Capitolo 11. La Morte cammina al suo fianco

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«È stata l'esperienza più terrificante di tutta la mia vita!»

Charlotte si era buttata sul letto e aveva affondato il volto nel cuscino; uno sbuffo di polvere si era alzato dalle lenzuola e l'aveva circondata come un'invisibile presenza maligna.

Michela la ignorò e si accostò alla grossa finestra che si affacciava sul retro di villa Doria: il parco circostante era immerso nel buio della notte e soltanto la prima linea di statue arcaiche che delimitava un piccolo viottolo in ghiaia era illuminato dalle luci provenienti dall'interno della casa. L'atmosfera era, se possibile, ancora più lugubre e spettrale di prima.

In ogni caso, la vampira non aveva tutti i torti: avevano assistito a uno spettacolo da brividi. Nessuna storia che aveva sentito sulla famiglia Doria avrebbe mai potuta prepararla a dovere a quello. Era comunque stato affascinante osservare cosa la magia fosse in grado di compiere; grazie a essa, i Doria potevano mantenere il contatto con i defunti, generando così un curioso rapporto simbiotico tra i vivi e i morti. Era qualcosa di incredibilmente affascinante, se si riusciva a ignorare tutti gli aspetti più macabri della questione.

«Allora, Michi!» fece Charlotte, mettendosi a gambe incrociate sul letto che pareva non vedere anima viva da molti anni. «Ti posso chiamare Michi, vero? Condivideremo una camera, adesso siamo amiche per la pelle!»

La maga si voltò lentamente verso l'interno della stanza e fermò i suoi occhi sul volto della francese. Avrebbe volentieri affrontato altre cento sedute spiritiche con Ferdinando Doria piuttosto che doversi sottoporre a quello strazio, ma non voleva mostrarsi maleducata con i loro gentili ospiti e, quando Cassandra aveva loro proposto di dividere una delle camere da letto, Michela non aveva avuto cuore di rifiutare e di chiederne una tutta per sé.

«Ma voi non dormite nelle bare?» le chiese, gelida.

Charlotte esplose in una risatina stridula e Michela serrò le labbra, sentendo un fastidioso pizzicore sull'avambraccio. Quella risata, ormai, aveva un effetto urticante su di lei e, ogni volta che la sentiva, aveva il bisogno di allontanarsi e di grattarsi via la pelle di dosso.

«Certo, ma non devi temere!» rispose la vampira. «Andrà tutto bene finché avrai un crocifisso sul corpo e dell'aglio a portata di mano!»

Michela socchiuse gli occhi per un istante ed esalò un respiro; non doveva cedere alle sue provocazioni, doveva essere migliore. Non doveva piegarsi ai sentimenti che provava, o avrebbe perso il controllo sulla situazione. Mentre sentiva il battito accelerare e una strana ondata di calore pervaderle il volto, si mosse verso il suo letto e iniziò ad armeggiare con il suo borsone.

«Non ce la fai a prendere qualcosa sul serio, vero?» chiese, aggressiva.

Charlotte si lasciò cadere sul materasso e, fissando il soffitto, rispose:

«La vita è troppo difficile. Devi trovare il coraggio di ridere in qualsiasi situazione, o non ne uscirai sana di cervello.»

I pensieri della ragazza tornarono immediatamente al capofamiglia Doria. Erano stati con lui per tutto il pomeriggio a parlare del più e del meno in modo amabile e lui aveva sempre sorriso, senza nascondere gli evidenti segni di una grave malattia che avanzava a grandi falcate. Non aveva ancora molto tempo da vivere e ne sembrava consapevole, eppure non si rattristava della cosa, ma rideva e si godeva gli ultimi mesi che aveva dinanzi, beandosi nella vicinanza di sua figlia e del resto dei suoi parenti. Per la prima volta da quando la conosceva, Michela si chiese se la vampira non avesse ragione, almeno su quell'argomento.

«Sono stati gentili a ospitarci per la notte.» Charlotte continuò a chiacchierare come se nulla fosse. «Sarebbe stato scomodo tornare fino a Milano per poi, domani, muoverci verso Como. Da qui siamo molto più vicini, arriveremo a casa di Leonardo in un baleno!»

