Capitolo XXVIII- Mellitos Oculos Tuos

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Il vociare proveniente da fuori non l'aveva svegliato del tutto, ma Ezra aveva lasciato che facesse da sottofondo alla sua dormiveglia, senza prestare attenzione al significato del groviglio di parole che spaziava, ovattato, attraverso i vetri delle finestre chiuse. Rimase steso con la faccia nascosta dal cuscino per un tempo indefinibile, prima che qualcuno bussasse alla porta della sua camera.
Una voce, che riconobbe essere quella familiare di Abraham, lo chiamò.
«Ezra» aveva detto. «Ezra, dovresti venire a vedere.»

All'inizio non gli era sembrato reale, e infatti aveva continuato a rigirarsi tra le lenzuola, senza rispondere. Ma la seconda volta che quelle parole gli furono ripetute, con qualche tono in più di prima, si tolse il cuscino dal volto e si stirò, infastidito.
«Non faccio colazione, stamattina» gridò, verso la porta.

«Non c'entra niente colazione. Vieni a vedere e basta.»

In quel momento si accorse dei passi.
Concitati, uno dopo l'altro, li sentiva battere oltre la porta chiusa della sua camera.
Sulla sedia vicino alla finestra riluceva ancora il nero brillante dell'abito da vampiro; sul comodino c'era un barattolo aperto di pastiglie di morfina con sopra scritto il nome di Julius.

Ezra aprì la porta, e Abraham entrò, senza permesso, chiudendosela subito alle spalle. Si diresse verso la finestra, scostandone le tende e aprendo le ante cigolanti.

«Cosa stai facendo?» Ezra si passò una mano sul viso, mentre indossava la giacca sopra il pigiama e seguiva i movimenti dell'altro, confuso.
La testa gli doleva in maniera quasi insopportabile. Appena le ante della finestra si aprirono il vociare divenne più intenso, più reale; Ezra si sporse verso quelle voci, mentre faceva passare una sigaretta spenta tra le labbra e guardava giù, dove un gruppo di studenti si era accalcato.
In mezzo alla strada che portava agli alloggi dei cuochi e dei custodi era ferma una carrozza, i cavalli infastiditi da tutto quel rumore, che facevano scattare le teste coperte dai paraocchi da una parte all'altra. C'erano anche due medici, ed Ezra li riconobbe subito tra la folla, perché portavano completi eleganti e il cappotto sopra la giacca, guanti alle mani e una valigia di pelle rigida ciascuno. Parlavano col preside della scuola.

«Non penso di averlo mai visto, se non per il discorso ufficiale d'inizio anno» disse Abraham, appoggiando i gomiti al bordo della finestra.

Ezra accese la sigaretta. «Cos'è successo?»

«Guarda lì» fece l'altro, indicando nei pressi carrozza, precisamente dietro al secondo cavallo, dove tra l'erba si scorgeva un lenzuolo grigio, bucato, che andava a coprire il corpo steso sul prato.

«Dio!» fece allora Ezra. «Chi è? Uno studente?»chiese subito, pallido in viso.

Abraham scosse la testa, ma sembrò farlo un secondo di troppo in ritardo, quasi fosse divertito dalla situazione. «No. È il custude dell'erbario. Quell'idiota si è fatto pestare in un pub, non si è curato e non ha detto niente a nessuno, così la ferita gli ha causato una setticemia, o qualcosa del genere. Almeno, questo è quello che ha detto un tipo di Filosofia, che se l'è fatto riferire dalla cuoca.»
La cuoca della Cattedrale, una donna giovane dall'aria tubercolotica, che in qualche modo rassomigliava nell'essenza a una lucertola, stava parlando con una delle cameriere che di sera sparecchiavano i lunghi tavoli della sala da cena. Conversavano fitto fitto, maliziosamente, osservando la scena davanti a loro con velato interesse, le braccia incrociate e il mento dritto, fiero.

