Il gatto, la gazza e il Natale - parte prima

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No. Semplicemente no.

Abbassai lo schermo per chiudere il portatile, forzandomi a essere lento. Non potevo certo permettermi di romperlo, sbattendolo giù come mi sarebbe andato di fare.

Oh, se mi sarebbe andato!

Avrei avuto voglia di prendere a manate i muri, anche, ad esempio, ma avrei fatto rumore. E c'era gente che dormiva, sopra e sotto il mio monolocale, a quell'ora...

Mi spostai alla finestra, e sbirciai fuori. Da gufo che ero, mi sbattevo il cervello sul computer solo quando tutto era buio e silenzioso e le idee vorticavano impazzite e seducenti intorno a me. Tranne che a tentare d'afferrarle svanivano come la fata Morgana nel deserto.

Fissai cupo i cassonetti nel viale, sotto i lampioni.

Perché i cassonetti, direte. C'erano le auto. Gli alberi. Le palazzine di fronte alla mia. L'asfalto. E in alto, c'era il cielo! Le stelle s'intuivano appena, ma un quarto di luna avrebbe potuto essere un piacevole soggetto d'osservazione. D'ispirazione, magari.

Invece no. Avevo lo sguardo incantato sui cassonetti. Magari era un messaggio dell'inconscio. Mi sentivo un'immondizia.

Cerchiamo di star calmi, mi dissi. Mi serve un'idea. Una cosa semplice, per cominciare; poi dettagliamo l'idea, la trasformiamo in uno stato di partenza; e immaginiamo una possibile trasformazione.

Ecco che prende il via il lavoro: elaboriamo una introduzione, uno svolgimento, una conclusione in cui si completa la trasformazione.

Poi inseriamo un po' di scene, e abbiamo lo scheletro della storia.

Il resto viene quasi da sé, sei uno scrittore, Massimo De Leo! Hai dimenticato, che sei uno scrittore?

Una macchina transitò a forte velocità.

–Di notte girano come pazzi!

Potevo quasi sentirla nelle orecchie, mia madre. A ogni santa volta che uscivo:

–A quest'ora? Ma a quest'ora si dorme. Dove vai? Sta' attento, di notte guidano come pazzi! C'è gente ubriaca, drogata...

Mia madre. Se ero di malumore c'entrava, sicuramente.

Ma non devo distrarmi, ho un soggetto da trovare. Devo, trovarlo. Sono due mesi che non scrivo niente che abbia un senso... e dopo il 'successo' di Nemesis, tutti attendono invece un nuovo gran romanzo.

Successo!–  Mi sembra quasi di sentir ridere qualcuno alle mie spalle.

Un successo, sì! Certo, gli invidiosi e i meschini avevano insinuato che ad attirare la curiosità della gente sia stata solo la vicenda dell'incriminazione per omicidio, ma era una... una vigliaccata.

Il libro stava già andando benissimo su Wattpad, quando quel decerebrato di ispettore aveva concepito il folle sospetto che fossi implicato in un delitto. Quando poi il castello di accuse era crollato, sui giornali si era fatto un tal parlare di Nemesis che avevo trovato magicamente un editore, e un pubblico pagante non indifferente.

Il fatto che nel mio libro avessi descritto nei dettagli un delitto perfetto, apparentemente concretizzatosi nella realtà, mi aveva trascinato nella surreale condizione di dover dimostrare la mia estraneità in un omicidio. Un omicidio!

Il processo mediatico, colpevolista prima e innocentista poi, era risultato un magnifico lancio pubblicitario. L'amarezza, e anzi il terrore!, di non riuscire a discolparmi, però, avevano reso l'intera vicenda e i suoi strascichi, almeno inizialmente, orribile.

Nonostante fosse stata riconosciuta abbastanza in fretta la mia estraneità, avevo impiegato mesi a riprendermi; mesi, prima di riuscire ad apprezzare l'imprevedibile risvolto: ero ormai uno scrittore che aveva pubblicato, e venduto bene!, il suo primo libro.

Avevo potuto trasferirmi e affittare un monolocale, per ricominciare in una città in cui, finalmente, ogni abitante non mi riconoscesse come il presunto mostro. Ma dopo due brevi racconti, pubblicati senza alcuna fortuna, tutto si era spento.

Buio e vuoto, nel cervello. Peggio che in questa strada alle tre di notte. Almeno, in strada, qualcosa c'era: un anima solitaria di gatto sfilava elegante lungo il marciapiede, senza fretta.

Una sagoma indolente, chissà se il viale era un suo territorio.

Potrei scrivere una storia vista con gli occhi di un gatto! pensai. I gatti piacciono alla gente e poi hanno una visione delle cose alternativa, guardandole da una prospettiva diversa.

Il tempo di formulare il pensiero e un improvviso accendersi di furiosi soffi e rauchi miagolii ruppe la quiete notturna. L'elegante felino si trasformò in un vorticare di artigli e una palla di peli di color rossiccio e grigio si fuse, rotolò e si separò in pochi attimi, dividendosi in due proiettili, rossastro in fuga il primo, grigio all'inseguimento l'altro, verso il buio d'una strada laterale. Una guerra lampo, e un'apparente tregua nel rinnovato silenzio.

Prospettiva diversa, dicevo. Non tanto, in fondo, mi corressi. Anche loro, i gatti, strappano la vita, s'azzuffano per mostrare i muscoli, crepano senza gloria in bocca a un cane, o sotto una macchina che non si ferma. Senza poter immaginare se domani saranno ancora in strada o nel becco d'una gazza.

Rabbrividii, perché a voler trovare una morale, non ne trovavo alcuna. Nessun pensiero profondo, cosa che mi sarebbe piaciuto avere. Un pensiero, una bella riflessione su cui poter costruire una storia.