La maga si limitò ad annuire, proseguendo nella ricerca di alcuni vestiti sepolti nel borsone. Su quella faccenda, Leonardo era stato irremovibile: la loro prossima tappa sarebbe stata villa Archi, la vecchia dimora che era rimasta abbandonata dopo la morte di Giorgio. Il rituale necromantico che l'anziano Doria aveva loro fornito aveva un requisito particolare: andava eseguito nelle vicinanze del luogo di trapasso dello spirito che si voleva richiamare. Le era sembrata una cosa strana, dopotutto non le pareva possibile che tutti gli spiriti che avevano visto quel pomeriggio fossero morti a Villa Doria, ma Ferdinando, ridendo, aveva spiegato che non poteva prendersi troppe libertà e che avrebbe potuto condividere solo i segreti più blandi della sua scuola di magia. In sostanza il tomo ammuffito che Cassandra aveva esumato dalla biblioteca conteneva gli incantesimi più blandi tra tutti quelli che i Doria custodivano, e Michela era rimasta velatamente delusa da quella scoperta; avrebbe adorato immergersi nella lettura di arcaici rituali, Dio solo sapeva che cosa un Doria nel suo pieno potenziale poteva conseguire! Più veniva in contatto con maghi delle altre famiglie, più si accorgeva di quanto fosse stata oculata la scelta dello Statuto durante la sua fondazione.

Dopo il colloquio con i defunti Doria, Leonardo era rimasto teso e silenzioso per tutto il resto della giornata e non aveva partecipato in modo particolare al dibattito di politica interna che Michela aveva intessuto con Cassandra e Ferdinando. Erano persone affascinanti e la Guelfi fu felice di scoprire che erano solo le maldicenze e le chiacchiere a tenere le famiglie così distanti tra di loro. Lo aveva notato durante il suo primo incontro con Leonardo e lo stava riscontrando anche con i Doria: i maghi avevano più elementi in comune che di separazione e sarebbe bastato un banale incontro tra i vari portavoce delle casate per terminare una volta per tutte quel lungo periodo di insulsi dissapori. Ne era ormai certa: indire il consiglio dello Statuto era stata la decisione migliore. Avrebbero tutti riconosciuto ciò che aveva scoperto anche lei, che le antiche rivalità e antipatie non erano altro che reminiscenze di un tempo passato che non erano mai state abbattute; da quel momento di crisi sarebbe scaturito un periodo di prosperità e unione della comunità magica Italiana. Alla fine di quella storia, tutti avrebbero ringraziato Cailean Dow, ricordandolo come l'elemento che aveva unificato le stirpi dei maghi.

«Va bene, ho capito,» disse Charlotte, alzandosi dal letto con un improvviso colpo di reni. «Io non piaccio a te e tu, non offenderti, non piaci proprio a me. Non ti disturberò oltre, ci vediamo domattina.»

La vampira si avvicinò con passo leggero alla finestra e Michela prese un ampio respiro prima di voltarsi a cercare il suo viso. Le costava caro dire quello che le frullava in testa, ma tacere non avrebbe fatto altro che alimentare quella strana atmosfera tra loro due; sì, la vampira non le piaceva per nulla, ma la sua condizione era solo una scusa, un pretesto dietro cui celare il vero motivo della viscerale antipatia che provava. La mancanza di comunicazione aveva frammentato lo Statuto, se voleva essere quella che l'avrebbe unito, avrebbe dovuto sforzarsi di non ricadere in quello stesso errore. Anche se era difficile, molto difficile.

«Io... io ti invidio, Charlotte,» esalò, mantenendo un tono di voce fermo. «Non mi piaci perché rappresenti l'opposto di ciò a cui sono stata educata. Ma ti invidio, perché sei libera. Io non potrò mai assaporare la tua stessa indipendenza.»

L'ombra di quei severi occhi grigi contornati dalla montatura scura le balenò nella mente e si sentì mozzare il fiato.

«Non mi potrò mai svincolare da ciò che sono. Sarò onesta: non mi piaci, ma soltanto perché so che non potrò mai essere come te.»

Socchiuse gli occhi e prese un profondo respiro. Quanto le era costata quell'ammissione? Aprirsi così davanti a una sconosciuta (davanti a Charlotte) era stata forse la cosa più difficile che aveva fatto in quelle giornate. Anche Charlotte doveva averlo capito, perché la fissava con quei suoi grossi occhi spalancati e la bocca aperta, come fosse sul punto di dire qualcosa, ma senza trovare le parole giuste. Un lieve barlume di soddisfazione rischiarò l'animo cupo di Michela, alla consapevolezza che ce l'aveva fatta anche lei! Proprio come suo padre, aveva lasciato quella vampira chiacchierona senza parole.

