Capitolo XXX- Carpe Noctem

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Mancavano esattamente una settimana e tre esami all'inizio delle vacanze invernali, quando Ezra ricevette l'ennesimo telegramma da parte del padre.

Subito, Julius aveva detto:
«Aprilo, almeno questa volta» poi era tornato a sdraiarsi sul divano, mentre, con terribile apatia, guardava le figure illustrate del Sidereus Nuncius e sembrava attendere passivamente l'arrivo dell'Albedo.

«Sì, ha ragione» Emeline stava invece in piedi, il libro di latino in mano, a studiare per uno degli ultimi esami della sessione.
«Ormai finiscono tutte nel camino» aveva dichiarato poi, a se stessa, un po' malinconica per via di Cicerone.

Ezra si era guardato intorno e aveva obbedito, prendendo il tagliacarte di Julius; con un colpo secco la lettera era sgusciata fuori dalla busta, scivolandogli sulle ginocchia.

«Cosa dice?» chiese Julius, leggermente più incuriosito di prima.

Ezra era rimasto in silenzio, rileggendo più volte quelle poche righe, la lettera stretta tra le dita macchiate d'inchiostro.
«Vado a fare una telefonata. Julius, il telefono funziona, giusto?»

«Certo» si era posato il libro sulle ginocchia.
«Aspetta» l'aveva poi ripreso, ma Ezra era già nel corridoio, i suoi passi attutiti dalla distanza.
«Cosa c'era scritto, Emeline?»

Lei scosse la testa. «Non ne ho idea. Non conosco l'ebraico.»

Calò il silenzio, e allora Julius si lasciò andare contro lo schienale del divano.
«Sai, non ho mai saputo cosa gli dica in quelle lettere, ma improvvisamente quando il signor Felix non scrive in inglese Ezra è molto più propenso a dargli retta.»

«Ha già ricevuto lettere di questo genere?» fece Emeline, e Julius rise, con una strana punta di irritazione.
«Diverse volte. E ognuna non manca nel spaventarlo terribilmente.»

«Mi chiedo cos'abbia da temere adesso» ironizzò Emeline, mentre tornava con gli occhi sul libro.

«Oh, no, non è per i documenti. Per quello suo padre si sta riorganizzando, presumo, perché nessuna minaccia che ha usato contro il figlio fa più effetto. Ezra sta seriamente rischiando ogni possibile contrappasso per questa diamine di impresa secolare.»

«E non teme assolutamente nulla di ciò?»

«Teme tutto, ma niente abbastanza per fermarsi. E poi, ormai, c'è dentro fino al collo; è chiaro anche a lui che tornare sui suoi passi adesso non è cosa che valga la pena fare.»

Rimasero in silenzio per qualche minuto, Emeline a scriversi le traduzioni sopra i testi in latino e Julius a guardarla, assopito dal freddo.

«Sai,» aveva iniziato Julius, ma rimase interdetto, la frase lasciata a metà.

«Perché dovete sempre esagerare!» si sentì all'improvviso, dal corridoio. La voce di Ezra aveva infranto il silenzio in maniera brutale; Julius era sobbalzato, voltandosi subito verso il buio dietro alla porta d'ingresso.
Poi Ezra aveva abbassato la voce, sibilando qualcosa di incomprensibile, che Emeline non fu nemmeno certa fosse inglese; vedeva la sua figura scura nell'ombra del corridoio, appoggiata al telefono con tutto il peso, la cornetta stretta forte tra la mano
«Bevakasha, vi prego, fatelo per la mamma. Fatelo per lei, almeno.» Gli tremava la voce, forse per la rabbia. Attorcigliava il filo del telefono attorno alle dita.
Dopo un silenzio che parve eterno disse solo:
«Va bene. Arrivederci. Sì, sì. Lehitra'ot.» E appoggiò lentamente la cornetta al muro, soppesando il movimento quasi volesse farlo durare il più possibile. Rimase fermo dov'era per qualche secondo, poi si voltò e, deciso, tornò nella stanza.

«Scusatemi» disse, con un sorriso, «è che mio padre quest'anno lavora veramente tanto, e quindi non è sicuro di poter essere a casa per l'inizio dell'Hannukah; credo che dovrò restare uno o due giorni in più alla Cattedrale, prima che riesca a farmi venire a prendere.»

