Capitolo XXXIII- Roma locuta, causa finita

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La sarta li aspettava effettivamente in mansarda, intenta nel cucire una stola di finissimo velo di seta, spolverato di pagliuzze d'oro come la superficie di un mare caldo nelle ultime ore della sera.
Appena vide Amalthea fermò il lavoro.
«Riprovate il velo, per cortesia» disse, cedendole il pezzo di stoffa che teneva tra le mani.
Lei lo afferrò compiaciuta, lo passò lungo le spalle. «Mi sembra perfetto» cercava l'approvazione negli occhi degli altri.
«Il vestito è pronto?» chiese poi.

«Devo finire i ricami degli orli» rispose lei.
«Li terminerò stasera.»
Poi invitò Ezra a prendere le misure della vita, facendogli togliere giacca e cappotto.

«Julius» disse allora Emeline, sottovoce.

«Dimmi.»

«Ma non avevate già dei vestiti, degli anni passati?»

Lui le lanciò uno sguardo inespressivo, un po' divertito e un po' perplesso.
«Beh, certo» disse, «ma ogni anno se ne confeziona uno diverso. Sarebbe impensabile presentarsi al nuovo Saturnale con i vestiti dell'anno precedente.»

E di fronte al silenzio di Emeline sembrò intuire la sua estraneità a tutta quella faccenda.
Le si avvicinò di mezzo passo e disse:
«Il fatto è che, Emeline, i Saturnali sono prima di tutto un gioco di società.» Guardava Ezra, la sarta che lo avvinghiava nei suoi metri di stoffa. «Esattamente come per i romani si beve, si mangia e ci si diverte, si celebrano gli dei e ci si lascia andare; ma, esattamente come per i romani, è anche un modo molto sottile e molto creativo per mostrarsi, esibirsi in qualche modo di fronte alle persone, farsi percepire in una determinata maniera. Prendi d'esempio colui che verrà eletto Princeps: come possono funzionare i festeggimenti se la sua figura non viene presa abbastanza sul serio, se non viene considerata una divinità, e se lui stesso non si considera tale? C'è un vero e proprio meccanismo che pulsa e alimenta, sotto i Saturnali. Che va dai comportamenti ai vestiti, dai cibi agli addobbi. E chi più degli organizzatori deve essere impeccabile in tutto?»

«Quindi non è diverso da un semplice ricevimento di gala.»

«No, ovvio che no. Ma hai mai visto una festa di gala in cui si prega Saturno e ci si veste in toga?»
La sarta lo chiamò, gli spilli in bocca.

«No» disse Emeline. «Non si è mai vista.»
«Ma non si tratta solo di questo, te lo garantisco»continuò Julius, mentre toglieva la giacca.

«C'è un tale misticismo, in questi giorni, che tutto sembra davvero credibile» era intervenuta allora Amalthea, sibillina, che evidentemente stava ascoltando.
«Vado in camera» disse poi, sbadigliando.
«Le vostre stanze ve le farà vedere Julius.»

Scomparve proprio mentre la sarta si accorgeva di Emeline, la guardava in volto e le chiedeva, lapidaria: «Anche a voi serve un vestito, immagino.»

Lei annuì. «Niente di troppo sfarzoso. Il più moderno possibile» disse, e allora Julius rise, molto divertito, mentre tra le mani sfiorava delle stoffe di lino e raso.
«Oh, Emeline...» soffiò solo, tra di sé, mentre nemmeno la guardava.

Era passata un'ora dalle prove e dalla scelta delle stoffe: ne era risultata una toga di lino e raso per Ezra, molto bella e solare, trapuntata d'oro -perché, venne a sapere più tardi Emeline, lui era da sempre considerato il Sol Invictus della festa-, e una di seta per Julius, meravigliosa nei ricami di bronzo, una seta bruna e lucida che proveniva da un taglio italiano. E per Emeline, che aveva accettato uno dei primi cotoni che le erano stati proposti, una veste color pistacchio che Julius si era ostinato a pagare.