«Quando l'hanno trovato?» Ezra espirò il fumo in una lunga e tesa voluta, mentre continuava a guardare le persone sotto di loro, i medici annuire alle parole del preside e le due donne scuotere la testa, gli studenti in cerchio e i professori raggruppati tra loro, quasi parte di una specie diversa, a cui cose del genere non potevano interessare.

«Questa notte, credo. Ma non si faceva vedere da un po', giusto?»

«Non ci ho fatto caso.» Cacciò indietro un colpo di tosse che gli stava infastidendo la trachea, poi tornò a fumare. La testa continuava a fargli male, un dolore opprimente e febbrile, che gli faceva pensare di star impazzendo.

Abraham si staccò dalla finestra e, oscillante, fece per avvicinarsi al comodino.
«Morfina?» chiese al barattolo, con un sorriso stridente. «Non mi stupisco che siano di Deerwood; è giusto che si prenda una pausa dal caos della sua persona, a volte. Ma tu: adesso servono anche a te?»

«Ieri siamo tornati tardi dalla festa al colle» disse Ezra, e si sorprese di non avere nemmeno voglia di risultare troppo convincente nella sua bugia.
«E volevo solo riposare.» Pensava al custode, al telo che adesso lo copriva, a come la setticemia aveva dovuto deformare il suo volto nei giorni agonizzanti che avevano preceduto la sua morte.
Emeline lo sapeva? No, certo che no; come poteva, se nessuno studente che non abitasse alla Cattedrale non era ancora arrivato? Sentì la pressione della mano di Abraham sfiorargli la spalla.

«Vado a radermi» disse lui, con un tono semplice e irritante nella sua piattezza, quasi quell'orrenda parentesi luttuosa non fosse mai accaduta, o non lo avesse sfiorato minimamente.

«Esame di biologia, oggi?» chiese poi, osservando i libri sparsi sulla scrivania.

«Sì.»

Abraham annuì, poi consegnò la morfina nel palmo aperto di Ezra.
«Chazak u'varuch¹» disse, avviandosi verso l'uscita.

«Chazak ve'ematz» rispose Ezra alla porta chiusa.

Venti studenti correvano in cerchio, lungo le linee di vernice tratteggiate ai bordi nel campo da cricket inutilizzato, sotto i comandi gridati del professore di educazione fisica; quello teneva in mano un cronometro, e ogni minuto fischiava per far invertire il senso della corsa ai propri alunni.
Le loro figure sembravano essere gli unici dettagli vividi in quella scena pittorica, ferma nel fosco della nebbia proveniente dalla collina e nelle grigie tinte bidimensionali del cielo.

Emeline si avvicinò al campo, passando dalla zona esterna recintata dal fil di ferro; si fermò proprio davanti alla banchina dove tutti avevano lasciato i loro effetti personali, e dove Julius, impegnato in una disperata lettura del manuale di fisica, stava seduto con le gambe accavallate, mosse dal nervosismo.

«Ti ho cercato tra i corridori, ma non c'eri.»

«Mi sono fatto esentare, oggi.»

«Per l'esame di fisica?»

«No, perché avevo appena sistemato i capelli e non volevo sciuparli. Sì, certo che è per l'esame.»
Teneva lo sguardo incollato al libro, e solo ogni tanto lo rivolgeva verso gli altri studenti, guardandoli senza espressione.
Emeline aveva direttamente scelto all'inizio dell'anno di non partecipare alle lezioni di educazione fisica, visto che l'unico sport che le fosse mai vagamente interessato -il tennis- non era previsto nel programma dell'Università.
Julius, invece, vittima della sua incessante e incosciente curiosità per qualsiasi cosa, si era iscritto; da quando si era reso conto che prima delle eleganti partite di cricket era richiesto un allenamento di riscaldamento non aveva fatto altro che comportarsi da malato immaginario, trovando sempre un pretesto per farsi esentare.

«Dio, come posso concentrarmi, con questo rumore!» sbottò infine, sibilante, chiudendo il libro con un secco impeto di stizza. «Sto rileggendo la stessa frase da più di dieci minuti.»

«Sei irritato.»

«E tu troppo calma, dopo quello che è successo al custode.»

