Capitolo XXVI- Ars Magna nostra est

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Erano già scoccate le dieci e mezzo del mattino quando i raggi di un sole gelido e coperto di foschia si erano posati sulla pavimentazione della camera, e quando, concitata, Isla l'aveva scossa per le spalle nel tentativo di svegliarla.
«Signorina Barclay!» gridava. «Signorina, la prego, deve svegliarsi!»

E quando lei, confusa e coperta di sonno, aveva aperto gli occhi, la donna aveva tirato un teatrale sospiro. «Grazie a Dio!» diceva, alzando al cielo le mani nodose e brulicanti di vene.
«Grazie, grazie a Dio! Quell'altro, Cristo santo, credevo fosse morto!»

«Chi?» chiese Emeline, strofinando il viso con il palmo di una mano. «Chi pensava che...?»

«Oh, il signor Deerwood! L'ho trovato in mezzo al labirinto, con solo la giacca addosso... quella che usa sempre, coperto di neve! Ma neppure tremava. Era caldo in viso, quando gli ho sentito il battito del collo per capire se era vivo, ma non febbricitante. Sarebbe dovuto morire di freddo, lo giuro, e ne ero convinta! Oh, quanto ho pianto, quando l'ho trovato tra le foglie, vicino alla statua del senatore! Eppure era tranquillo, e mi è sembrato solo un po' delirante -il minimo, dopo una notte sotto la neve- chiedendomi se ero lì per annunciargli qualcosa... non ricordo bene... ma sembrava spaventato, almeno stranito: appena si è alzato ha rischiato di svenire.»
Terminò di parlare, e prese un gran respiro; poi guardò Emeline con una materna aria interrogativa.
«Cosa diamine è successo? Cosa avete fatto, ieri sera?»

Ma, in tutta risposta, Emeline chiese solo:
«Ha nevicato?»

La donna annuì. «Sì, questa notte. È incredibile: non ricordo abbia mai nevicato così presto, non siamo che agli albori dell'inverno.»

Emeline si alzò di scatto dal letto, scostando le coperte di broccato e le lenzuola stropicciate, e, a piedi scalzi, si diresse verso la finestra.
Scostò le tende con sicurezza, in un gesto febbrile e scrosciante, prima di fermarsi a guardare oltre; la brina offuscava la vista, ma tutto pareva innevato, candido come se nella notte qualcuno avesse steso un grande fazzoletto di pizzo lungo il paesaggio, il quale mostrava i suoi colori solo in rade macchie sconnesse: sbucavano dal bianco come zone aliene, scorrette e sfuggite a quella tintura d'avorio come biscotti mal coperti dallo zucchero a velo.
Era stata una nevicata debole, gracile; le nuvole sembravano averla creata in una tormenta sofferente e non del tutto riuscita, eppure la presenza di quel sottile strato di gelo era già qualcosa di impensabile e terribilmente strano.

«Dove sono gli altri, adesso?» Emeline, ferma davanti al davanzale, osservava il candore delle linee geometriche del labirinto. Le statue, da sotto la neve, sembravano richiedere aiuto nel loro sofferto mutismo.

«In salotto. Li ho lasciati lì e sono venuta a cercarvi. Ma non stanno fermi! Sono come bambini. Si muovono di continuo, sono terribilmente concitati.»

«Ezra è lì?»

«Sì, stia tranquilla. Lui l'ho trovato in biblioteca, con una candela accesa vicino: da rischiare un incendio! Eppure, quando si è svegliato, aveva un bel sorriso in volto.»

«Avvisate che scenderò tra poco» disse allora Emeline, sbrigativa, mentre indossava le pantofole di velluto e si muoveva verso l'armadio, pescandone pezzi di corsetto, una sottoveste in flanella di un verde spettrale e il vestito da mattina; bianco come il paesaggio, delicato nelle rifiniture e morbido in vita. «Ecco, Aiutatemi con questo» disse a Isla, porgendole il corsetto scomposto stretto in mano, simile tra le sue stecche lucide alla carcassa di un animale. Si sedette di fronte alla toeletta, e, quando fece per prendere la spazzola, un fine brivido di consapevolezza le scorse lungo il petto; ricordò quegli occhi crudeli, quelle promesse inquietanti. Guardò una volta ancora il suo riflesso, poi tornò a pensare, la spazzola che si muoveva lenta e meccanica tra i capelli annodati.