La francese, alla fine, richiuse la bocca e distolse lo sguardo. Senza dire nulla proseguì a passo lento la sua marcia, fermandosi davanti alla finestra e spalancandola con un unico movimento veloce; un prepotente getto d'aria gelida si fece strada nella camera, investendo la maga, che rabbrividì.

«Io non sono libera,» sentenziò Charlotte con un filo di voce. Dava le spalle alla compagna di stanza, ma la voce era velata da una pesante nota di malinconia. Michela si strinse nelle spalle e si cinse le braccia in un futile tentativo di proteggersi dal freddo, osservando fissa la snella sagoma che balzava con grazia sul davanzale; forse aveva detto qualcosa di sbagliato? O era stata troppo sincera e aveva finito per turbare la vampira? Quella sua confessione avrebbe dovuto smorzare la tensione che c'era tra loro due, ma sembrava invece averla alimentata a dismisura, aprendo un largo e invalicabile canyon tra lei e la francese.

Michela ingoiò un groppo che le si era fermato in gola e fece per avvicinarsi, ma Charlotte non attese un secondo in più e si diede la spinta per saltare nel vuoto, scomparendo oltre il davanzale. Quando raggiunse la finestra per scrutare all'esterno, la vampira era già sparita nell'oscurità della notte.

Il silenzio profondo era spezzato soltanto dal suono strascicato della pantofole sulle grezze piastrelle del pavimento. Era notte inoltrata e Leonardo non aveva alcuna voglia di svegliare i proprietari di casa, ma l'urgenza di trovare un bagno si era fatta fin troppo impellente e si era visto costretto a lasciare la stanza dove anche Kelhatyel dormiva profondamente. Dopo quello a cui aveva assistito durante la giornata, aveva una paura fottuta a camminare da solo per i corridoi di villa Doria e quasi si aspettava di venire assalito da un fantasma o da qualche altra apparizione. Non ce la faceva proprio a dormire, non dopo quella giornata; addormentarsi voleva dire ripiombare all'interno del suo incubo abituale e non ce l'avrebbe mai fatta a sopportarlo ancora, soprattutto dopo le parole degli spiriti dei Doria. "Ciò che è morto non è mai morto davvero", quelle parole continuavano ad affollare i suoi pensieri senza sosta e conferivano un ulteriore significato sovrannaturale a quei maledetti incubi che non accennavano a dargli tregua. Possibile che quelle visioni oniriche rappresentassero i tentativi di Giorgio Archi per arrivare a comunicare con suo figlio? Che cosa poteva volere da lui? Voleva rivelargli uno dei tanti segreti che si era portato nella tomba? E perché cazzo non lo aveva fatto da vivo, invece di uccidersi e abbandonare la sua famiglia?

Preso da un moto di stizza, Leonardo scosse la testa con veemenza e accelerò il passo, ma si bloccò di colpo davanti all'imboccatura delle scale che portavano al piano inferiore, mentre il cuore iniziava a battere veloce, fracassandogli la cassa toracica. Aveva sentito un rumore provenire dal basso.

Possibile che se lo fosse immaginato? In quella casa vivevano soltanto Ferdinando e Cassandra e le loro camere si trovavano al secondo piano, mentre l'anziano domestico che li aveva accolti quel pomeriggio dimorava nella dependance all'ingresso del parco. A Leonardo e ai suoi compagni erano state offerte due camere per gli ospiti al primo piano. Non poteva esserci ancora qualcuno sveglio, tutti quanti si erano ritirati nelle loro stanze di buon'ora, subito dopo l'abbondante cena. Sì, quel rumore era stato soltanto un semplice frutto della sua fantasia; dopotutto si trovava a vagare di notte in una villa di necromanti e aveva i nervi a fiori di pelle, era ovvio che fosse stato suggestionato da tutto quello che aveva visto e sentito.

Fece per rimettersi in marcia per tornare a letto, quando lo udì di nuovo: un sussurro, una voce flebile e sibilante che giungeva dal basso. Con il gelo nel sangue, Leonardo si trovò costretto ad ammettere che non si stava immaginando nulla: c'era qualcuno al piano terra della villa.

