soltante il Principe; e non mi dispiace il suo pensiero.»

«Oh, nemmeno a me» ribattè Emeline, seria e assorta nella lettura.
Poi qualcuno si alzò, annunciando che mancava poco che una decina di minuti dall'inizio delle lezioni; molti presero ad alzarsi, altri cercarono di assaporare gli ultimi momenti davanti al caldo del caminetto.

«Andiamo» disse Julius, alzandosi con un placido slancio, e porgendo la gelida mano a Ezra.

«Emeline» aggiunse poi. «Oggi ti voglio vicina a me, così ascolterai Lucano, per una buona volta!»

Si doveva percorrere un gran tratto a piedi, lungo l'erba, per raggiungere l'edificio in cui si svolgevano le lezioni; quello della sala grande era distaccato, ed era quindi quello che, prima che la Vaas diventasse un'università, era stato abitato da chi l'aveva costruita. Solo quella sala era accessibile, mentre il resto non era altro che polvere e mobili coperti da lenzuoli bianchi: una casa per gli spettri.

Ezra rimaneva vicino alla collina, distanziato e lontano dagli altri, calpestando un passo dopo l'altro l'erica di quell'immensa collina: gli steli, ondeggiando con violenza, sbattevano contro il suolo di continuo, e si piegavano al gelido vento con una rabbiosa obbedienza.
Emeline, stretta in quella sua mantella bordata di visone che le si muoveva addosso come l'onda di un mare in tempesta, si voltò; i capelli le caddero sul viso, sfuggendo agli altri legati sul capo, e raggiunse Ezra.
«Ti prego» disse, agitando l'ombrello nella mano,
«Sbrigati, il rumore del vento mi sta facendo impazzire.»

Ma lui scosse la testa, e con un gran fiatone le fece segno di proseguire.
«Oggi è un giorno storto, per l'asma» ansimò, ridendo.
«Sai, mi aspettavo che accadesse. Sto troppo bene da troppi giorni!»

«Allora sopporterò il vento, va bene» si stancò lei, porgendogli il braccio. Lui ricambiò, tossendo e tentando invano di togliersi i capelli pallidi dal viso.

Percorsero qualche metro controvento, prima di udire: «Eccolo, allora!» alle spalle, d'improvviso.

Emeline si voltò subito, Ezra impiegò qualche attimo per comprendere che la voce provenisse da dietro di loro.

A scendere dalla collina, con uno spesso mazzo di chiavi in mano e il cappotto che, logoro, gli sfiorava i piedi, c'era il custode.
Un uomo magro, dall'aspetto polveroso e diffidente: tutto in lui richiamava al grigio, dal colore dei vestiti fino a qualcosa di più difficile da descrivere, qualcosa che aveva a che fare con l'aurea che si portava dietro, e che Emeline immaginò fosse composta di fumo e terriccio.

«Eccolo, l'Americano, lo sporco bastardo!» continuò, avvicinandosi, ridendo con un tale ghigno che Ezra, tremante, strinse subito il braccio di Emeline. «Emeline, andiamocene» sibilò, e sembrava sinceramente spaventato.

«E si porta appresso quella sua tale giocondina! Scommetto che c'è di mezzo anche lei, sì, scommetto che anche lei non si fa riguardo nel rubare le cose altrui, nell'infrangere le regole e nell'essere una sudicia bugiarda!»

«Non l'avete detto davvero!» esclamò lei, sconvolta, senza nemmeno capire che cosa stesse succedendo.

«Oh, certo che l'ho detto, e lo penso con ogni mia fibra, signorina! Allora, dov'è ciò che mi avevi promesso, eh, Felix?»

Lui scosse la testa. «Non tengono semi di papavero all'interno dell'erbario.»

L'altro scoppiò di nuovo a ridere, e questa volta, sotto la luce debole del lampione, si scorse il marcio dei suoi denti.
«Ecco un'altra bugia. Proprio non riesci a privartene; nessuno ti ha mai detto che non sei un bravo mentitore? I semi ci sono, li ho visti io stesso!»

«Emeline» disse Ezra per un'ennesima volta. «Emeline, cristo, vattene.»