Li trovò in salotto, intenti a parlare sottovoce; Ezra accostato al bordo della libreria, Julius steso sullo chaise longue, un braccio dietro il capo e un bicchiere d'acqua in mano; a fianco a lui una coperta di lana, piegata e inutilizzata.
Quando Emeline entrò nella stanza entrambi si zittirono. Ezra si staccò dalla libreria, vibrante d'attesa. «Ha nevicato» disse solo, in un monito implicito.

«L'ho sognata.»

«Cosa?»

«La Nigredo. Almeno, colei che me l'ha annunciata.»Si versò dell'acqua dalla caraffa posta sopra alla credenza di cedro. Notando che Isla era rimasta di fronte all'entrata le chiese di prepare il tè per la colazione, e si chiuse in un composto silenzio finché l'altra non se ne fu andata.

«Aspetta» disse Ezra. «Una donna vestita a lutto...?»

«Sì» asserì lei. «Con sguardo crudele e ali da corvo.»

«Una statua» esclamò allora Julius. «Anche io l'ho vista, ma era una statua; stava al posto di quella del senatore, quella in mezzo al labirinto, e mentre la osservavo si è mossa. Ma mi ha solo comunicato che non spettava a me sapere.»

«Cosa ci facevi, nel labirinto?» chiese quindi Emeline, spiazzata, ricordando il racconto di Isla e lo spavento che ne era conseguito.

«Pensavo di star sognando.»

«Anche io» fece Ezra, annuendo, distante.
«Mi sono risvegliato nella biblioteca; ho sognato di leggere un libro illustrato. Una delle figure era una donna vestita di nero; pensavo di star leggendo Baudelaire, ma il testo mi era incomprensibile: solo quella figura che mi osservava, terribile!» E mostrò i denti in un'effimera espressione di timore e disgusto, ricordando quel viso e quel collo, pallidi e scheletrici come quelli della Morte stessa.

«Ma che cosa ti ha annunciato, Emeline?» Julius, fermo sul bordo del divano, si alzò definitivamente, prese a girare per la stanza, senza pace, esaminando il vuoto come se contenesse la risoluzione dei loro sogni.

«Che stiamo per compiere l'Opera al Nero. Che ci attende la putrefazione, e...»

«E cosa?» Ezra si voltò, i lineamenti distesi e il volto privo d'espressione. «E cosa?» ripeté.

«La notte oscura dell'anima» fece lei, appoggiando il bicchiere sul ripiano della finestra.
Poi, dopo un breve silenzio generale, aggiuse:
«Sapete, credo di aver compiuto un terribile e infantile errore nel credere che qualcosa di esterno potesse effettivamente aiutarci nel percorso; non è stata tanto la Mandragora a farci superare la preparazione al percorso -almeno, non del tutto-, tanto quanto il sogno. Come abbiamo fatto a non pensarci? La sfera onirica, dove regna la mente irrazionale, dove nulla è più governato dalle leggi di questo mondo, l'ambiente in cui tutto si distorce e dove ci stacchiamo dal nostro essere diurno!»

«L'incubazione» disse allora Julius, il tono sottile, quasi stanco.

«Come?» Ezra lo guardò, perplesso; quindi lui gli rivolse una breve occhiata, e scosse la testa. «L'incubazione, dormire e sognare nel tempio. Per i Greci -e credo anche per i Romani, ma controllerò- per i Greci, dicevo, dormire in un tempio sacro portava all'autorealizzazione di sé: durante il sonno si incontrava il dio, ci si metteva in contatto con esso e, di conseguenza, con l'arcano e l'ineffabile. Il dio Oniro -vestito ora di bianco, ora di nero, portatore di sogni e visioni- faceva da tramite per questo processo.»

«Vestito di nero?» chiese Emeline.

«Nigredo» suggerì Julius, ma Ezra fece spallucce.