«Ma non potresti direttamente andare lì da te?»chiese Julius, senza tono.

«Temo non sia possibile.» Ezra si sedette sulla poltrona dalla libreria, e sembrava stanco, quasi esausto. «E comunque non mi cambia nulla restare due giorni in più alla Vaas. C'è un libro di Scott che devo finire.» Poi si voltò verso entrambi e, sorridente, esclamò:
«Nemmeno mi ero reso conto che mancasse così poco alle vacanze invernali! Questo credo sia stato il semestre più surreale della mia vita. È incredibile pensare che manchino tre esami alla fine; e i più complicati, poi. Io devo ancora dare matematica, fisica e anatomia.» Si stirò. «Voi cosa pensate di fare, questo dicembre? Julius, tu che non festeggi il Natale, immagino ti chiuderai qui a leggere Orazio.» E scoppiò in una delle sue brevi risate contagiose; nessun'altro rise, ma rimasero discretamente sorridenti.

«In realtà pensavo di trasferirmi nell'appartamento. Gli studenti a cui l'ho affittato tornano a casa per le vacanze. Preferisco stare in città, ora che sta iniziando a nevicare tutte le notti.»
E infatti era da diversi giorni che ogni sera si serravano le finestre, si accendevano i camini in ogni stanza e la neve cadeva copiosa fino alla mattina, quando, spalancando le porte d'ingresso, cumuli di ghiaccio e neve fresca facevano irruzione nell'entrata di casa.
La città, graziata dal bianco elegante di quelle nevicate, pareva un paese da illustrazione di Natale, di quelle rotonde e stampate sul legno, da appendere all'albero. Edimburgo, ventosa e gelida, svettava tra il bianco delle colline nel suo grigio annerito dal tempo; il monumento a Scott, con le guglie imbiancate, si notava perfino dalla Vaas.
Molte strade erano bloccate, tanto che alcuni studenti si erano dovuti trasferire alla Cattedrale per diversi giorni quando, una settimana prima, era avvenuta la nevicata più forte di quell'inverno.

La Vaas sembrava non soffrire la pesantezza della neve, e anzi pareva esserne in totale armonia, quasi fosse stata costruita per risaltare maggiormente proprio quando i suoi tetti apparivano candidi e soffici e i suoi cortili, ormai dall'erba ghiacciata, diventavano il campo per delle continue battaglie di neve -sistematicamente bloccate dai professori- che si tenevano in continuazione tra una lezione e l'altra.

Pochi giorni prima, durante una nevicata tra la quarta e la quinta ora, tutti e tre si erano trovati in mezzo a una battaglia di palle di neve del tutto improvvisata, in cui velocemente avevano dovuto schierarsi con la squadra di Duncan e Irving; entrambi coperti dappertutto di neve, battagliavano contro alcuni studenti di Scienze Naturali.
Julius si era sentito un traditore per essersi schierato contro di loro, ma quando la prima palla di neve gli aveva colpito in pieno la guancia si era tolto i guanti e aveva inziato a plasmare la neve trepidamente, insultando gli studenti con le più terribili invettive di Marziale.
Ezra non aveva smesso un attimo di ridere e, a fine partita, -da vero doppiogiochista- aveva preso di peso Emeline e l'aveva gettata in un profondo cumulo di neve fresca: si era quasi sentito male dal ridere, mentre Julius accorreva, i capelli e la sciarpa coperti di nevischio, e cercava di aiutare l'altra tra le risate.
Dopo quella terribile battaglia la classe di Scienze Naturali del terzo anno era stata decimata dall'influenza, e tutti si erano chiesti il perché: Emeline ricordava di essere rimasta con una considerevole mole di neve addosso per altre quattro ore dopo quella partita, mentre la sentiva sciogliersi nella schiena.

«Potremmo fare qualcosa insieme, prima delle vacanze. Emeline, dove avevi intenzione di andare, tu?»

Lei si scosse di dosso un grumo di polvere.
«Dovrei tornare a Londra, da mio padre.»
O da mia madre, le venne da pensare; entrambi vivevano a Londra, esattamente uno dalla parte opposta della città dell'altra.
Ufficialmente ancora sposati, ma Emeline si trovava davanti alla scelta di chi andare a trovare per le festività ormai da tre anni. Sapeva che anche quel Natale avrebbe scelto il padre.