Emeline si ritrasse, d'istinto, sul viso un'espressione infastidita appena percepibile.
«Dovrei essere turbata per la morte di un estraneo?»

«Se ti riguarda personalmente, presumo di sì» fece Julius, monocorde, con la stessa noncuranza che avrebbe utilizzato nel constatare come il cielo fosse carico di pioggia.

«Fino a prova contraria» rispose Emeline, «non riguarda nessuno, se non l'uomo che l'ha picchiato al pub.» Si alzò, e guardando verso la Cattedrale chiese:
«Ezra lo sa?»

«È stato lui a dirmelo.»

«In che modo te l'ha detto?»

«Avendo un attacco d'asma.»
Era appena entrato nel bagno del secondo piano, quando Julius l'aveva visto seduto per terra, vicino alla finestra, mentre lasciava bruciare una sigaretta sul bordo della serranda e tratteneva la tosse.
Gli aveva chiesto cosa stesse facendo, e lui aveva risposto che algebra lo annoiava; poi aveva nascosto il viso tra le mani, confessando la morte del custode tra i singulti dell'asma.

«L'ha detto a qualcun altro?»

«No. Solo a me.»

«Adesso dov'è?»

«A dare l'esame di biologia. Non andare a cercarlo, lo metteresti ancora più in agitazione. Ora è tranquillo, non lo dirà a nessuno.»
Poi le fece segno di sedergli vicino, e il suo movimento mosse l'aria gelida attorno a lui.
«Resta con me, piuttosto. Ci sono delle parti che mi sono oscure, riguardo alla dimostrazione dell'equazione di Maxwell.» Le porse il libro. «Rispiegamela, ti prego.»

Lei afferrò il tomo, osservò la prima pagina e scorse tra quelle successive per un po'. In silenzio, si fermò nell'osservare una precisa pagina, che non aveva niente a che fare con Maxwell, o nulla del genere.
«Quando l'hanno portato via, il telo si è alzato per un momento. E ho visto in che condizione era il suo viso.»

Julius rimase immobile, lo sguardo puntato verso gli studenti davanti a lui; l'unghia dell'indice batteva incessante contro la carne viva ai bordi del pollice, scavando nelle pellicine con frenesia.

«Quando abbiamo seguito il corso di anatomia, l'anno scorso, ci hanno spiegato i sintomi dell'infezione da ferita, ricordi? Gonfiore, rossore, infine cancrena... te lo ricordi?» chiese Emeline, pallida contro la luce filtrata dalla nebbia di quella mattina.

«Sì» rispose lui, voltandosi finalmente a guardarla. Li avevano portati all'obitorio e in sala operatoria; quello era lo stesso esame che, due anni prima, Ezra non aveva passato.

«Quando ho visto il custode, Julius, ecco, la sua era una forma d'infezione molto grave.»
Emeline guardava il libro, ma gli occhi sembravano non far altro che riflettere i suoi pensieri.
«Molto grave» ripeté, ferma, il tono controllato.
Poi sembrò riscuotersi da quel torpore, e, battendo le mani sul libro, esclamò:
«Allora, cosa non hai capito di Maxwell?»

«È avvenuta a tutti gli effetti una liquefazione spontanea. La cosidetta solutio, se vogliamo metterla in termini tecnici. Il composto sembra si sia ridotto alla sua materia indifferenziata.»

La provetta stava al centro del tavolo, ispezionata da Julius, che lanciava sguardi prima a quella e poi al libro che teneva davanti, limitato dai palmi appoggiati al tavolo.

«Il mercurio filosofico.» Emeline stava seduta, le gambe incrociate e le traduzioni di Julius sulle ginocchia; ogni tanto le rileggeva, religiosamente, quasi facendolo potesse assimilarne i segreti. Vicino a lei giaceva lo spesso quaderno delle Calende, aperto in quelle di novembre.

«Il mercurio?» chiese Julius, perplesso.