«Non giungiamo a conclusioni affrettate» disse solo. «Non sappiamo la vera natura di ciò che ci è apparso questa notte, e temo non la sapremo mai; ma in fin dei conti nemmeno deve interessarci, nemmeno deve pungerci l'idea di volerlo sapere. Un dogma: lasciamo che ciò che ci è accaduto sia per noi un dogma di assoluta fede.» Lasciò che Julius gli versasse da bere, poi rivolse lo sguardo all'entrata spolverata di neve, assorto a osservare il candore delle scalinate.
Poi, d'un tratto,  s'udì una forte e veloce sequenza di passi, così concitati e furibondi che anche Emeline, l'unica ad averli riconosciuti, sussultò di colpo.

«Signorina Barclay!» Isla, coperta dal suo vecchio cappotto di logoro tweed, le si avvicinò con una rapidità impressionante, stringendole entrambe le mani. Lei non si ritrasse, ma inclinò di poco il collo per esserle più vicina al volto, allo stesso composto modo d'un cigno.

«Cosa succede?» chiese, pacifica, mentre la donna le stringeva le dita tra le sue, in una formidabile presa ferrea.

«I canarini!» esclamò, il freddo che le spolverava ancora il viso, e in quel momento tutti si accorsero che quella che regnava sul suo volto non era rabbia, tanto quanto terrore.

«Non so come sia entrato, signorina, io avevo chiuso a chiave la porta della serra! Ma, oh, un massacro

Julius ed Ezra si guardarono, solo per un attimo.

«Cosa, Isla?» chiedeva Emeline, mentre sul viso le si stendeva sempre più il manto di un'assopita paura. «Cosa, chi è entrato nella serra?»

«Il corvo!» disse la donna, e, prima di uscire dalla stanza con il grande mazzo delle chiavi in mano, indicò la serra.

La neve la rendeva luminosa e priva di forma: una massa diafana e incorporea, tinta di un bianco macchiato nel suo finale dallo sporco della terra. Regnava un silenzio compatto e paranoico, di quelli possibili solo nelle prima mattine d'inverno.

«Ma non è inverno» stava dicendo Julius, incespando nelle radici che sbucavano dal gelo. «Non può nevicare adesso.»

«Beh, e invece è successo» rispose Ezra, sottovoce. «E per quanto sia surreale, abbiamo una spiegazione.»

Julius chiuse il primo bottone del cappotto che Emeline gli aveva prestato -appartenuto al padre, che aveva riposto in mansarda appena quella tonalità di bordeaux era passata di moda a Londra-, e si affrettò lungo il pendio scosceso della collina che portava alla serra.
«Perché quella... quella cosa ha detto che non ero io quello a cui avrebbe dovuto annunciare la Nigredo?»

Ezra rimase in silenzio per un momento, contemplando i movimenti di Emeline, davanti a loro: si avviava verso la serra con passo misurato e regolare, eppure lievemente più cauto del solito. «Non lo so» ammise infine.
Fece per proseguire, ma qualcosa sembrò fermarlo dal continaure a camminare: Emeline, immobile davanti alla porta aperta della serra, che restava glaciale, statuaria in un'espressione sorpresa e disgustata al contempo.
La vide prendere un gran respiro che le alzò di poco il petto racchiuso tra la stoffa del cappotto, poi dirigersi verso la voliera.
«Emeline» la chiamò, ma lei non diede segno d'averlo sentito.
«Emeline!» gridò ancora, muovendosi verso la serra. Julius, dietro di lui, restava in silenzio: in seguito Ezra non seppe dirsi se lo avesse fatto perché aveva già intuito qualcosa, o semplicemente perché non trovava un senso nell'accellerare il passo, ed era quindi ignaro di tutto.
Ma quando entrambi varcarono la soglia della serra, rimasero dapprima impietriti di fronte allo spettacolo che avevano dinanzi a loro: poi Julius, gli occhi fissi e sconcertati, il volto teso della paura, esclamò:
«Dio, non è possibile.» Mentre le sue scarpe sprofondavano nel terriccio affondò le dita in un cumulo di piume; aggiunse qualcosa di mormorato a proposito della quantità sbagliata di sangue che le macchiava, ma ben presto si zittì del tutto.

Tutti i canarini erano morti.
Le loro carcasse giacevano a terra in un cumulo disordinato, terribile e sporco di terra, fatto di carne divorata e piccole interiora sanguinanti; il campo di una battaglia ridicola, da inquietante storia per bambini.
C'erano piume ovunque: la voliera ne era cosparsa, quasi se ne fosse sardonicamente agghindata, e a quelle rosse e gialle dei canarini si mischiava il nero catrame di quelle di un corvo che si dimenava, psicotico, e dibatteva le ali incastrate nel fil di ferro della volieria.
Emeline gli sedeva vicino, avvicinandogli e poi ritraendo subito la mano, indecisa su quando agire, intimorita dalle beccate che l'animale le scagliava contro di continuo.