«Oh» fece Ezra, e parve quasi deluso. «Quando dovresti partire?»

«Non lo so.» Emeline voltò pagina, seppur avesse smesso di leggere da diverso tempo.
«Devo aspettare il telegramma di mio padre con le direttive.» Le sfuggì un sorriso un po' sardonico, prima di tornare a osservare un brano delle Catilinare.

«Beh, allora organizziamo qualcosa, per queste feste. Voglio fare delle cose interessanti. Potremmo andare a Inverness, o ad Aberdeen, non l'ho mai vista e dicono sia meravigliosa... ma dobbiamo organizzarci, dobbiamo farlo assolutamente.»

«Ma non avremo mai il tempo necessario, Ezra» Julius lo guardò, lievemente preoccupato.
«Se poi tu devi anche tornare a Concord, sarà impossibile fare quello che dici. Abbiamo solo due o tre giorni a disposizione, prima che tu te ne vada. Ed Emeline non sa nemmeno quando parte.»

«Non ho mai detto "due o tre giorni", non so quando mio padre finirà di lavorare.»

«L'Hannukah dura sette giorni, non un mese»esclamò allora Julius, sarcastico, e subito dopo cadde il silenzio. Poi prese un ampio respiro, quasi quell'affermazione gli avesse di colpo tolto il fiato.

Ezra era rimasto fermo; fece scricchiolare le nocche tra loro una, due volte, e solo allora Emeline si accorse di come i contorni delle dita fossero rosei di una carne viva, morsa nervosamente, in fase di guarigione.

«Julius» disse infine lei, «come si traduce questo pezzo? Sul libro non c'è.»

La mattina dell'otto dicembre si era deciso di ridurre le lezioni all'osso, mancando di far presenziare gli alunni a quelle finali di matematica e astronomia, per quanto riguardava il terzo anno.
Nessuno, neanche i professori, aveva la voglia e la forza di proseguire lungo tutta la mattinata dell'ultimo giorno prima delle vacanze senza attuare la sacra lectio brevis, che, sotto ordine del preside, si era fatta.
Le poche, ultime ore di lezione si erano quindi svolte con una trepidazione distratta, un'agitazione sorridente che sembrava aver infatuato tutte le classi; c'era chi non aveva portato che un solo quaderno, chi, invece, non si era nemmeno presentato, fingendosi malato per scendere a festeggiare in città non pensando, anche se solo per un pomeriggio, agli ultimi esami da dare prima delle vacanze; Ezra era tra quelli, l'unico del gruppo che essendo dell'ultimo anno si era sentito in potere di decidere per sé in maniera del tutto arbitraria.
Era sceso a Edimburgo la mattina presto, appena poco dopo essersi fatto vedere a letto dall'infermiera, lamentando un grave accesso di asma, mentre nascondeva il suo sorriso da gatto sotto le coperte di lana.
Julius ed Emeline, seduti nell'ultima fila, avevano partecipato; ma se la libertà gli era stata negata, Julius se l'era in qualche modo fatta da solo; in tasca, a fianco al cuore, aveva custodito per tutta la mattina una bottiglietta da viaggio di assenzio di cui lui ed Emeline avevano usufruito nei momenti particolarmente morti.
Aveva portato anche le sigarette, un pacchetto di Benson&Hedges nuovo che aveva riposto con cura nel suo astuccio di argento, con tranquillità, mentre la Buchanan leggeva un passo delle Metamorfosi. Entrambi erano finiti a trattenere le risate per il mito del cinghiale Calidonio, e, quando finalmente era arrivato il gelo della sera, avevano subito chiamato una carrozza per Edimburgo.

Julius teneva i libri stretti tra le mani, in quel momento fermo al suo posto, fumando e guardando le colline scorrere fuori dal finestrino, mentre risentiva delle oscillazioni del terreno brullo sotto di loro.

«Hai già portato i bagagli in città?» chiese Emeline, senza troppo interesse, con l'unico desiderio di rompere il silenzio.

Lui annuì. «Da due giorni.»
Poi si portò la sigaretta alle labbra, ma prima di aspirarne il fumo disse: «tu andrai a Londra?»