Ma lei rimaneva immobile, statuaria, mentre lui la pregava stringendole la mano talmente forte da lasciarle impresse sulla pelle le mezzelune rosee della morsa delle unghie.
«Ve li porterò domani» disse poi, rivolto verso l'altro, con un autocontrollo completamente diverso da quello che aveva assunto con lei.
«Datemi il tempo di tornare di nuovo nell'erbario.»

Il custode sbarrò gli occhi, -infossati come quelli di un pesce morto da qualche giorno, psicotici e infiammati da una miriade di capillari espolsi- e si fece improvvisamente serio.
«No, ma che hai capito? Non ti darei mai più un'opportunità, nemmeno se venisse Gesù Cristo in persona a ordinarmelo! Hai perso la mia fiducia, cretino! Ora tutti lo verranno a sapere, tutti sapranno che tu e la sguadrina che ti porti dietro non siete altro che deviati in cerca di allucinazioni!»

Cercò di afferrare Emeline per un braccio, continuando a dire "vieni qui, non scappare! Che c'è, hai paura di essere espulsa?" quando lei, all'ennesimo suo tentativo di agguantarla, si girò e gli si rivoltò contro come una vipera: veloce, con un gesto secco e violentissimo, lo colpì dritto al volto con la punta dell'ombrello.
Lui cadde tra l'erica, ululando e premendosi il naso tra due mani, mentre il sangue gli sgorgava dalle narici e dalla ferita aperta in mezzo alle sopracciglia. Quando la luce gli illuminò il viso, Ezra si portò una mano alle labbra, lentamente, non tanto per lo shock quanto come se stesse pensando, ragionando sul da farsi; della faccia del custode, tinta di cremisi, s'intravedeva il bianco dell'osso, all'altezza del setto nasale.
Lui gridava, bestemmiava, lanciava ingiurie contro entrambi, ma ciò che disse Emeline lo fece star buono all'improvviso, come un bambino in ascolto della madre.

«Non sarei voluta arrivare a questo, signore» disse lei, monocorde.
«Ma voi avete minacciato di violare la mia persona e la mia immagine, e non posso permettere che accada. Se vi sentiremo parlare ancora di ciò che è successo tra noi, o se vi udiremo anche solo pronunciare il nostro nome, agiremo rivelando la verità; ovvero che voi siete un violento e un depravato con il vizio dell'oppio, e che aggredite e diffamate gli studenti. Credo che la scuola prenderebbe una decisione sul vostro conto già udendo la prima informazione: quindi vi sarei grata se non ci seguiste, non ci parlaste e non diffondeste mai più voci sul nostro conto; dopotutto la bilancia della ragione pende già abbastanza a nostro favore.» E, davanti al silenzio dell'altro -interrotto solo da qualche vano singhiozzo- aggiunse, con voce più tremante:
«Dite che vi siete guadagnato la ferita in qualche pub della città, e riguardatevi: è un colpo grave, e può essere soggetto a infezione.»
Poi si voltò, e prese a camminare.
Ezra, vicino a lei, era muto.
Per tutto il resto del giorno soffrì di un terribile attacco d'asma.

La sera di due giorni dopo tutti si riunirono alla Tenuta, sotto un informale ma deciso invito da parte di Emeline stessa.
Quelle finestre un tempo lasciate perennemente aperte -tende che, spettrali, svolazzavano sempre leggiadre come veli da sposa- risultavano ora tutte chiuse, il freddo sbarrato all'esterno dai loro vetri spessi e colorati; il labirinto non era più in fiore, e nel suolo giacevano schiere e schiere di sottili fiori di gelsomino, bruniti dal marcire e ammorbiditi dalla fanghiglia.