Ezra, dopo un momento di distacco, prese la cesoia dalla vecchia scrivania vicino alla finestra, e con cautela fece il giro della voliera, trovandosi infine proprio dietro al corvo. Stava per infilzarlo alla gola, quando Emeline lo bloccò di colpo, repentina.
«No!» esclamò, quasi febbrile nella violenza della sua implorazione. «Non lo fare, Ezra!»

Lui si bloccò, frastornato, mentre le grida del corvo gli vibravano nel petto, addolorandolo: grida sofferte, di tormento, che sembravano lacerare con la sola forza del loro terribile suono.

«Non ucciderlo» lo pregò Emeline, riaquisita la calma. «È il simbolo, non capisci?»

«Il simbolo?» disse lui, ma subito capì: il corvo, la Nigredo, la morte che iniziava a manifestarsi nella sua sordida e sconvolgente maniera.

«Il simbolo della Prima Opera. È un segno, non ti pare ovvio? Quando l'annunciatrice mi ha parlato, mi ha chiesto di far entrare dalla finestra un corvo come questo. "Fai entrare il simbolo" mi ha detto. Questo è il simbolo. Questo è un dono!»

Allora Ezra si voltò verso l'animale, proprio mentre anche Julius si avvicinava, chiedendo:
«Cosa vuoi farne?»

«Liberarlo, innanzitutto» rispose lei, decisa, afferrando le cesoie dalle mani di Ezra; lui gliele cedette con acquiescenza, immobile nell'osservare la bestia dimenarsi e gracchiare: sapeva che quel frastuono acuto avrebbe riverberato in lui ancora per diverso tempo.

Emeline si avvicinò alla voliera, e, stando attenta al becco del corvo, prese a tagliare a debita distanza il fil di ferro. Dopo quanche minuto il corvo era libero, e tutti lo stavano a guardare, come genitori in attesa dei primi passi del figlio.

«Quindi?» fece Julius, contrariato.

«Dovrebbe volare» disse Ezra.

«È ferito» concluse Emeline, indicando l'ala, incrostata sul bordo di sangue. «Va portato in casa.»

«Non se ne parla» esclamò Julius, d'istinto.

«È la mia casa, quindi se ne parla eccome!» Emeline si avvicinò al corvo, che allora sembrava molto più calmo e mansueto, liberato dall'agonia claustrofobica del ferro.
Lei gli mostrò la mano, e lui si limitò a osservarla. Poi gli si avvicinò ancora di qualche passo, gli ripropose la mano, e lui inclinò la testa scura, gli occhi furbi e luciferini che fissavano l'anello di rubini che lei teneva all'anulare.
Fu un secondo, in cui ci fu un breve battito d'ali e un gracchio disperato, un taglio che si apriva nella carne chiara e qualche goccia di sangue, ma dopo un attimo Emeline teneva agguantato l'animale tra la salda presa delle mani, le dita bianche e sporche di sangue nuovo a stringere con violenza il petto del corvo, e lui, da principio spaventato, che sembrava scemare tutto il suo terrore.

«Cristo!» Julius guardava entrambi a bocca aperta, e si mosse solo quando Emeline gli intimò di farlo, passandogli rapida vicino in un frusciare d'ali e di stoffe.

«Visto, Ezra?» escalmò poi lei, mentre si dirigeva verso casa con il corvo ormai quieto, e Isla, dalla finestra, che le urlava qualcosa.
«Visto? Il simbolo si piega al nostro volere!»
E prese a ridere come una bambina.

La neve era cessata dopo un solo giorno da quella irreale nevicata di mezzo ottobre, e tutti erano tornati alle loro giacche e i loro completi autunnali; e benchè l'aria fosse più gelida, e il vento talvolta più persistente, nessuno parlava più della strana neve di qualche giorno prima. Era scomparsa esattamente com'era arrivata, all'improvviso e di nascosto, la notte: ma se n'era andata troppo presto per essere assaporata, e dunque ricordata.