«Filosofico, sì» fece Ezra, che se ne stava appoggiato alla libreria, placido; sembrava non prestare molta attenzione alle loro chiacchiere, e aveva un tono fiacco, quasi stanco. Ma quando parlò si accese in lui una conoscenza svogliata e naturale.
«La sostanza in cui è intessuta l'anima del mondo. Associato alla luna, alla femminilità, alla resistenza. Un suo altro nome è Azoth; A e Z in quanto lettere iniziali e finali dell'alfabeto, O come fine dell'alfabeto greco e To come di quello ebraico.
Al suo interno vi è il tutto, l'inizio e la fine di ogni cosa; a esso è necessario aggiungere lo zolfo, suo opposto per composizione chimica e simbolismo, per combinare le nozze alchemiche, ovvero quel matrimonio chimico inteso come l'unione degli opposti, che darà come risultato... ecco, l'oro dei filosofi. L'elisir di lunga vita. La negazione della morte; chiamatela come volete.»
Si portò alle labbra una sigaretta, e accorgendosi di non avere un accendino, chiese l'aiuto di Julius; lui gli si avvicinò con la sua sigaretta e le fecero scontrare in una veloce scintilla d'arancio vivo.

«Ma come si può unire lo zolfo al mercurio?» chiese Julius, aggiungendo, subito dopo:
«Voglio dire, come può essere aggiunto secondo il bilanciamento necessario per completare le nozze alchemiche?»

Emeline allora si mosse, improvvisamente animata da un tiepido moto interiore.
«Quello che abbiamo adesso è detto mercurio liquido; ma per completare le nozze alchemiche deve trasmutarsi in Igneo, in un perfetto bilanciamento con lo zolfo. E tutto ciò è attuabile solo tramite la distillazione dell'opera in Bianco, l'Albedo

«Dove il mercurio va a trasformarsi in un liquido dalle capacità rigeneratrici» aggiuse Ezra, liberando da un grumo di cenere la sigaretta.

«Come l'alkaest teorizzato da Paracelso?» chiese Julius, stirandosi a prendere il posacenere.

«Non ci è dato saperlo.» Poi Ezra si alzò, fluido nella sua agilità felina, esclamando:

«Comunque, per riuscire a crearlo dobbiamo sapere con certezza il metodo di distillazione e le proporzioni che dovremmo seguire. E per fare ciò deve prima terminare la Nigredo.»

Emeline inclinò il viso, pensando. «Ma non abbiamo fatto nulla, durante l'opera al Nero. La putrefazione è avvenuta da sola. Cosa abbiamo compiuto, noi, affinché dessimo inizio al processo?»

«Non ne ho idea» disse allora Ezra, portando pollice e indice alla radice del naso, dove brillava la montanura sottile degli occhiali.
Molte cose sembravano ancora sfuggirgli; come sabbia tra le dita, che sottile non si lasciava catturare, le spiegazioni razionali dietro alle azioni di cui erano partecipi sembravano disfarsi, irraggiungibili e inconsistenti.

Julius scorse tra le pagine del libro che teneva davanti, annoiato, lasciandole cadere sotto al loro peso. Poi si fermò, e con uno strano cipiglio sorrise, di fronte a qualcosa di ignoto.
«Mercurio tutto Sol, Sol tutto Luna,
Trina sostanza in una,
Una, che in tre si spande» recitò, suadente.
«Ci vogliono tre persone per fondare una società, ricordate?».

Ezra chiuse la serranda della finestra, lasciando che il legno scricchiolasse sotto il peso delle sue mani. Per quella notte era previsto un terribile acquazzone, di come non se ne vedevano da giorni; con l'inizio di novembre stavano per inoltrarsi in quel periodo nebbioso e torvo, fatto di suoli bagnati e comignoli fumanti visibili in lontananza, con la pioggia che si alternava alla bruma in una costante e suggestiva scena shakespeariana; le colline s'erano perse da tempo tra la foschia, e i rami degli alberi, naufraghi tra le onde di quella nebbia, sembravano richiedere aiuto. C'era un particolare e intenso sentimento nell'aria, un vuoto incolmabile eppure confortante; si sospirava quando ci si sfilava il cappotto, si passeggiava malinconici per i portici dell'Università con l'ombrello bagnato stretto tra dita gelide d'una mano; e quando si volgeva il viso ai monti non si poteva far altro che provare una strana sensazione ancestrale, quasi si osservasse il regno di un popolo antico, e si stesse lì, in mezzo al prato, in attesa della profezia fatale di tre streghe.