Quando Ezra e Julius si presentarono alla Tenuta, Emeline li accolse con il suo caratteristico temperamento tiepido, scambiando un breve abbraccio con tutti e due; e quando entrambi posarono i vari cappotti -Julius ne indossava uno particolarmente bello, dalla fodera di seta e decorato all'esterno da ghirigori orientaleggianti, che richiamavano alle lontane Indie con i loro intricati disegni di foglie e alberi da frutto, palme e uccelli tropicali- lei li condusse subito alla sala da cena, dove il tavolo regnava protagonista nella penombra del salone, brillante dei suoi candelabri e dell'argenteria che, come un gruppo di ciottoli sul fondo di un fiume, riluceva di una sgargiante luce color albicocca.
Presero posto di fronte ai piatti vuoti, ma dopo pochi minuti arrivò Isla, le guance arrossate e l'aria rubizza, che posò al centro del tavolo un'enorme zuppiera, mentre sottovoce canticchiava qualche strofa di It was a dream, passando tra un ospite e l'altro.
«Allora, come procedono gli studi?» chiese a Ezra, affettuosa, chinandosi per versargli la zuppa nel piatto.
Era capitato diverse volte che, nel corso di quel mese, lui e Julius si fossero fermati alla Tenuta durante il dopocena, chiusi nel salotto di Emeline a confabulare, come era solita dire la governante.
La donna, di temperamento espansivo e con una vera predilezione per gli studenti, aveva presto fatto amicizia con entrambi.
Reputava Ezra un bel ragazzone cordiale -tutti ne ridevano: Ezra era esile come una spiga di grano- e di Julius affermava di rispettarlo poiché studioso -lo vedeva, infatti, sempre chino sui libri-.
Tutti e due le volevano ormai bene quasi fosse stata la loro domestica: lei, con gli occhi sorridenti e la risata facile e contagiosa, si faceva adorare dai bambini e, con qualche tattica in più, faceva breccia anche negli adulti. Aveva imparato quale fosse il dolce preferito di Ezra – la crostata ai mirtilli- e quale tè Julius preferisse mentre studiava -earl grey, con latte-. 

«Procedono bene» esclamò Ezra con un sorriso, mentre lei gli schioccava un bel pizzicotto sulla guancia, e quella si faceva più rosea.

«Bene!» disse lei. «Bene! Nella vita si deve studiare più che si può! Lo dico sempre, alla signorina Barclay.» Si rimboccò le maniche della camicia ricamata che portava dietro il grembiule, e che le stringeva lievemente all'altezza del collo, prima di versare la zuppa nel piatto di Emeline.

«E mi sembra che io ti stia dando più che retta, Isla» rispose lei, mite, col suo tono limpido e blandamente canzonatorio.

«Anche troppo» scherzò Julius, e il languido sorriso che gli illuminava il volto scomparve non appena portò alle labbra il cucchiaio.

«Grazie, Isla» fece Emeline.
«Stasera puoi andartene prima. Noi staremo buoni in sala.»

Lei sembrò contrariata. «Ma c'è ancora da pulire i piatti...»

«Lo potrai fare domattina.»

«E se aveste bisogno di qualcosa? Di una tazza di tè?»

«Sapremo arrangiarci da soli. Grazie, Isla.» Le porse un bel sorriso, sincero; sorrisero anche gli occhi.

La donna, -aveva visto crescere quella ragazza, da quando ancora abitava col padre. Dio, il suo sorriso non era cambiato per niente! Lo stesso esile e contenuto che aveva da ragazzina- la guardò per qualche secondo, prima di annuire, e dire:
«Come desiderate, signorina.» Poi  si congedò da Ezra e Julius, che, perplessi, la salutarono di rimando.
Quando Isla ebbe chiuso la porta alle sue spalle, Julius si voltò subito verso Emeline.
«Non la fai mai andare via a inizio cena.»

«Oh, ma non aveva motivo di restare. C'è un solo piatto a questa cena, ed è un ritrovo del tutto informale.» Bevve del vino dal calice che aveva davanti a sé; le labbra le si tinsero di rosso.

Ezra si guardò intorno, prima di bere il primo sorso di zuppa. Il suo viso si contrasse in una lieve smorfia, ma dopo un attimo tornò a bere.