Con la mano tremante, alzò lo smartphone e accese la torcia per illuminare la rampa di scale che scendeva. Doveva essere uno dei proprietari di casa, sceso magari per bere o mangiare qualcosa, non era nulla di preoccupante. Oppure poteva essere uno dei tirapiedi del loro misterioso avversario che li aveva seguiti fino a quel luogo e si stava accingendo a completare ciò che aveva iniziato qualche giorno prima a Milano.

La tentazione fu quella di tornare di corsa nella sua stanza e barricarsi all'interno, ma qualcosa lo bloccò: non voleva continuare a scappare per tutto il resto della vita. Negli ultimi anni non aveva fatto altro che fuggire; correva via dalla magia, dai suoi obblighi quale Archi, da sua madre, dai dolorosi ricordi di una vita passata più felice... scappava dal ricordo di suo padre eppure, per tutto quel tempo, esso l'aveva rincorso con insistenza, senza mai volerlo lasciare andare. Come lui, anche la magia, alla fine, l'aveva acciuffato, e non sembrava intenzionata a volerlo lasciare. A che cosa era valso correre per tutto quel tempo? No, era stufo. Non voleva passare il tempo che gli era rimasto a vivere come una cazzo di preda, braccato dal passato, spaventato dal futuro!

Esitando a ogni passo, il mago scese i gradini di pietra. Ci impiegò un tempo infinito, ma, alla fine, raggiunse l'anticamera d'ingresso della villa. L'unica fonte d'illuminazione era la torcia del suo telefono e la fioca luminosità dell'ambiente creava degli inquietanti giochi di ombre che gli fecero rimpiangere il ricordo più cruento dei suoi incubi. Era fermo sull'ultimo scalino quando lo udì ancora: un sussurro basso e monocorde che proveniva da una delle stanze che non aveva avuto modo di visitare il giorno precedente. Si mosse verso la porta semichiusa; si sentiva le gambe deboli e mollicce, formicolanti come quando stai seduto in una posizione strana per troppo tempo e ti si blocca la circolazione. Temeva di poter rovinare sul pavimento da un momento all'altro, ma riuscì a proseguire, spinto da una curiosità che non riusciva a spiegarsi.

Arrivato davanti all'uscio di legno, esitò un attimo, tendendo al contempo le orecchie alla ricerca di qualche nuovo rumore. Non sapeva cosa avrebbe trovato all'interno, ma doveva essere pronto a qualsiasi cosa. Chiuse gli occhi ed emise un tremolante sospiro, mentre sentiva l'energia arcana attraversargli ogni cellula del corpo.

Aveva ancora contravvenuto alla promessa. Lo sapeva, dopotutto: la magia era una droga a cui nessuno poteva sfuggire, e lui non era stato da meno. Era riuscito a resistere per otto anni, e si era quasi convinto di poter vivere il resto dei suoi giorni come una persona normale, ma era bastato un singolo incantesimo per tornare prigioniero, nella gabbia che la Trama aveva costruito intorno a loro.

Leonardo appoggiò la mano sulla tiepida superficie di legno e spinse in avanti, muovendo il telefono per illuminare ciò che si trovò davanti: la stanza era piccola e afosa, le pareti erano interamente ricoperte da librerie straripanti di tomi, così alte da toccare il soffitto, la loro grossa stazza era minacciosa e quasi sembravano piegarsi verso il basso per fare ombra a un tavolino rotondo posto al centro e circondato da due comode poltrone foderate di tessuto verde scuro. Una persona stava seduta su una di esse, dando il fianco sinistro all'ingresso e a Leonardo; non si mosse quando la luce della torcia la investì.

Con i battiti accelerati e la vista appannata, il mago si maledisse di aver lasciato gli occhiali in camera. Della figura non riuscì a distinguere alcun lineamento: sembrava vestire un indefinito e lungo abito nero che culminava in un colletto di pizzo bianco. A giudicare dall'abbigliamento e dai lunghi capelli scuri doveva essere una donna.

Prima che il ragazzo potesse dire o fare qualcosa, la figura parlò.

«Dille che il giorno è giunto,» mormorò. Il suo timbro era basso ma, in un certo modo, melodioso.

Leonardo corrugo la fronte, il cuore batteva così forte che ne sentiva il rimbombo nelle orecchie.

«Cosa?» chiese in un filo di voce tremante.

«Dì a Marie che è giunto il giorno che loro tornino al mio cospetto.»

Fece un passo in avanti, per nulla certo di aver capito che cosa la donna intendesse.

Poi qualcosa gli sfiorò la spalla. Un lungo brivido gli attraversò la schiena e fu come essere scaraventato in una vasca d'acqua gelida.