Quando anche l'ultima serranda fu chiusa Ezra espirò, e si guardò intorno senza espressione.
Dopo qualche rapido calcolo decise di sedersi al piano, e fu allora che Julius, steso sul divano, rivelò di essere sveglio.
«Ho mal di testa» disse. «Suona qualcosa di dolce, per favore.»

Lui prese a eseguire una gymnopédie, la schiena dritta e le dita a scorrere lungo i tasti con noia. Emeline entrò dopo poco, già coperta di pioggia, mentre si scuoteva dalle spalle del cappotto gocce d'acqua. Chiuse l'ombrello, lo appoggiò all'entrata e la sua figura si vide intensa e illuminata dalle lampade a olio, davanti all'ingresso della biblioteca di Blackcurrant.

«Ho incontrato Duncan sulla strada per Princes street; ha fermato la carrozza per dirmi che domani non ci sarà la lezione delle prime due ore. Devono sgombrare la stanza del custode e non vogliono che ci siano gli studenti intorno.»

Ezra continuava a suonare le sue note evanescenti, dandole le spalle; Julius s'alzò sul gomito, guardandola in silenzio.
«Quindi matematica?» chiese solo.

«Sì» rispose lei, togliendosi un guanto. Strinse una mano contro l'altra. «Ho le mani gelide» ammise, e per provarlo ne portò una alla guancia di Julius, che si ritrasse. Lei allora si allontanò, si stese vicino al camino acceso e sciogliendo la massa di capelli dallo chignon li lasciò spargersi a ventaglio vicino al tepore del fuoco.
Prese a leggere un volume di metrica che Julius aveva abbandonato per terra, ma dopo poco sembrò stancarsi, attirata più da Ezra e la sua musica.

«Saresti potuto diventare un ottimo pianista, se solo l'avesti voluto» disse Julius, lasciandosi di nuovo andare contro il cuscino, tediato da una dolce noia che sembrava averlo accompagnato per tutto il giorno.

«Ho smesso di prendere lezioni quando ho iniziato la Vass» rispose lui, mancando una nota nell'accorgersi dello sguardo attento di Julius.

«La Vass, morte degli artisti» esclamò allora lui, laconico.

«Morte, in ogni senso» mormorò Emeline, e Julius rise.

«Mi sfugge qualcosa» controbatté Ezra, serio, non guardando nessuno dei due.

«Vass in scozzese significa letteralmente morte, Ezra» lo redarguì allora Julius, allungando un braccio a prendere il libro che giaceva a terra.

Ezra sembrò assimilare quell'informazione in silenzio, quasi ci fosse da rifletterne sopra, poi tornò ai suoi tasti e alle sue note tese.
Emeline lo osservava, dal basso del tappeto, il mento placidamente inclinato nella direzione del piano, mentre i capelli le rilucevano di profonde sfumature infiammate.
«Julius» disse a un tratto, «prepara qualcosa da bere.»

Lui, che invece si era concentrato nella lettura di una copia del Secreta Alchimiae di Tommaso D'Aquino, sembrava troppo immerso nella lettura per sentirla. Era una copia antica, almeno di due secoli prima, che Ezra aveva portato da Glasgow; non era strettamente utile alle ricerche, per via della concezione prettamente religiosa che D'Aquino aveva della Grande Opera, ma tutti e tre, da qualche tempo, si erano convinti che avessero passato l'esame per la prima Opera con il solo aiuto del caso, e che quindi dovessero studiare il più possibile di quella conoscenza ermetica in quel momento, quando già erano dentro a qualcosa di più grande di loro.

«Julius» ripeté Emeline, alzando di poco il viso. «Vorrei del porto.»