«No.»

Julius inclinò appena la testa, quasi un pensiero rapido gli fosse giunto alla mente e lo stesse analizzando.
«Sei ben accetta a Edimburgo» disse, decidendosi a fumare. Non aggiunse nient'altro, ed Emeline fu quasi sul punto di spiegargli il perché: che non andava a Londra perché scegliere ancora una volta il padre sarebbe stato crudele, e sapeva che sua madre ci sarebbe rimasta sinceramente troppo male. Avrebbe passato il Natale alla Tenuta, studiando per l'esame di geologia, che sapeva già avrebbe dato direttamente a gennaio. Uno studente di Fisica le aveva mandato una lettera in cui le chiedeva di incontrarlo nel cortile interno il ventisei di dicembre. Forse avrebbe accettato per scoprire chi era, se la noia si dimostrava troppo pressante; poi sarebbe tornata a casa e avrebbe dormito, mangiato panini e marmellata e suonato il piano fino all'inizio della scuola.

«Perché hai deciso di rimanere qui, se non sono indiscreto?»

«Abbiamo tutti delle famiglie molto impegnate» disse solo lei, e Julius ridacchiò.

«Tu ed Ezra, sicuramente» poi tornò a guardare fuori, e nessuno dei due parlò più fino a che non furono arrivati.

Il cocchiere li aveva lasciati esattamente all'inizio del Royal Mile, dove già si scorgevano i pennacoli scuri della pietra di St.Giles, illuminati dalla luce elettrica delle otto.
Julius aveva pagato e, uscendo in strada, aveva sorriso; per quanto faticasse ad ammetterlo, di Edimburgo gli era mancato tutto: dal silenzio sacro del cimitero di Greyfriars al delirio serale dei pub, dal buio tetro dei vicoli notturni alla luce del sole che baciava i tetti del Dean Village la mattina; non era cresciuto a Edimburgo, invero da bambino non era mai stato al di fuori delle ruvide Highlands, ma una volta che aveva conosciuto la capitale se n'era in qualche modo infatuato: innamorato delle sue zone di quiete e del sale sulle pietre delle strade quando iniziava la stagione del gelo, del senso di euforia che gli procurava la sua costante vita e la paura che gli incuteva la figura sinistra dei palazzi nel buio della sera, quando il cielo era grigio come la cenere dei camini.

Emeline si era diretta subito verso il centro della via, e a Julius era sembrata molto più avvezza alla città di lui.
Sapeva innanzitutto dove si trovava Ezra -cosa che a lui non era stata riferita- e sapeva orientarsi molto bene -ciò gli procurò un vago senso d'irritazione- e in poco tempo l'aveva condotto davanti al loro punto di ritrovo, dove Ezra si trovava approssimativamente dalle undici di quel mattino.

«E non poteva scegliere che qui» mormorò Julius, atono, quando si trovò davanti l'entrata dipinta di rosso di un pub il cui chiasso si udiva da fuori, a porte chiuse.

«Il Mitre» sorrise Emeline, quasi se lo aspettasse.
«Qui sono conservati i resti del mitico trono del vescovo di St. Andrew!» recitò muovendosi verso il locale, teatrale e sinuosa come in una commedia di Goldoni.
«Da piccola amavo questo posto, anche se non potevo entrarci» disse, e guardò l'insegna del locale oscillare contro il lieve vento proveniente dal castello.
«Avevo dimenticato di conoscerlo. Ma ora mi è tutto più chiaro» dichiarò, pallidamente emozionata. «Ezra mi assomiglia molto. Dimmi, ama questo posto per la leggenda del vescovo, vero? Per il fatto che si dice risieda ancora qui il suo spettro.»

«Sì» rispose Julius, «sì, lo ama per questo.»

«Certo, ha tutto molto senso. Ezra è affascinato dalla cose che teme.»

Julius le scoccò un'occhiata, veloce, quasi non volesse incontrarne davvero lo sguardo. Non disse nulla, e allora Emeline chiese:
«Non è così?»

«Negli ultimi tempi ha dimostrato di sì, mi sembra» poi esitò per qualche secondo, davanti alla porta, prima di aggiungere:
«Gli piace questo posto perché sa che è spaventoso. Sacro e maledetto al contempo.»