Si voltò di scatto, ritraendosi di lato e finì per sbattere la spalla contro il massiccio stipite della porta.

Davanti a lui, nell'anticamera, stava Michela: lo osservava con gli occhi verdi sgranati e pareva essersi anch'essa spaventata per quel suo brusco movimento.

«Dio Santo!» esalò Leonardo, appoggiandosi al telaio con tutto il peso del corpo.

Si porto la mano al petto dove sentiva il cuore martellare con insistenza e boccheggiò alla ricerca d'aria. La sentiva, era lì alle sue spalle, pronta ad aggredirlo di nuovo, ma questa volta non era sicuro che sarebbe riuscito a controllare una delle sue crisi. Respirò veloce, chiudendo gli occhi, e ripercorse gli eventi della giornata a partire dalla mattina, ma il macigno che gli opprimeva il petto sembrava, invece, farsi più pesante.

«Che... che cazzo stai facendo?» gli chiese Michela di rimando, scrutandogli il volto con sguardo turbato. «Stavo cercando il bagno e ti ho visto scendere le scale.»

Il mago quasi non la sentì, così immerso nel suo esercizio di respirazione. Gli bruciavano gli occhi e serrò con forza le palpebre per ricacciare le lacrime; respirò e ricordò il viaggio in macchina quel pomeriggio, l'immagine del sole che si rifletteva sulle acque placide del lago gli riportò alla memoria scorci di quando era bambino e osservava con la mamma le montagne che si gettavano a capofitto nelle acque mosse dal vento.

Attese ancora qualche attimo senza dire nulla, sincerandosi di non essere più in pericolo e di aver scongiurato l'attacco d'ansia. Il battito stava tornando più regolare e riusciva a prendere respiri più lunghi e controllati.

«Io ho... c'è una donna che...» provò a spiegare, indicando la stanza alle sue spalle.

Michela si sporse verso l'interno e gli prese il telefono per aiutarsi a fare luce. Rimase in quella posizione per una buona manciata di secondi, muovendo la torcia a destra e a sinistra, prima di ritrarsi e tornare a guardare Leonardo con sguardo molto preoccupato.

«Non c'è nessuno lì dentro,» sussurrò.

Leonardo sgranò gli occhi e sentì svanire di nuovo quel poco di controllo che era riuscito ad acquisire. Si voltò di scatto verso la piccola biblioteca e fissò la poltrona per qualche interminabile secondo: era vuota, della figura che gli aveva parlato non c'era neanche l'ombra. L'aria all'interno era così immobile che nemmeno un filo di polvere andava a fendere il raggio di luce generato dal suo smartphone. Non esistevano altre porte e non vide alcuna finestra, e lui e Michela erano stati davanti all'unico ingresso per tutto il tempo.

«Ti giuro che—» iniziò Leonardo, ma venne subito interrotto dalla ragazza.

«Ci credo,» disse lei, secca. Non lo disse, ma era chiaro che fosse turbata da quello che era successo. «Torniamo a letto.»

Vicini, come a farsi scudo a vicenda dai pericoli che quell'antica villa celava, i due maghi tornarono al primo piano. Camminarono in silenzio, ma non c'era davvero bisogno di parlare per comunicare ciò che entrambi pensavano: si erano conosciuti come due nemici, ma stavano affrontando una situazione ignota come due alleati. Era quello l'unico modo che avevano per uscire vivi da quella vicenda.

La mattina dopo, tutti quanti si svegliarono di buon'ora, come se sentissero l'urgente bisogno di lasciare quella terrificante casa infestata. Dopo l'episodio che aveva condiviso con Leonardo quella notte, Michela aveva deciso che non avrebbe mai più accettato un ulteriore invito a casa dei Doria. Erano persone squisite, ma l'idea di rimettere piede tra quelle mura le generava un molesto malessere al basso ventre, proprio come quando aveva il ciclo. Cassandra si era augurata, quella mattina a colazione, di averli di nuovo come loro ospiti, e Michela aveva eluso l'invito con una frase di circostanza; dopotutto non poteva certo rispondere "grazie, ma stare qui dentro è come avere il mestruo!".