Allora lui fece un singolo cenno affermativo con la testa, rimanendo intento nella lettura, cercando di finire il paragrafo che lo stava appassionando tanto. Si alzò poco dopo in uno slancio svogliato, dirigendosi verso la porta e scomparendo nel buio delle scale.

Ezra smise di suonare, cedendo una nota alla volta, finchè non rimase a fissare lo spartito in silenzio. Emeline continuava a osservarlo, con discrezione, quasi ammirasse un quadro particolarmente inquietante con l'apatia di un critico.

«L'abbiamo ucciso» disse all'improvviso Ezra, staccando le mani dal piano.

«Non è assolutamente vero» rispose Emeline; spostò lo sguardo agli stucchi del soffitto, lentamente.

«Io l'ho visto, era terrificante. L'abbiamo ucciso.»
Le dava ancora la schiena, ma la sua voce tremava, flessa da una sordida paura.

«Ha avuto una rissa al pub.»

«Emeline» la pregò lui, voltandosi.

«Un uomo gli ha spaccato il naso.»

«Emeline!» gridò allora Ezra, turbato, quasi le parole di lei gli stessero facendo riconsiderare la realtà.

Allora Emeline si rizzò dritta a sedere, gli occhi calmi e brillanti del fuoco dietro di lei.
«Non ci pensare, Ezra, non ci pensare così morbosamente, o ne usciremo entrambi pazzi; è vero, abbiamo contribuito alla sua morte, ma non l'abbiamo ucciso: io l'avevo avvertito di curarsi attentamente, e lui non l'ha fatto, e quindi è morto. Come se per sbaglio tu mi avessi tagliato con un coltello a cena, e io, irresponsabile, non avessi medicato affatto la ferita: la scelta finale è stata sua. Lui ha scelto di morire. Ma non ossessionartici.»

«Non posso, non ci riesco!» sibilò lui, d'un tratto arrabbiato; ma non con lei, quanto più con se stesso, con l'impossibilità di passare oltre al senso di colpa.

«Allora pensala in questi termini» disse lei.
«Se mai dovesse sfuggirti qualcosa a proposito della sua morte, saremmo tutti rovinati. Ci porteresti alla rovina. Come potremmo mai spiegare che la nostra colpa non è stata totale, quanto parziale, non voluta, accidentale? No, non ci crederebbero, ci accuserebbero del tutto e saremmo espulsi, le nostre carriere irrimediabilmente finite, le nostre ricerche inutili. Se vuoi questo, incriminaci questa sera stessa, adesso, in questo momento.»

Cadde un denso silenzio, in cui Ezra si sedette di nuovo ed Emeline rimase a osservarlo, attendendo risposta. Tutti li avrebbero considerati responsabili; l'omicidio rende inetti, rifiutati: nessuno sarebbe più stato capace di ritenerli degni d'ammirazione.

«Quello che è successo il giorno dei morti» mormorò all'improvviso Ezra, guardando la brace nel camino, «quello che è successo quella sera, ecco, ho pensato potesse essere la cosa peggiore che mi fosse mai capitata. Quando la Luna mi si è sgretolata tra le mani ho creduto che nulla potesse pareggiare quell'orrore; la morte dei miei familiari, la sofferenza più atroce, la mia stessa morte sarebbe stato qualcosa di meno angosciante del sentire il sapore della putrefazione addosso.»
Pensò al custode, al suo volto chiazzato e decomposto: decomposto? Ricordava di aver pensato, appena lo aveva visto, quando il vento aveva sollevato il lenzuolo che lo copriva; come poteva essere già in quello stato, se era morto quella stessa notte? Poi, con orrore, aveva realizzato che la ferita doveva aver iniziato a marcire quando era ancora in vita.

«Ma causare la morte di qualcun altro» disse infine, «causarne la putrefazione, ed essere consapevoli di ciò che si è fatto, è decisamente peggiore di...»
Spesso, specialmente quando studiavano biologia e dimenticavano un concetto, tentavano di spiegarlo paragonandolo a un altro, più comprensibile e familiare: eppure allora si rendeva conto che non tutte le cose potevano essere spiegate con qualcos'altro, che l'essenza di certe era insita solo in loro stesse: la morte, e il suo conseguimento, appartenevano a quell'ineffabile categoria.
«È decisamente peggiore di qualsiasi altra cosa» disse. Poi sfogliò lo spartito, e tornò a suonare.