Allora Emeline sorrise.
«Vedi? Abbiamo avuto la stessa impressione.»

Nessuno li aveva accolti all'entrata, né il barista, né un cameriere, così erano potuti salire al primo piano indisturbati, uno scalino cigolante alla volta, mentre da sopra si udivano limpide le risate degli altri studenti.

Quando Julius sbucò dalle scale qualcuno gridò qualcosa, qualcun altro gli si gettò addosso per abbracciarlo. Lui rise, contenuto, mentre altri gli cercavano una sedia per attaccarsi al loro tavolo.
«Carpe noctem! Godiamoci la notte, che la mattina sarà aspra e crudele!» disse a Duncan, il quale gli era andato in contro gridando e ridendo, quasi non lo vedesse da una vita.

«Niente raduni abusivi!» gridò il cameriere, passando loro vicino con un filo di disprezzo.
«Ci sono altri tavoli, sedetevi lì.»

Ci fu un generale moto di disapprovazione, prima che Ezra si alzasse e dicesse:
«Qui da me c'è posto.»
Andò verso Emeline per salutarla.
«Hanno detto nulla della mia assenza?» chiese, mentre la stringeva in un abbraccio.

«La cuoca ti ha visto uscire dalla porta di servizio della cucina.»

Allora lui scoppiò a ridere, ed Emeline sentì la sua risata, vicina, vibrarle nella cassa toracica.
«No, lei è la mia migliore amica, non dirà assolutamente nulla.» Poi richiamò il cameriere, e ordinò "delle birre" e "dei pasticci di carne", un numero vago a cui l'uomo annuì, quasi sapesse perfettamente le quantità di cui Ezra parlava.
Lui, in mezzo a tutte quelle risate alcoliche, sembrava discretamente sobrio.
«Hai fame, no?» chiese a Emeline.

Non ne aveva, ma disse solo: «Un po'.»

Lui la fece sedere e solo allora si rivolse a Julius.
«Se vuoi altro da bere, chiedilo giù al bancone.»
Poi si zittì completamente, rivolgendo la sua attenzione altrove.

«Allora, Deerwood» disse qualcuno, «quante sterline a questo esame di latino?»

«Quattrocentoventi» rispose lui, leggermente assorto; il suo tono dovette suscitare una certa ilarità, perché tutti scoppiarono a ridere.

«Certo, è un business» disse Duncan, il maglione blu infeltrito tirato sui gomiti.
«O un abuso di potere. Dipende da come la si vede.»

Julius lo guardò. «O necessità, nel tuo caso. Quanto hai preso?»

«Il massimo.»

Risate.

«Ringraziami.»

«Oh, l'ho già fatto troppe volte.»

«No» esclamò allora Julius, sorridendo. Faceva caldo, le luci erano troppo offuscate. Qualcuno tossì. «Dì: "Grazie Julius per non avermi fatto bocciare

«Grazie Julius per non avermi fatto bocciare, ma avermi fatto indebitare con te per il resto dei miei giorni.»

Risero tutti, anche Emeline. Ezra, fissando un bicchiere abbandonato sul tavolo, aveva tirato su col naso, serio.

«Felix non sembra trovare molto divertente questa battuta, temo.»

Emeline si era voltata, e, contro il muro, aveva incontrato lo sguardo insolente di uno studente magro, dalla giacca nera e la cravatta allentata; lui l'aveva guardata per un istante, prima di cambiare soggetto.

«Che sia alterato con chi l'ha detta?» si chiese, compiaciuto, e allora Emeline lo riconobbe: non ricordava il suo nome, bensì il modo che aveva di parlare; un lento, mellifluo concatenarsi di parole, ben scandite, quasi temesse che gli altri non lo ascoltassero abbastanza.
Era stato lui, l'autunno di due anni prima, a parlarle di una confraternita studentesca a cui avrebbe potuto partecipare, una splendida, elitaria associazione basata sulla ragione e la filosofia, qualcosa che lei bramava senza rendersene conto. Era stato lui a prometterle un incontro nell'aula di astronomia, laddove nessuno si era mai presentato. E in quel momento, seduto contro il muro freddo, l'aveva guardata con un sorriso, come a dire: "mi ricordo di te".