Erano all'incirca le sei quando, da quasi mezz'ora chiusa nella sua camera, Emeline ricevette proprio Julius. Se ne stava fermo sulla porta di entrata, la spalla appoggiata al muro.
«Ricordi come devi vestirti questa sera?» chiese. Aveva i capelli bagnati, ed era in vestaglia.

«Con le vesti da riposo?»

«Brava» disse lui, e si guardò un po' intorno. Vide Ermete e gli fischiò, tentando di attirarne l'attenzione. «La stanza va bene?»

«È molto ricca» disse lei. «Noto un certo horror vacui, ma va benissimo.»

Julius rise, nervoso, e allora rivelò il perché della sua visita.
«Stasera ceneremo solo tra di noi, ci  sono anche mia madre e mio padre. Sanno che ho portato un ospite, ma non sanno nulla su di te.»

Lei rimase interdetta per un attimo. «Cercherò di comportarmi nel modo più esemplare, se è questo che intendi.»

«No» disse subito lui. «Non è questo. Solo, non farti intimidire da mio padre. Ama molto le domande.»

«Anche io, andremo di certo d'accordo.» Poi guardò l'orologio. «Volevi dirmi altro?»

«La cena è tra mezz'ora.» Fece per andarsene, quando, bloccato da un'idea improvvisa, sembrò ricredersi.
«Anzi, Emeline» la richiamò. «Potresti passare un momento dalla mia camera?»

Lei annuì, e lui la rigraziò che era già nel corridoio, a camminare veloce.
Nello stesso momento Ezra usciva da una delle stanze dello stesso piano; non la sua, ma una molto buia e isolata, persa nel buio del fondo del corridoio. Aveva il volto privo d'espressione. «Cosa state facendo?» chiese.

«Vieni anche tu» disse Julius, e aprì la porta.
La teneva chiusa a chiave, e quando l'aprì si diresse subito verso l'armadio, dove, oltre le camicie e le giacche, nascosta tra i maglioni, c'era una provetta.

«Per Dio, stai scherzando!» esclamò di getto Ezra, attonito.

«Abbassa la voce!» fece l'altro, irritato.

«Hai portato un campione del siero?» domandò Emeline, prendendo tra le dita la provetta. Al suo interno si mescolava il marcio dell'opera al Nero.

«È per tenere la situazione sotto controllo. Documentarla, più che altro. Immaginate se succedesse qualcosa mentre noi siamo qui, qualche cambiamento fondamentale, e noi non potessimo osservalo.»

«A me sembra identica» constatò Ezra, scettico. «Ed è rischioso. Almeno tienila nascosta.»

«Era nei miei maglioni, chi vuoi che ci guardi?»

«Ma Julius ha ragione, potremmo perderci dei passaggi importanti. Comunichiamo attraverso il siero, dopotutto.»
Emeline ripose la fiala nuovamente tra i vestiti, coprendola con un maglione di lana blu.

«Controllerò ogni sera se è rimasta invariata, tutto qui. Ma per il resto, non una parola.» E chiuse l'armadio.

«Mi sembra più che ovvio» fece Ezra.

«Bene» esclamò allora Emeline. «Io devo ancora prepararmi. Ci sono altre cose che devo sapere? Vuoi tenere in camera tua anche Ermete, per caso?»

«Quel corvo, che disgraziato» mormorò Julius. «Speriamo che non si irriti e becchi qualcuno, a furia di stare sempre chiuso nella tua stanza.»

«È innocuo» Emeline era ormai oltre la porta, una mano a stringerne lo stipite con debolezza. «Forse anche troppo.»

I Deerwood cenavano molto tardi.
Verso le otto e un quarto Emeline era scesa al piano terra e aveva trovato Ezra e Julius intenti a parlare, nel salotto, vicini e seri, vestiti con abiti da riposo di seta cruda.

«Sì, lo so» diceva uno.

«Ma basta che tu non gli dia corda» mormorava l'altro. «Come sempre.»

Smisero di parlare quando Emeline varcò la soglia.