«Allora, avete saputo del custode?» fece all'improvviso Julius, gli occhi scuri scintillanti di piacere nel raccontare. «Il naso rotto. Non si è visto per tutto il giorno, ieri. E oggi, quando si è ripresentato, con garze e tutto il resto, quant'era ridicolo!» Poi guardò entrambi: Emeline e dopo Ezra, ridacchiando con quel suo solito fare annoiato e sommesso.
«Terribile, davvero» fece Ezra, ma Julius gli prese una mano, e gliela strinse per poco, prima di tornare alle sue posate.
«Come se voi non c'entraste» mormorò, cogliendo entrambi alla sprovvista.
Emeline, rimasta in silenzio fino ad allora, sembrava voler proseguire nel suo pacifico mutismo.

«Tranquilli, tanto non m'importa. Se l'avete fatto, probabilmente se lo meritava. Non voglio sapere più del dovuto» continuò Julius, sistemandosi i capelli con un rapido gesto delle dita.

«È stato un incidente» disse solo Ezra, eppure, come Julius, sembrava più che tranquillo.

L'altro annuì soltanto, prima di continuare a mangiare, immerso in un religioso silenzio; anche Ezra tornò alla sua zuppa, ma, colto da una improvvisa repulsione per la stessa, mormorò:
«Questa zuppa non è male, davvero, ma...»

«Emeline, è terribile» fece Julius.
«L'ho mangiata solo perché c'era Isla davanti a me, e so che si sarebbe dispiaciuta. Ma è disgustosa!»

Anche lei beveva, ma sembrava del tutto indisturbata. «Non l'ha fatta Isla» replicò, parlando per la prima volta e pulendosi le labbra contro il tovagliolo.  
«Ed è un po' amara, lo ammetto. Ma non c'è altro modo di camuffare la madragora. Ha un sapore troppo forte.»

A quel punto seguì un gelido e sconvolto silenzio. Ezra appoggiò il cucchiaio contro il piatto con una lentezza quasi irritante, mentre incrociava lo sguardo di Julius.
Lui pareva pietrificato, la spensieratezza di qualche attimo prima sfuggita d'un colpo dai suoi lineamenti.

Emeline ricadde contro lo schienale della sedia, sembrando stanca di quella verità.
«Sapete, alla fine credo mi sia giunta come un'illuminazione. La Mandragora: come abbiamo fatto a non pensarci? La pianta alchemica per eccellenza, che porta saggezza e visioni. Rappresenta l'androgino, l'uomo e la donna, l'incontro tra l'umano e il vegetale: mi pare uno strumento perfetto per il contatto con la Natura stessa.
Certo, è stato difficile trovarla, e ammetto che sarei dovuta essere spaventata dalle sue terribili urla, se mi fossi affidata alle credenze popolari; è raro che cresca nella brughiera, -come è raro che vi ci cresca qualsiasi cosa-, ma, lungo il sentiero soleggiato che porta alla chiesa del paese vicino, tra i cardi e l'ortica, ne ho trovato una bella radice.
È quella che ho usato nella zuppa, ed è lei la parte che ci serve: vertigini e allucinazioni, ecco i suoi effetti. Anche una leggera tachicardia, ma non importa: questa è davvero la pianta che cercavamo.»Guardò la zuppa senza espressione.
Nei suoi occhi brillava un orgoglio velato.

«Emeline, ci hai avvelenati!» gridò allora Julius, alzandosi dal tavolo di scatto, il panico nella voce e lo sguardo, acceso e terrorizzato, puntato su di lei.

Ezra, bianco in viso al pari di uno spettro, sembrava improvvisamente incapace di formulare parola. «Quanta ne hai messa?» chiese infine, in un sussurro.

Lei, che stava continuando a bere, si fermò con garbo per rispondergli. «La giusta dose» disse solo.

«La giusta dose!» rise Julius, isterico, passandosi le mani sul viso con furia. «La giusta dose per cosa? Per cosa!»

«Per quello che cerchiamo, e non cercate di impazzire sotto i miei occhi, entrambi, quando avete tentato di fare la stessa identica cosa un mese fa. Ma al contrario della scorsa volta, questa sarà più fortunata, spero, e di certo meno dannosa!»

«Come fai a sapere che la mandragora non ci farà soffrire ancora di più?» domandò Julius, il quale stava già soccombendo al puro effetto placebo della sua mente, accusando giramenti di testa e tastandosi il polso, in cerca di un acceleramento del battito.