Le finestre erano serrate, a Blackcurrant, e il grido del vento si udiva forte e spettrale oltre le persiane.

«Il corvo» disse Ezra, sdraiato sul divano, un bicchiere di scotch in mano.
«È morto? O sei riuscita a guarirlo?»

«È vivo» rispose Emeline, seduta su una delle poltrone vicino al caminetto acceso, mentre sottolineva qualcosa sul libro di chimica.
«Aveva l'ala ferita, e temendo che fosse rotta, gliel'ho steccata; ma si è ripreso molto in fretta, quindi presumo che non fosse che un semplice taglio. È molto affettuoso.»

«Ma... è solo un corvo, giusto? Un normale corvo, voglio dire.» Julius aveva parlato attraverso la copertina del libro che teneva tra le mani a coprirgli il viso, non smettendo di leggere.

«Cosa ti aspettavi, che le si avvicinasse e le sussurrasse il segreto della vita eterna?» fece Ezra, ridendo. Non era ubriaco, raramente arrivava a quel punto, ma sapeva regolarsi nel bere a un livello intermedio, in cui appariva più ironico e sciolto, più amabile nella conversazione e paradossalmente più tagliente nelle risposte: Julius diceva che lo preferiva sobrio, quando sapeva come replicare civilmente ed era più dolce, ma Emeline lo apprezzava in entrambe le sue facce.

«No, idiota» ribatté Julius. «Ma volevo solo sapere se fosse accaduto qualcosa. Se, da quando quella bestia è in casa sua, Emeline avesse notato qualcosa di strano.» Poi riprese a leggere, mentre Ezra alzava gli occhi al cielo, e scuotendo la testa ciocche bionde si scostavano dal bordo del divano, cadendo nel vuoto.

«Non ho notato nulla» fece lei.
«Almeno, nulla di troppo grave. Non ci sono nuovi sviluppi.» Tentò di avvicinarsi al tavolino dei bicchieri, ma Julius si era alzato d'improvviso, come una furia, lasciando il libro aperto sulla poltrona e dirigendosi verso la porta della sala.

«E adesso dove va?» chiese Ezra, appoggiando il bicchiere a terra e soffocando una risata.
«Dove vai?» gli urlò dietro, ma lui aveva già salito le scale, e i suoi passi rimbombavano sopra alle loro teste, quasi fossero quelli di uno spettro in cerca di comunicazione con il mondo mortale.

«Dio» Ezra si alzò in un veloce slancio, ma si dovette fermare per tenersi al bordo del tavolino, tanto gli girava la testa.

«Ezra» commentò Emeline, lapidaria e senza espressione, guardandolo risedersi.

«No, non dire nulla. Soffro di pressione bassa. Tutto qui.»

Pochi minuti dopo Julius tornò di sotto, dopo una febbrile corsa lungo le scale; entrò nella biblioteca a grandi passi, le gambe lunghe che si muovevano veloci e ritmiche come quelle di un soldatino a carica. «Riesco a tradurre!» esclamò.

«Non è una novità» disse Ezra, ma lui, euforico, gli cingette le spalle, e gli fece osservare i fogli che stringeva in mano. «Guarda!» mormorò, con un lieve affanno a smuovergli il petto.
«Guarda, esattamente dove la scorsa volta non riuscivo a capire una singola parola! E invece ora mi è tutto così limpido, così comprensibile! Come abbiamo fatto a dimenticarcene? Prima eravamo corvi che mordevano la carta senza sapere, ma ora... ora, adesso che è arrivata l'annunciatrice, siamo pronti a capire!»

«Leggi» chiese Emeline. «Julius, te ne prego, leggi ciò che hai tradotto.»

Lui allora si schiarì la gola e, sistemandosi vicino a Ezra, prese la leggere:
«Dunque ci si trova ora di fronte alla prima Opera, la più lunga e la più tortuosa, l'opera del Nero e della Morte: La Nigredo. In essa le morali si sciolgono e la linfa si prosciuga, la carne viene divorata fino alle ossa e tutto sfiorisce: non è tanto difficile approciarsi a questa fase, tanto quanto riuscire a districarsene.
Il catrame si appiccica addosso e fa affondare anche i più puramente intenzionati. Ma ecco come questa fase si presenta: è necessario partire da una sostanza prima, un qualcosa di variabile che possa dare il via al processo: può trattarsi di un'idea, come di un oggetto, come di qualsiasi altra cosa che sia stata impressa dalle intenzioni di chi opera la via della trasmutazione. Guardare al basso, così come all'alto; l'opera al Nero fa abbandonare la vita alla materia, la rende informe e putrida: e anche ciò che prima era un bel fiore, ora sarà marciume.»