Julius era appena tornato quando Ezra aveva richiesto i suoi occhiali, davanti a uno spartito stampato a caratteri troppo piccoli.
Julius si era allora sdraiato con uno sbuffo, offrendo il porto a Emeline svogliatamente e affermando che non sarebbe tornato di sopra nemmeno per tutto l'oro di Re Mida. Così lei si era alzata, aveva ricomposto i capelli umidi in una treccia e si era avviata verso le scale, dicendo che sarebbe comunque dovuta passare dalla cucina, e quindi avrebbe preso lei gli occhiali.
Lasciò la stanza in silenzio, mentre Ezra continuava a incepparsi nel solito pezzo di un Mefisto Valzer di Liszt.

Una cosa che aveva imparato a proposito di Ezra era che era completamente incapace di lasciare in ordine le sue cose; anche Julius era vittima del suo stesso disordine, ma al contrario suo ricordava e sapeva localizzare i luoghi in cui aveva lasciato i suoi oggetti personali, ed erano sempre in qualche parte della sua stanza.
Ezra, invece, abbandonava occhiali, cravatte e sigarette ovunque, nella stanza di Julius e in cucina, sulle sedie del salotto e addirittura fuori in veranda. Emeline setacciò la camera degli ospiti in cui occasionalmente Ezra alloggiava, nella ricerca sconclusionata dell'oro fine degli occhiali; dopo aver cercato nei cassetti del comodino -pieni di vecchie scatole di latta di caramelle-, aver aperto gli armadi profumati di lavanda e cercato dietro all'orologio sulla scrivania, concluse che Ezra, ancora una volta, aveva lasciato tracce del suo passaggio in altri luoghi di Blackcurrant, incurante che se ne sarebbe ben presto dimenticato.

Arrivò alla stanza di Julius e aprì la porta chiusa; il freddo proveniente dalla finestra aperta le investì gli strati della gonna, facendoli danzare e creare nuove ombre a terra. Accese la lampada a olio che Julius teneva sulla scrivania, e prese a cercare nei cassetti, tra fogli scritti fitti e stilografiche rotte, vecchi volumetti tascabili di poesia e fotografie dagli angoli smussati.
Infine si fermò, bloccata da una tiepida sorpresa, quando riconobbe l'istantanea della sera dei morti; Ezra, raggiante nelle sue risa e inquietante negli abiti, appariva come una macchia spettrale vicino ai toni freddi e scuri di Julius, il sanguigno patrizio della toga e lo sguardo rivolto verso Emeline, quasi volesse rivolgerle la parola; lei, ferma nel bordo della foto, era invece scrutatrice del mirino nei suoi abiti principeschi, la corona a brillare tra la massa di capelli anneriti dal buio della sera.
Afferrò la foto e rimase a osservarla per qualche tempo, rigirandola tra le dita con leggerezza, spendendo tempo nel sezionare ogni piccolo dettaglio dell'immagine.
La girò, noncurante, notando con poco stupore che Julius vi aveva annotato qualcosa dietro, nella sua scrittura sottile e stretta; era solito scrivere date, nomi o qualche commento dietro a ogni foto, appena ne riceveva una.
Ma quando lesse, Emeline provò solo un breve attimo di confusione, un momento anteriore alla realizzazione prima di comprendere che quella frase fosse qualcosa di diverso: mellitos oculos tuos, aveva scritto Julius, fermando bruscamente la sentenza al rintocco di una virgola che non precedeva nulla.

«I tuoi occhi di miele» lesse Emeline; i tuoi occhi di miele.
Abbandonò la stanza senza aver trovato gli occhiali.

Glossario

¹Chazak u'varuch /Chazak ve'ematz: frase idiomatica ebraica, significa "sii forte e benedetto" a cui si risponde "sii forte e coraggioso".

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