«Ma andiamo» disse Julius, staccandosi dal muro e sbuffando contrariato, come se Emeline avesse appena barato ai dadi.
«Questo è il tuo abito da riposo?» chiese, indicando il vestito di raso di Emeline, molto bello e molto formale, coperto nelle spalle da una stola fine da passeggio.
«Anche voi non scherzate.»

«Ma ci hai visti?» disse allora Ezra. «Ci mancava poco che non scendessi con le pantofole. Non hai colto lo spirito della cena.»
Ma parevano entrambi due ipocriti. Ezra, con la sua vestaglia bordata di visone, Julius, con addosso un intricato ventaglio di stoffa verde salvia, un abito da spirito dell'assenzio che sillabava in ogni ricamo il suo pregio.

«Il primo giorno dei Saturnali è per tradizione con questo codice vestiario. Almeno potevi evitare il corsetto.» Julius lanciò un'occhiata alla sua vita stretta nei lacci. «Ma non fa niente. Aspettati solo dei commenti da parte di Mida.»
Poi si voltò, -aveva ancora i capelli bagnati- e si avviò verso la sala da cena.

Sentì salire il nervosismo a porte aperte, quando finalmente la stanza da cena le si parò davanti nella sua quiete assoluta. Ma l'ansia aveva fatto presto spazio a una meraviglia inaspettata e violenta, che Emeline non era riuscita a trattenere: le pareti scure e affrescate alla greca erano poco illuminate, celando alla vista le cornici geometriche e le figure d'ocra; ma c'era una tale luce sul tavolo, frutto di sciami e sciami di candele, che bastava a far brillare tutta la stanza.
Perfettamente rotonda, la sala sembrava la spessa e luccicante moneta della casa, il cuore d'oro zecchino pulsante, che alimentava e irradiava sangue a tutta la domus.
Quella, come in seguito le disse Julius, era la sala degli Astri.

«Guarda il soffitto» le mormorò Ezra, con un sorriso.
E lei lo fece, subito, rimanendone allibita: dipinte di un blu profondissimo, svettavano tra la pittura, per contrasto, delle splendide illustrazioni dei cieli, del sole radioso, della luna cangiante; c'erano le costellazioni, con i loro nomi latini ad accompagnarle, e c'erano i simboli dello zodiaco, dipinti con un realismo squisito, e poi le stelle, brillanti e piccole come lucciole: ed era tutto luminoso e dorato e ricco, opulento di un oro scurito dal tempo, di colori profondi e antichi come l'arte stessa.
Tenne lo sguardo avidamente rivolto al soffitto per molto tempo, fino a quando non sentì una voce vicina dirle qualcosa. Allora Emeline gettò di nuovo gli occhi al tavolo, e vide per la prima volta i Deerwood.
«Fa sempre un certo effetto» si ripetè l'uomo che aveva parlato.

«Emeline» Julius le sfiorò le spalle, avvicinandola. «Questo è mio padre, Aurelian Deerwood.»

«Non ho ancora avuto la fortuna di sapere qualcosa su di voi» disse lui, molto composto, incredibilmente calmo. Non assomigliava affatto a nessuno dei suoi figli, eccetto per Amalthea, con la quale condivideva i biondi capelli da norreno.
Aveva occhi verdi e serpentini, scaltri e intelligenti, e un appuntito viso mite da filosofo, per nulla come Emeline l'aveva dipinto nella sua immaginazione.

Era la signora, quella pallida donna dall'aria da Circe che gli sedeva accanto, a rassomigliare così tanto a Julius: guardava la scena con tiepida emozione, i capelli foltissimi e riccioli a scendere in fili sulle spalle, e gli occhi, scuri e brillanti, da maga, che si muovevano lenti a lanciare invisibili incantesimi. Tanto bella, ma della stessa bellezza torva, arcana, un po' dionisiaca dei figli.

Le si presentò subito dopo, con un sorriso delicato, e stringendo la mano di Emeline rivelò il suo nome: Livia.
«Mia figlia è già entusiasta di voi» disse, rivolgendo uno sguardo ad Amalthea, seduta composta a tavola.
Diane doveva aver mangiato prima, non venendo forse considerata ancora abbastanza adulta per partecipare alle celebrazioni.