Calò un silenzio incredulo, eccitato.
Poi Emeline, rimasta a osservare la finestra per tutto il tempo, sembrò realizzare all'improvviso qualcosa di necessario: i suoi occhi brillarono di un fervore adamantino, ferocemente determinato, e si alzò dal divano, dove Julius abbracciava Ezra ed entrambi cantavano, in preda all'euforia.

«Un bel fiore» mormorò, ma nessuno la sentì.
Fuori le distese di ribes stavano lentamente gelando, e sembravano scolorite; i rovi violacei, le foglie smorte e marroni, decomposte. All'imporvviso le vennero in mente i suoi gelsomini, il fatto che fossero tutti marciti da giorni, che i loro bellissimi fiori bianchi fossero diventati concimi per le lumache e i vermi che stanziavano nel terriccio umido e putrescente del labirinto. I suoi gelsomini. Belli, bellissimi; marciti.

«Julius» lo chiamò, irrequieta, mentre lui ed Ezra si versavano da bere, si scambiavano i bicchieri e saltavano tra uno scaffale e l'altro della libreria.

«Julius» ripeté lei, cogliendone infine l'attenzione. «Dov'è il siero?»

«Che?» fece lui, le guance imporporate dall'emozione, gli occhi brillanti e un vivido sorriso da ragazzino ad arcuargli le labbra.

«Il siero iniziale, quello con i gelsomini!» tuonò lei, impaziente, e allora lui smorzò il suo entuasiasmo; era visibile come dal suo volto sfiorisse la felicità e comparisse un'emozione più screziata e meno elementare, un'emozione che sembrava appartenere meglio al suo volto.

«Di sopra. Nell'armadio del laboratorio.»

«Prendi subito le chiavi» gli ordinò lei, mentre scompariva dalla sala e raggiungeva le scale. «Prendete le chiavi e venite su. Subito!»

Percoresero con febbricitante velocità le scale, e il corridoio fino alla camera di Julius; lui, che era passato a prendere le chiavi, aveva corso più di tutti: arrivò in cima alle scale ansimando, le chiavi strette tra la mano che non si appoggiava al corrimano.

«Ecco» disse. «Spero che tutto ciò sia servito a qualcosa.»

Aprì la porta, ed Emeline si gettò subito al suo interno; spostò la porzione di libreria che apriva il passaggio per il laboratorio, poi si fermò davanti all'armadio: era come se non volesse aprirlo da sola, come se, una volta trovatasi davanti all'oggetto del suo interesse, tutta l'agitazione che l'aveva lacerata fino a quel momento fosse scomparsa, lasciando il posto a una silenziosa attesa, aspettando che ci fossero tutti per osservare la sua deduzione esatta.

Ezra superò l'uscio, e, frenetico, aprì subito le ante dell'armadio; davanti a lui, la provetta che un tempo conteneva le molecole del gelsomino era coperta di muffa, marcia e scura come una notte di pioggia: si stava decomponendo, lentamente e inesorabilmente, senza un'ovvia spiegazione.
Lui la osservò come se fosse un quadro, meravigliato dalla sua putrefazione, quasi affascinato da quel tremendo marcire, poi scoppiò a ridere; risa gioiose e soddisfatte, l'espressione di una conquista desiderata più di ogni altra cosa, per troppo tempo.
«Ars Magna nostra est! Julius, è come dicevi tu, è come scherzavamo insieme!» esclamò, in un soffio, reggendo saldamente tra le dita di una mano la provetta, mentre con l'altro braccio stringeva a sé Julius e poi Emeline, all'infinito, accolti nella sua morsa elettrizzata e viva con confusa felicità; entrambi si lasciarono andare a quell'abbraccio, completamente, mentre le risa di Ezra rimbombavano e scorrevano lungo ognuno dei loro toraci.
«È vero, allora. È vero. L'alchimia è nostra!»

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