Mentre caricavano i borsoni sull'auto di Charlotte, la maga guardò di sottecchi le pesanti occhiaie che cerchiavano le orbite del giovane Archi, segno che anche lui non era riuscito a dormire per tutta la notte. Michela aveva passato le ore di buio che rimanevano a rigirarsi nel letto, incapace di prendere sonno; ogni volta che abbassava le palpebre, le balenava davanti l'immagine delle pupille scure dilatate del ragazzo, e il suono del suo respiro affannato le rimbombava nel cervello. Che cosa cazzo aveva visto che l'aveva spaventato in quel modo? Sembrava addirittura più terrorizzato della sera in cui si erano conosciuti, rinchiusi nella cella del loro sconosciuto rapitore. Quella domanda l'aveva tenuta sveglia fino all'alba e, quando le prime luci del sole avevano iniziato a premere sulle tende tirate davanti alla finestra, la maga aveva rinunciato e si era alzata.

Dopo aver appoggiato il suo modesto bagaglio nell'auto, Michela si allontanò dal resto dei suoi compagni, lasciando Charlotte e Kelhatyel a discutere su come incastrare al meglio tutte le loro borse all'interno del piccolo bagagliaio. Cassandra era ferma sull'ingresso e guardava la scena sorridendo, mentre suo padre non si era visto neanche per colazione. La donna si era scusata al suo posto per la scortesia, ma Ferdinando si era sentito male durante la notte e preferiva non alzarsi dal letto; aveva quindi mandato i suoi calorosi saluti tramite la figlia.

«Devo chiederti una cosa.» Michela si accostò a Cassandra; alle sue spalle, la squillante voce di Charlotte risuonava nel giardino, e la vampira sembrava ben intenzionata a far sapere a tutto il circondario che le borse più pesanti dovevano stare ai lati e non al centro.

«Tutto quello che desideri,» rispose lei, con un mellifluo sorriso.

La giovane scoccò un'ulteriore occhiata per cercare Leonardo: il ragazzo era appoggiato allo sportello aperto del passeggero e osservava con un flebile sorriso la francese. Non era ancora certa che fosse la mossa giusta porre quella domanda, temeva che la risposta non le sarebbe piaciuta per nulla, ma era invece certa del fatto che si sarebbe tormentata nel rimorso di aver lasciato quel posto senza le risposte che cercava.

«Leonardo dice di aver visto qualcosa, la scorsa notte,» spiegò lei, tornando con la memoria a pochi minuti prima quando il ragazzo, più tranquillo e lucido, le aveva raccontato l'episodio al completo. «Nella vostra biblioteca c'era una donna con strani abiti scuri che gli ha parlato. È sparita quando io l'ho raggiunto.»

Cassandra socchiuse gli occhi e il sorriso sembrò morirle sul volto. A Michela bastò per capire che la Doria sapeva bene di cosa stavano parlando.

«Chi era?» incalzò, vedendo che la donna non accennava a parlare.

Cassandra si sistemò l'orlo della camicetta, chiaramente a disagio, ma la Guelfi non si sarebbe mossa da lì prima di ricevere una risposta, e il suo sguardo sormontato dalle sopracciglia corrugate fu sufficiente per dare voce a quel pensiero.

«È capitato altre volte che lei si presentasse nelle nostre stanze,» spiegò la Doria con voce roca. «Anni e anni di rituali necromantici hanno intriso i muri di questa dimora di potere arcano e la barriera che separa il nostro piano d'esistenza dall'aldilà si è assottigliato, rendendole più facile manifestarsi presso di noi.»

Michela annuì e inclinò la testa di lato, in attesa di sentire il resto.

«Solitamente appare a chi cammina lungo l'ultima strada, verso la propria fine. È presente nel momento in cui esali l'ultimo respiro e ti accompagna nel reame di chi è trapassato. È un grande privilegio venire onorati della sua visita, ma è raro che la persona che la riceve viva a lungo dopo la sua comparsa.»

Michela si voltò e fissò Leonardo con un singulto al cuore. Se avesse ascoltato quella storia prima della giornata passata avrebbe sbuffato e fatto una grassa risata, ma le criptiche parole dei Doria avevano assunto una valenza tutta nuova da quando li aveva visti evocare gli spettri dei loro antenati. Osservandolo, il ragazzo pareva più smunto del solito e gli occhi sembravano immersi in voragini scure tanto erano marcate le occhiaie. Era come guardare un cranio umano, lucido e ben conservato.

«Il tuo amico ha parlato con la Signora,» concluse Cassandra, asciutta, anche lei fissando Leonardo. «La Morte cammina al suo fianco.»

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