Capitolo 32. Quel palazzo nel North Yorkshire

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Un turista che si fosse trovato alla guida attraverso la campagna inglese del North Yorkshire avrebbe potuto scambiare quell'opulento edificio per una di quelle antiche residenze inglesi di campagna costruite nel primo diciottesimo secolo, ormai disabitate e riconvertite a museo o a patrimonio artistico nazionale. Non era, però, il caso di quel particolare palazzo che sorgeva tra i campi coltivati e la vegetazione rigogliosa, separato dalla cittadina di York solo da una lunga strada immersa nel verde che sfociava dopo qualche chilometro nella A64, lunga e trafficata arteria che conduceva dritto verso la capitale storica della contea.

Quel bellissimo palazzo dall'architettura barocca e dai tetti sormontati di merletti e alte cupole che culminavano con dorate e aguzze guglie era a tutti gli effetti abitato. Lo circondava solo un immenso parco privato, delimitato da uno spesso muro di cinta, chiuso da alcuni cancelli in ferro battuto posti ai quattro punti cardinali.

L'agglomerato urbano più vicino era il piccolo villaggio residenziale chiamato Coneysthorpe e le circa centoventi anime che lo popolavano erano solite chiamare quel ricchissimo complesso costruito dall'altra sponda del lago come Palazzo Maverick.

Il nome era, ovviamente, ricavato dalla famiglia che lo abitava. I Maverick erano un'antica famiglia nobiliare e voci dicevano che Theodor Maverick avesse comprato i circa ottomila acri di terreno su cui poi aveva costruito la tenuta della sua famiglia, intorno alla seconda metà del 1600. I Maverick si erano sempre tenuti in disparte dal resto degli abitanti della vicina cittadina e non erano visti di buon occhio neanche dagli attuali abitanti, che li consideravano snob e pieni di sé. Se interrogate, alcune anziane residenti raccontavano storie di strani incontri segreti che avvenivano all'interno della tenuta, "proprio come in quel film sconcio con Tom Cruise", dicevano.

La realtà era ben diversa da quello che le persone ordinarie potevano immaginare. La tenuta, al momento, ospitava la numerosa famiglia Maverick, il cui membro più anziano e venerato era il settantacinquenne Alexander Maverick. Alexander non aveva solo origini nobiliari, ma era anche il più anziano mago del Regno Unito attualmente in vita.

Quel pomeriggio di fine Gennaio, Alexander stava seduto sulla sua comoda poltrona foderata e osservava fuori dall'ampio finestrone della stanza; qualche giorno prima aveva nevicato e alcune chiazze biancastre ancora tappezzavano il panorama incontaminato dei prati color smeraldo che circondavano la villa. I suoi occhi scuri, correndo sul manto erboso, si persero oltre la linea dell'orizzonte, mentre i pensieri vagavano verso lidi ben più lontani. Dal laptop appoggiato sulla robusta scrivania di faggio proveniva, sommessa, una canzone; Alexander adorava Elvis e non passava giorno senza che facesse partire su Youtube la playlist con i brani più famosi del cantante del Mississippi.

Come evocato dai suoi pensieri, il telefono piazzato sull'angolo dello scrittoio squillò, coprendo le note di Suspicious Minds.

«And we can't build our dreams,» canticchiò, ruotando la poltrona per fronteggiare la superficie della scrivania e afferrare il cordless piazzato sulla sua base.

«Pronto,» fece, alzando il telefono e portandoselo all'orecchio.

Appoggiò il busto allo schienale e socchiuse l'occhio, mentre una lieve fitta gli pizzicava la schiena. Ah, gli acciacchi dell'età, più forti persino del più potente degli incantesimi.

«Mr. Maverick, buongiorno.»

L'accento tedesco era inconfondibile e, sebbene non sentisse quella voce sibilante ormai da molti mesi, riconobbe subito il suo interlocutore.

«Herr Meyer, è un piacere sentirla,» esclamò l'anziano inglese, sorridendo sotto il pizzetto ben curato, imbiancato dall'età.

«Nulla è andato come previsto, Mr. Maverick,» sbottò il tedesco. Sentirlo parlare inglese con quel ridicolo accento era come subire lo stridio di un gessetto su una lavagna.

«Riguardo?» chiese l'anziano, ma sapeva bene di cosa Meyer stesse parlando.

«L'affare Dove. I prigionieri che avevamo fatto sono scappati tutti, non c'è stata neanche una vittima! Per giunta ci arrivano voci dall'Italia che dicono che Dove sia stato ucciso, e ora io e i miei compagni ci siamo sputtanati per—»

«Herr Meyer, la prego,» lo interruppe Alexander, corrugando la fronte. Odiava la volgarità, era tutto ciò che c'era di poco elegante nel mondo. «Non deve perdere la calma. L'operazione negli altri paesi ha dato i frutti sperati ed è un caso che soltanto voi abbiate avuto questa difficoltà a gestire la cosa.»

«Nessuna difficoltà, Alexander,» sibilò Meyer. «Non abbiamo avuta alcuna difficoltà, ma il rituale di Dove non è andato come ci aveva promesso. Siamo stati ingannati, e ora io e i miei alleati siamo nella merda! Non possiamo sostenere una guerra del genere con l'altro gruppo!»

Certo che non era andato come promesso. Alexander ingoiò della saliva per ricacciare in gola una risata.

«Mi faccia fare due telefonate, ho alcuni contatti a Berlino che potrebbero aiutarvi a risolvere questo incidente,» disse. La voce era cupa, ma il sorriso era sempre stampato sul volto e gli occhi illuminati di gioia. «Nel frattempo mantenete la calma. Mi farò risentire.»

Scostò il telefono e interruppe la telefonata, poi esplose finalmente a ridere, lasciando vagare la sua calda risata tra le pareti della spaziosa camera. Perfetto, era andato tutto in modo perfetto.

Appoggiò il telefono sul tavolo e, preso da un moto di felicità, si diede la spinta con i piedi e fece girare due volte la poltrona su sé stessa; appiccicato allo schienale, Alexander seguì il mondo vorticargli intorno e rise quando si sentì la testa girare.

«It's now or never,» cantò Elvis, dalle casse del computer.

«Proprio così, amico mio,» gli rispose Alexander, con un ghigno. «Proprio così.»

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