«Abraham, sei andato» disse Duncan, «whiskey e gin come fosse acqua, quando non regge nemmeno quella» sibilò a Julius, quasi sperando che, schernendolo insieme, si sarebbe potuta risolvere la situazione.

«Discretamente alterato, ma mai quanto lo è con te. Quella è cosa cronicizzata, ormai, anche se non ha il coraggio di ammetterlo.»

Duncan lo guardò di sfuggita, un moto di sorpresa a balenargli nel viso affilato da albino.
Abraham rise, sommesso. «Voglio offrirti da bere» disse a Julius, ma lui rimase in silenzio, e così fece Ezra.

Era calata la quiete e qualcuno, dal fondo della stanza, aveva chiesto di portare gli scacchi.
Quando erano arrivate le birre Julius aveva lasciato la sua a Duncan ed era sceso al bancone.
Ezra l'aveva seguito con lo sguardo e poi aveva avvicinato a sé la scacchiera.

Rivolse ad Emeline i due pugni chiusi delle mani. «Scegli» disse, febbrile, e lei indicò la mano destra. Lui rivelò un pedone bianco e glielo porse; poi iniziò subito a sistemare le pedine dal suo lato della scacchiera: prima le torri, poi i cavalli, gli alfieri e i pedoni, re e regina per ultimi, quasi facesse parte di un suo scaramantico processo mentale.

Emeline mosse di due spazi il pedone davanti al re, Ezra glielo bloccò subito.

Dietro di loro si era accalcata una discreta folla, silenziosa e attenta, tra bicchieri in mano e sigarette accese.

«Cavallo in f-tre?» chiese Ezra, stupito, mentre spostava l'alfiere e beveva un sorso di gin dal bicchiere di qualcun altro.

Emeline annuì, poi spostò la torre.
«Un uccellino mi ha detto che resterai alla Cattedrale per tutte le vacanze» mormorò, in modo tale che nessun altro al di fuori di Ezra la sentisse. Qualcuno le passò un bicchiere e lei bevve un sorso, senza pensarci, riflettendo solo sul fatto che le andasse di farlo.

Lui le mangiò un pedone.
«Birdie, dovrei chiamarti. Ti sei informata» poi avanzò rischiosamente con la regina.
«Sì, resto alla Cattedrale. Ma non ti stupisci, vero?»

«Parlando onestamente, no.» Staccò per un attimo gli occhi dalla scacchiera, incontrò quelli dell'altro e poi mangiò la sua regina con rapidità, scoprendo il nervo debole della strategia di Ezra.

«Come hai fatto a capirlo?»

«Ho tradotto la lettera che hai lasciato davanti al camino con un dizionario della Capitolium. Ho peccato di curiosità?»

«Non è importante. Ormai l'hai fatto.» Bevve altro gin. «Alla fine ha trovato il modo di punirmi» disse a se stesso, riferendosi al padre. Qualcuno mormorò un imprecazione sommessa.

«Mi dispiace solo che sia dovuto succedere.»
Emeline mosse di tre la regina.

«Sopravvivrò» disse lui, coprendo il re con il cavallo che gli era rimasto. «Alla fine, si tratta solo di pregare e accendere le candele della Menorah. Nulla che non potrò fare alla Cattedrale, sempre se ne avrò voglia.» Poi bevve ancora, e disse: «un corvo mi ha detto che tu non vai a Londra.»

Lei sorrise, inclinando la testa. «Ermete ha iniziato a parlare?»

«Solo con me» disse lui.
Qualcuno urlò: "Scacco, muovi il re!" ed Ezra mosse la pedina con disinteresse, quasi sapesse già di aver perso.

«Ti verrò a trovare, allora. Sempre se alla Cattedrale non spengano i riscaldamenti.» Poi Emeline guardò la scacchiera: la torre bianca distava dal re di soli due spazi, la regina lo stava già puntando da sopra, una casella in obliquo più in là.

Ezra si appoggiò allo schienale della sedia e sorrise, meditabondo. Poi si sporse verso l'altra parte del tavolo, guardò Emeline e le porse la mano.
«Una rivincita, forse?» chiese.

«Non adesso» rispose lei, poco clemente, mentre gli stringeva la mano; la trovò gelida, fredda come la neve che ricopriva la strada fuori dalla finestra.
Si alzò, sotto i commenti degli altri, mentre qualcuno già prendeva il suo posto alla scacchiera.