«Ne sono molto contenta» rispose garbatamente Emeline, sperando fosse la giusta cosa da dire.
«Lo sono io stessa di lei.»

Finì per sedersi proprio vicino ad Amalthea. Quella sera profumava insolitamente d'alloro; un odore lieve, coperto da un profumo più convenzionale alle viole.
«Allora, ditemi» le disse a un certo punto, «di cosa vi interessate, oltre alla scienza?»

«Arte» aveva la risposta pronta. Si aspettava una domanda del genere, e mentre beveva il primo sorso d'acqua aggiunse: «di ogni genere.»

«Ma è eccezionale» ad Amalthea brillavano gli occhi. «Proprio ogni tipo d'arte?»

«Direi di sì.»

«Quindi anche la poesia?»

«Mi limito alla sua lettura» e si chiese se avrebbe continuato ancora a lungo con le domande. Ma non le dispiacevano. Così specifiche, quasi le trasmettevano un senso di sicurezza, un appiglio in tutte le cose incerte di quel posto.

«Io amo la poesia. Scrivo componimenti nel tempo libero del sabato pomeriggio. Esametri omerici e molte metafore. Rime baciate, rime incatenate...»
Il suo tono era di un vago squisito, un sognante che sembrava cullare. Si lasciò andare contro allo schienale della sedia con un fare da bambina, mentre elencava tutte le figure retoriche che soleva utilizzare nella sua poetica.

«Mi appare come una passione di famiglia, quella per la letteratura» azzardò allora Emeline, incrociando le mani sul ventre, in attesa davanti al piatto vuoto.

«Lo è, di certo» lei annuì, «siamo tutti umanisti qui. Escluso Julius, ovviamente.»

Emeline si lasciò sfuggire un mezzo sorriso. «Lo è anche lui, per quanto tenti di celarlo. È terribile ripassare latino in sua presenza.»

Amalthea ricambiò il sorriso, in silenzio. Poi chiese, d'improvviso: «E quindi cosa ne pensate di mio fratello?»

Ciò la colse alla sprovvista. Ma rispose, proprio quando le veniva servita la prima portata.
«Lo stimo di certo. È una persona molto colta.»

Ezra conversava con il signor Deerwood dall'inizio della cena. Ridevano e parlavano di caccia. Julius si stava dicendo qualcosa con la madre. Mida mangiava in silenzio.

«È ovviamente intelligente» Amalthea si versò da bere.
«Ma a volte temo sia troppo dispersivo. Troppo legato al materiale, sapete.»

«Legato al materiale, dite?» Emeline lasciò le posate a mezz'aria.

Lei si fece più silenziosa, mormorando quasi deliziata, mentre le pietre al polso le brillavano e lei appariva come una giovane patrizia tutta oro e scintillii. «Non vi è mai sembrato un po', come posso dire... intemperante

«Intemperante?» sorrise Emeline, poco convinta. «Non penso di averci mai fatto caso.»

«Sarà una mia percezione fraterna. Sapete, da sorelle si tende a vedere spesso le cose come non sono, a esagerarle, a volte. È perché gli voglio molto bene. E perché ci vediamo raramente, in particolare durante i Saturnali, che non sono di certo la giusta occasione per valutare la temperanza di una persona.»

Calò il silenzio. Emeline smise di mangiare, ma iniziò a bere dal suo calice.
Se Julius era intemperante, pensò, allora lo erano propriamente tutti e tre, lei ed Ezra anche di più, decisamente.

«Invece Ezra è totalmente opposto» tornò a dire Amalthea. «Non lo avete mai notato? Che sono uno l'opposto dell'altro. Quando viene qui da noi, Ezra si comporta sempre con una discrezione davvero squisita.»

«Il suo pregio è la sua pacatezza, presumo» le venne solo da dire, stupidamente.
Poi si chiese: di cosa stiamo discutendo?
Sentendosi quasi alienata o presa in giro o come se si parlasse di due persone completamente diverse da quelle che conosceva.
Per lei Ezra e Julius erano sempre stati un'unità imprescindibile, qualcosa di molto simile e vago, i cui confini sembravano sempre sfuggirle.