«Perché è di certo più utilizzata dell'aconito, e perché ho studiato meglio la dose.» Si avvicinò a Ezra, ma lui la respinse, facendole segno di restare dov'era.

«No, Emeline» esclamò.
«Non posso crederti! Come ti è saltato in mente di tradirci così?»

«Tradirvi?» fece lei, inclinando il viso con perplessità.
«No, ho fatto solo quello di cui non avevate il coraggio. Con l'aconito è stato disastroso, è vero, ma da allora avete fatto finta di niente, come se non avessimo iniziato nessun progetto! Ci siamo promessi di concluderlo, e cause maggiori ci obbligano a farlo, o hai già dimenticato la corrispondenza di tuo padre, Ezra? Solo perché si è sfoltita, non vuol dire che il problema sia scomparso! Ma voi siete così, siete come cavalli col paraocchi; appena le difficoltà si occultano per poco ve ne dimenticate, le trascurate e pensate di nuovo a ciò che vi rende futilmente felici: un po' come è successo per la questione del custode, giusto? Anche io ho apprezzato le cene, i pomeriggi e le mattinate in vostra compagnia, e giuro che amo stare in pace con voi, ma c'è dell'altro nelle nostre vite, qualcosa di più dei tè delle cinque e degli esami, o ve ne siete già scordati, per Dio? La febbre di Julius ci ha spaventati tutti, ma non pensavo riuscisse addirittura a farvi abbandonare gli studi così facilmente. Forse non avete realmente il desiderio di compierli, o non volete arrischiarvi e mettervi in gioco del tutto; ma io sì. Io sì, soprattutto se so che da questo dipende la nostra sicurezza e libertà, ora che non solo siamo alla ricerca di qualcosa di proibito, ma siamo complici e colpevoli di furto. Ezra: tu che ti mostravi tanto angosciato, dov'è finita tutta la tua preoccupazione? Credevo volessi a tutti i costi sfuggire da quell'uomo che ti cerca. Ma forse mi sbaglio: forse vuoi che ti trovi, forse vuoi portarci appresso nel buio della tua colpa e farci arrestare tutti!» Crollò di nuovo a sedere, e, portandosi l'indice alla tempia in una posa che ricordava quella del ritratto di Baudelaire, cadde di nuovo nel silenzio.

Ezra, attonito, la guardava fisso in volto, gli occhi sbarrati e le labbra dischiuse nel più gelido degli sgomenti. Si sedette sulla sedia vicino alla finestra e, i gomiti sulle ginocchia, disse:
«Tra quanto farà effetto?»

«Questo non lo so. Il tempo d'azione è variabile.»

Julius, rimasto in silenzio fino ad allora, prese il suo bicchiere pieno e lo svuotò con lunghi sorsi, con la stessa avidità di un viaggiatore del deserto che aveva finito da tempo l'acqua che si portava appresso in borracce di spesso cuoio. Poi cercò qualcosa nella tasca della giacca, e ne tirò fuori una piccola boccetta riempita d'assenzio. Bevve anche da quella.
«Oh, Emeline, quanto ti odio» sussurrò a se stesso, scuotendo la testa.
«Eppure mi arrendo. Mi arrendo alla tua orazione! Se devo soffrire, questa volta preferisco non ricordarlo. Allora, cosa vedrò nelle mie allucinazioni? La Fata verde ¹ dopo questo!»

Quando l'aveva vista per la prima volta, lì, china a spazzolare i capelli opachi davanti allo specchio, Emeline aveva subito chiesto se stesse sognando.

«Naturalmente» aveva risposto lei, smettendo di passare la spazzola d'argento lungo il folto strato di chioma, e iniziando ad acconciarla.

«È il sogno più nitido che abbia mai fatto. È per via della Mandragora?»