«Ti sei perso gli scacchi.»

Julius stava seduto in uno dei tavoli vicino al bancone, quando Emeline le si era messa davanti, le braccia incrociate, aspettando che lui si alzasse. Non l'aveva fatto, e anzi era sprofondato nella sedia ancora di più. Aveva smosso le spalle come a dire: "va bene" e non l'aveva guardata in viso.

«Sono pronta a rigiocare, ma solo contro di te.»

«Non puoi giocare con Ezra?»

«No» disse lei, mentre ciondolava da un piede all'altro. «Ezra è talmente distratto da risultare scarso.»

Allora Julius la guardò, serio, ma un lume di divertimento -o di orgoglio- sembrò balenargli negli occhi.
«Non ho voglia di salire di sopra.»

«È per quello studente, vero? Quello con la giacca nera e la risata fastidiosa.»

Lui sembrò stupito, solo per un attimo.
La guardò con perplessità, forse anche con inquisizione, chiedendosi come avesse potuto intromettersi con così tanta precisione.
«No, non è per lui. Solo, non ho realmente voglia di festeggiare. C'è troppa confusione. Ho bisogno di ricaricare le energie.»

«E lo faresti ubriacandoti?»

«Sono sobrio, molto più sobrio anche di te, forse, visto ciò che stai dicendo.» Si stese sul tavolo, appoggiando la testa sul braccio. I capelli si srotolarono scomposti, bagnati da tutta la neve che vi si era posata poco prima.
«Buonanotte, Emeline. Lasciami dormire.»

Lei scoppiò a ridere, senza dire nulla. Risate composte, di scherno, ma discrete.
«Alzati, avanti» disse infine. «Usciamo a fare una passeggiata.»

Il Royal Mile, deserto, si allungava oltre il cielo bianco senza una fine, appuntito e oscuro.

Emeline fece qualche metro davanti a lei, mentre aspettava che Julius uscisse.
Vicino al Mitre le decorazioni curve di St.Giles sembravano sorridere nella loro direzione, la punta della chiesa coperta dal grigio delle nubi, basse e fuligginose.
Buia e silenziosa in una maniera quasi psicotica, la strada faceva rimbombare i loro passi più del dovuto. Arrivarono davanti a St. Giles e Julius si sedette sui suoi gradini imbiancati, il cappotto che, affondando nella neve, stava già iniziando a inumidirsi.
Si tolse un guanto e prese il portasigarette.
Ne offrì una a Emeline, lei non accettò, lui accese la propria. Rimasero in silenzio per qualche minuto, in ascolto del vento e dello sfrigolare della sigaretta di Julius.
Lui stava seduto sul bordo dello scalino; le gambe lunghe, unite tra loro, erano stranamente immobili, e il suo sguardo sembrava pensoso e vuoto al contempo, quasi stesse visualizzando qualcosa davanti a sé, mentalmente, come quando studiava nuove dimostrazioni di fisica.

Emeline lo guardava, a intermittenza, e ogni volta non faceva a meno che pensare alla foto del giorno dei morti. I loro volti tranquilli, i costumi da teatro, il sorriso da ragazzino di Julius.
E gli occhi di miele di Ezra, sempre e solo i suoi occhi, a cui pensava senza rendersene conto; gradualmente aveva iniziato a comprendere il significato della frase dietro al cartoncino della fotografia, lentamente le era parsa sempre più vera, e allora gli occhi di Ezra avevano incominciato a sembrare di miele, esattamente di miele, lucidi e dolci, teneri quando la osservava giocare a scacchi e la salutava appena uscito da lezione, brillanti della stessa calda luce della melassa.

«Credo che tu abbia qualcosa che mi appartiene, Emeline.» Julius si voltò, rapidamente, verso di lei. Teneva tra le dita la sigaretta, di cui non sembrava più importargli molto.

«Non capisco» disse lei, sapendo benissimo che quel momento sarebbe arrivato.

Julius continuò a guardarla. «È strano. La fotografia del giorno dei morti, ricordi? Era nel cassetto destro della mia scrivania. Ora non c'è più. Ezra non l'ha presa, lo sarei venuto a sapere.»Parlava con un tono calmo, pragmatico, che a Emeline ricordò, in una strana sensazione, il proprio.