«Febo» disse allora Amalthea, «è sempre stato così. Pensoso e superstizioso. È per questo che andiamo così d'accordo.»

La conversazione sarebbe anche potuta continuare, se il signor Deerwood non si fosse voltato, senza preavviso, verso di loro:
«Amalthea» aveva detto, «non starai raccontando ad Emeline una delle tue predizioni.»

«Niente affatto» rispose lei, a fil di voce, come era suo solito. Poi cadde in un profondo silenzio, incantata nell'osservare Ezra dall'altra parte del tavolo, quasi volesse dirgli qualcosa.

«Stavamo giusto parlando, io ed Ezra, della vostra Vaas.» Aurelian portò il tovagliolo alle labbra; i gesti con cui muoveva le mani, con cui le sistemava sotto il mento quando era in ascolto, erano forse sorprendentemente l'unica cosa che aveva in comune con Julius.

«Croce e delizia di noi studenti» ironizzò Emeline, e seguì una breve risata generale.

«Più croce, da quanto mi è stato riferito. Certo non è una di quelle becere università che si trovano sempre più spesso. Ma devo essere sincero, ho diversi dubbi sui loro metodi di insegnamento.» E attese pazientemente risposta, come una mossa degli scacchi avversaria.

«Fidatevi, anche noi» disse Ezra, e Julius lo guardò. «Ma tutto sommato fornisce di certo una preparazione omogenea e valida.»

«È l'area umanistica che mi preoccupa» esclamò allora Aurelian. «Dare più spazio a Lucano che a Seneca? Parlare di Catullo senza citare Saffo? Insomma.»
Amalthea e Mida si scoccarono un'occhiata, iniziando a ridere; l'approssimazione della Vaas doveva divertirli molto.

«Forse perché il nostro è un corso scientifico» disse allora Julius, il vino in mano, mentre rifiutava la carne che il cameriere gli stava per mettere nel piatto.

«Ma come» aveva detto la signora Deerwood, gelidamente, «è il cervo che ha cacciato questo pomeriggio Mida.»

«Non ho più fame.»

«Ma hai sete» Mida osservò il vino.

«Sarà anche un corso scientifico» aveva ripreso Aurelian, con serietà, «ma non è comunque accettabile. Non si dovrebbero formare solo uomini di scienza, ma prima di ogni altra cosa uomini di cultura.»

«Converrete con me che non c'è alcuna necessità di segnalare certe piccolezze, se nessuno di noi vorrà comunque seguire un percorso umanistico.» Julius giocava con la forchetta. Mida, più lontano, scosse la testa in un breve tic nervoso.

«E di questo mi dispiaccio molto.» Aurelian si fece servire il cervo.

Erano rimasti entrambi in silenzio. Per poco, con Julius serio e il padre sorridente, che concluse: «Ma ormai è troppo tardi per parlarne. Saranno Mida e Amalthea a continuare i miei studi. Roma locuta, causa finita. Signorina Barclay, è tutto di vostro gradimento?»

«Assolutamente» disse lei, e vide Julius scambiarsi qualche parola con Ezra, al suo fianco.

«Certo un valore della scuola è quello di ammettere entrambi i sessi» disse all'improvviso Livia, rimasta in silenzio fino a quel momento. «Mi è difficile pensare ad altre scuole nel nostro paese che abbiano adottato la stessa filosofia.»

«Non ce ne sono, non almeno vicino ad Edimburgo» replicò Emeline. Livia la osservava con il suo sguardo da lupa, le dita strette appena alle posate.

«Mi fa orrore, come mi fa orrore pensare che Amalthea sia dovuta andare in un istituto religioso per imparare il latino e il greco come si dovrebbe, quando nei collegi maschili sono insegnati comunemente.»

«Fa orrore anche a me» sibilò Amalthea, sconfortata.