L'altra aveva scosso le spalle, strette nel suo vestito nero, a lutto, di velluto sgualcito e pizzi macabri, da cui uscivano, lacerandole malamente la stoffa, due emaciate ali di piume scure: ali da cornacchia, da corvo, tristi e brillanti di pece, metalliche come corazze di coleottero.
«Non saprei dirtelo.» La sua voce era gelida e severa; la si poteva quasi scorgere pronunciare ogni parola nel suo algido sospiro, freddo quanto il suo tono; era facile immaginarsela davanti a una lapide nuova, un cumulo di terra fresca: e lei, con occhi disgustati e passo agile, che se ne andava subito appena finita la cerimonia, gli stivali a punta a calpestare con disinteresse quel suolo sacro.
Si portava appresso uno strano profumo di foglie marce e resina, un odore peculiare e opprimente che le strisciava addosso come una serpe; le sue mani, pallide e scheletriche come rami di un pioppo d'inverno, si muovevano in lenti movimenti tutti uguali, tutti dediti a posizionare una forcina dopo l'altra nei capelli scuri. Rivelò il suo volto attraverso il vetro dello specchio, e fu atroce. Gli occhi erano austeri e glaciali, segnati da un criptico disprezzo e cerchiati dai rossori del pianto, e il viso, magro, terreo e tagliente, di una bellezza sbagliata, spettrale e cupa come la noia.

«Dimmi» chiese Emeline, col coraggio dettato dalla convinzione d'essere in un sogno.
«Siamo vicini al ricongiungimento con la Natura?»

Lei non smise di continuare la sua opera, mentre appoggiava tra le labbra pallide e violacee le punte delle forcine. «Lo avete superato, nel momento in cui mi hai rivolto la parola.»
La finestra, dietro di lei, era chiusa; eppure al di là del vetro si mostrava una calma innaturale, senza vento né pioggia: solo il silenzio e un cielo terso, in cui le stelle erano visibili, come in una calma serata d'estate.

«Quindi cosa ci aspetta, adesso?» domandò Emeline, seduta sul bordo del letto, mentre si guardava intorno e capiva di trovarsi proprio nella sua stanza, illuminata dalla fioca luce della lampada ad olio, immersa in una calda penombra.

«Adesso» fece la donna, finendo di acconciare le ultime ciocche, «vi attende la decomposizione.»
Poi, dopo qualche attimo speso a osservarsi allo specchio, -il viso livido e lo sguardo infernale nel suo ghiaccio- predisse, come una Sibilla:
«Decomponetevi, decomponete le vostre credenze, ritornate al principio. D'ora in poi il marcio vi seguirà come se l'aveste addosso, e dentro di voi; cercherete di liberarvene, ma sarà impossibile.
Così come la Morte esso vi comparirà spesso dinanzi, ma oserà solo sfiorarvi, seppur lo sentiate parte di voi stessi. Iniziate il percorso e conoscerete la putrefazione e la notte oscura dell'anima; io qui vi annucio l'Opera al nero, la mia opera: carcasse e caos la nutrono.»

Dietro la finestra si era fatto buio, e un cielo nuovo brillava oltre le imposte di legno: un manto di scura neve copriva le colline d'uva spina, e altra ne scendeva dalle nuvole in spessi fiocchi. Da lontano si scorgevano le luci delle case del paese.

«La Nigredo» esclamò Emeline, meravigliata. «Stiamo per compiere la Nigredo?»

La figura allo specchio non disse nulla, ma prese da terra uno splendido cappello dalla tesa larga, tutto piume scure e mussolina color pece, simile per sostanza alle sue scarne ali; lo posizionò al di sopra della crocchia, con silenziosa meticolosità.
«Solve et Coagula ², così si dice: ed è esattamente quello che farete.»

Poi, come un tuono, si udì un corvo sbattere contro il vetro della finestra; il suo gracchiare isterico ruppe quel silenzio rarefatto.
«Fallo entrare» disse la donna, in un ordine noncurante, mentre lo guardava sbattere le ali e perdere piume davanti a lei.
«Fai entrare il corvo, Emeline, dai ospitalità al simbolo.»

E lei, senza riflettere, aprì subito la finestra.

glossario

¹ Soprannome dell'assenzio, e personaggio a lui spesso associato.
² Solve et Coagula: Sciogli e riunisci. Motto alchemico che racchiude i processi per creare la pietra filosofale.

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