Si strinse il cappotto in vita. «Non la ho con me, non adesso» disse.

«Non c'è problema» rispose Julius, accondiscendente. «Me la restuirai domani, una volta finito l'esame di latino.»
Poi fece per alzarsi, gettando la sigaretta.

«Julius» lo richiamò Emeline.
«Non ho intenzione di dire nulla a nessuno.»

Allora lui tornò a guardarla; aveva un'espressione genuinamente confusa, quasi non avesse capito del tutto quello che lei gli aveva detto.
«E cosa non avresti intenzione di dire?» domandò, un po' supponente e un po' stranito, mentre le si avvicinava di mezzo passo.

Emeline rimase a fissarlo per qualche secondo, elaborando la situazione.
Lui le stava davanti, oscillando le scarpe nella neve fresca, mentre di nuova gli si depositava sulle spalle del cappotto.

Aveva guardato tra le sue lettere, in un moto instintivo e orribilmente curioso, qualche giorno dopo la scoperta della fotografia; non sapeva nemmeno perché, ma d'un tratto la possibilità le era parsa così semplice e naturale che lo aveva fatto, e basta.
Non glielo avrebbe mai confessato, ma in quel momento non poteva che riflettere su ciò che aveva trovato; le lettere per Ezra erano molte, e lui rispondeva sempre, con timbri dalla Svezia, dalla Francia, dall'America.
Julius gli scriveva in lingue diverse, e in ognuna trovava il particolare appellativo per cui riferirsi a lui.
In latino era mi ocelle, in francese diventava mi ange; in italiano iniziava sempre con un ciao, amore!, ma in inglese era semplicemente Ezra.

E in quel momento quelle lettere, quelle buste profumate dell'odore di Blackcurrant, non le parvero che uno stupido sogno senza inizio, senza alcun senso. Una scena onirica e lontana, mai compiutasi nella realtà.
«Lascia stare» disse, infine. «Ho solo avuto un'impressione sbagliata, probabilmente.»

Dietro di loro si udì uno schiamazzo generale, rumore d'auto, risate giovani.
Quattro Ford laccate di uno splendido color avorio arrivarono poco dopo, fermandosi davanti all'edificio della Signet Library; le luci soffuse al suo interno si erano confuse con il buio dell'esterno, ma la biblioteca era aperta, e in quel momento, euforici e già brilli, le si avvicinavano gruppi di giovani dai frac inamidati e dai vestiti di raso; perle al collo e piume tra i capelli, cappotti di tweed e guanti lunghi.

Dal Mitre uscirono in molti, per assistere a quello spettacolo ipnotico. Ezra corse verso St. Giles, le guance rosse per il freddo, mentre infilava la mantella.

«Una riunione della W.S. Society, adesso! Guarda, Emeline, camerieri in frac a servire champagne e l'orchestra che sistema gli spartiti.» Le indicò il tutto stringendola per la spalla, esaltato.

«Ascoltate» intervenne subito Duncan, con un bicchiere di vetro in mano.
«C'è qui con noi un tipo, uno studente del quarto di giurisprudenza che studia qui a Edimburgo... forse può farci entrare.»

Ezra si girò verso di lui. «Davvero?» chiese, ridendo strabiliato.
«Avanti, vallo a chiamare, digli subito di andare là e parlare col cameriere all'entrata!»

Julius guardava tutti, senza dire niente.
«Emeline» disse poi, sfiorandole la mano.
«È importante che tu ti ricordi la fotografia, per domani, va bene? Vorrei tenerla qui a Edimburgo, a Blackcurrant ho paura che qualcuno la butti via involontariamente.»

Lei, confusa dalle esortazioni di Ezra, che si muoveva da una parte all'altra della piazza agitato come un colibrì, impiegò un po' a capire cosa Julius le stesse dicendo.
«Va bene» disse alla fine, mentre qualcuno -forse Duncan- le gridava di andare con loro.

Julius sorrise. «Grazie. Sai, è che quella è l'unica foto che abbiamo noi tre insieme. Ci tengo.» Le tolse un grumo di neve dai capelli, con delicatezza.
Emeline pensò che fosse terribilmente bravo a mentire.

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