«Voi invece avete scelto la carriera scientifica nonostante vostro padre viva d'arte. C'è un motivo particolare?»

«Solamente il fatto che vi sia portata. E che non sia molto brava a contrattare, parte essenziale del lavoro da mercante.» Si chiese se fosse stato Ezra a dirgli della sua famiglia. Lo osservò, ma lui stava continuando a parlare sottovoce con Julius, che lo guardava appena.

Aurelian sorrise, «Ma vi interessate comunque d'arte, sbaglio?»

«È ciò di più caro che ho ereditato da mio padre» disse, e poco dopo si rese conto non fosse la migliore soluzione di risposta. Ma procedette comunque.
«Ma la vostra dimora è un museo a cielo aperto. Vi ispirate alla Domus Aurea, è così?»

A quel punto Livia alzò il volto dal piatto, gli occhi attenti a osservare Emeline.
«È esatto» disse, «dai dettagli reperiti nella biografia di Nerone scritta da Svetonio.»

«Mio padre l'ha letta, sì» Emeline provò una debole e piacevole fitta allo stomaco, nel parlare.
«Gli fu utile per un'analisi comparativa con dei quadri neopompeiani.»

Tutti mangiavano il cervo senza appetito.
L'unico che sembrava averne davvero era lo stesso Mida, che debolmente portava la forchetta alla bocca, ma con gusto, quasi gli piacesse assaporare quella stessa carne a cui aveva strappato il sangue.
«E quindi come avete conosciuto Julius?» chiese all'improvviso, appoggiando le posate.

Emeline rimase interdetta solo per un attimo.
«Siamo nello stesso corso.»

Livia inclinò la testa, contrariata. Sembrava avesse voluto continuare la conversazione precedente, ma non disse nulla.
Emeline posò il bicchiere al tavolo.

«Solo quest'anno lo avete notato, tuttavia.>
Mida la guardava con estrema attenzione, lo sguardo puntato e concentrato simile a quello dei suoi bracchi.

«Devo ammettere di sì. Temo sia colpa mia; tendo a nascondermi nelle ultime file.»

«Di certo non di mio fratello. Scommetto che sta nelle file centrali.»

Emeline annuì, sorpresa, e allora Mida sorrise, molto mellifluo e molto divertito.
«Sapete perché lo so?» chiese, e solo dopo qualche momento Emeline capì che attendeva risposta. Scosse la testa.

«Perché le file centrali sono un ottimo stratagemma per chi vuole essere visibile ma non spudoratamente, ed è l'area in cui le mani alzate vengono viste per prime.»

Lei guardò Julius. Privo di espressione, ricambiò l'occhiata.

«Certo è comprensibile che non vi abbia mai notata, -non per una vostra anonimità, non lo insinuerei mai-, ma perché tende a stare sempre con le stesse persone. E quelle stesse persone sono, il più delle volte, Ezra.»

Ezra sorrise, intimidito. Emeline gli osservò gli occhi e li vide puntati verso Mida, seri, privi del sorriso delle labbra.

«Mi chiedo come non vi siate ancora stancati l'uno dell'altro» continuò, laconico.

Poi, verso Emeline. «Io tenderei ad annoiarmi terribilmente. Invero, è sempre così.»
Una cosa di Mida era che diceva tutto con molta freddezza, poco trasporto; tutto impersonale e in qualche modo poco interessato, e quindi non abbastanza per potercisi adirare contro.
Il suo sorriso era sottile e furbo. Rassomigliava in tutto e per tutto ai suoi cani, tornò a pensare Emeline.

«Siete così fortunati a studiare insieme» disse subito Amalthea, più euforica del previsto, appena cadde il silenzio.
«Tutte le mie compagne di collegio rimarranno qui in Scozia, alcune non continueranno nemmeno gli studi. Nessuna che venga in Italia.»

«Non tutti aspirano a studiare le incisioni dei Fori, Thea» disse Livia, fredda, prima di versarsi altro vino.

«Signorina Barclay» esclamò invece Mida, mellifluo, «avete dimenticato la vostra veste da casa a Edimburgo?»

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