In fondo non avrei desiderato altro, in quel momento; qualcosa su cui ragionare, per mettermi al lavoro. Per poter dire tranquillo: sto scrivendo. E ridere di chi, già di quello, pensava che fosse un'attività da perdigiorno.

Avrei potuto fare il superiore e stringermi nelle spalle: io scrivo, e peggio per chi è uomo così da poco da non apprezzare; gente ignorante, davvero povera nel suo materialismo.

Tranne che neppure scrivevo, da tanto.

Tutto quello che avevo da dire, sembrava che ormai fosse uscito. Tutto detto, tutto scritto. Mi ero svuotato, mi sentivo un guscio senza più che ansia, dentro. Ansia tanta, serpeggiante, a volte violenta, divorante. 

Non sai più scrivere... – mi alitava sul collo, – non sei mai stato altro che un illuso! Trovati un lavoro vero, fai a fare l'uomo delle pulizie...

E vai a dormire, che sono le tre. Questo me lo avrebbe detto mia madre. Sicuro? 

No, lo ammetto, non l'avrebbe detto, ma solo perché era troppo furba, i sensi di colpa lei li faceva venire subdolamente. Al ragazzino, rompeva l'anima. All'adulto, lei telefonava facendo la madre perfetta.

– Come stai? 

E non mi rimproverava che fosse un mese che non la chiamavo. Peggio. Che se non avesse chiamato lei, non ci saremmo sentiti mai. Ma non lo sottolineava, no.

– Come stai? Torni per Natale? 

Di nuovo, con questo Natale! Sapeva bene che mi faceva schifo, questa cosa del Natale. È il trionfo dell'ipocrisia, la più bieca.

Sapete cosa mi fa inorridire più di tutto? Le tregue che sui vari fronti di guerra, così tanti che neppure li ricordo tutti, scendono implorate da tutte le autorità. 

– Fermate la violenza, fate tacere le armi, almeno a Natale!

Che idiozia. A che serve, che tacciano un giorno? Quelli che salteranno in aria a Santo Stefano, che avranno guadagnato?

E i pranzi offerti ai barboni, cenciosi relitti umani che forse per un giorno mangeranno a sazietà... a che sarà servito? Quando due notti dopo qualcuno li pesterà, o gli darà fuoco, per pulire le strade dall'immondizia?

Non lo sopportavo, il Natale.

– Non vengo, ma'. Ho altri impegni.

– Ah. Peccato. Allora non ti conto. Ma vai fuori, o resti con amici in città?

– No, non mi muovo. Sai che non mi piace spostarmi in certi periodi.

– Sì, lo so. Allora ti auguro di divertirti... qui speravano tutti di poterti riabbracciare, gli zii, i tuoi cugini... sei certo di non poter tornare almeno a santo Stefano?

Rividi lo stanzone coi tavoli attaccati, col gradino formato dalle tre altezze diverse e la bottiglia che immancabilmente qualche distratto metteva sulla congiunzione e si rovesciava, tra risate e imprecazioni.

Rividi le tovaglie di rossi diversi, i ragazzini vocianti a un capo, i nonni sepolti negli scialli, accartocciati su se stessi, con i cuscini alti sotto, come bambini, per arrivare alla tavola.

Ascoltai il fracasso, gli uomini che si sfottevano col calcio, le donne che scartavano le teglie dall'alluminio, le luci che guizzavano isteriche sull'alberello.

Ancora Natale tutti insieme, facevano! Nonni novantenni, sorelle e fratelli coi capelli bianchi, cognati e cognate livorose, ragazzini insofferenti, bambini sovreccitati, antipasti primi secondi dolci frutta secca panettone liquori tombola. Tombola, scommetto. Inverosimile!

– Mi spiace ma'. Saluta tutti, ma non vengo.

– Capisco.

– Non credo.

Perché l'avevo detto? Perché questa voglia di farle sapere che non capiva? Che non doveva illudersi d'essere la brava mamma che capisce il figlio muto? Perché ero arrabbiato, credo, e con qualcuno dovevo prendermela.

– Purtroppo capisco, Massimo. Capisco che stai male, che da quella maledetta inchiesta non ti sei ripreso più. Che sei intossicato di cinismo. Che hai perso il senso dei giorni. Ma se ti sei sentito niente, se hai temuto che saresti rimasto schiacciato senza motivo, solo perché non eri nessuno... se ti ha disgustato la gente, che parlava e giudicava senza sapere, potresti però ricordare 'per chi' non ci sono mai stati dubbi. Potresti e dovresti ricordare che tutto è potuto crollare, tranne la fede che qualcuno ha avuto in te, sempre e a prescindere.

– Ma', che c'entra col Natale?

Come m'innervosivano quelle telefonate patetiche!

– Col Natale niente, Massimo. C'entra col non tornare più a casa. Me ne frego, che sia Natale, Capodanno o Pasqua. È solo un pretesto. Fingo di non ricordare che non hai telefonato per chiedermi degli ultimi accertamenti. Che non hai dato gli auguri a tuo padre, che faceva 65 anni. Che non ti fai mai sentire neanche con tua sorella. Faccio la scema e ti chiamo, almeno sento che voce hai. Ed è sempre più cupa, sempre più insofferente, sempre più rabbiosa, la tua voce!

Che le avevo risposto? Neanche me lo ricordavo. Avevo troncato in qualche modo. Ma certo mi aveva lasciato dentro un gomitolo di malessere che s'aggrovigliava, piuttosto che sciogliersi.

Perché avrei dovuto chiedere degli accertamenti? Stava benissimo, era fatta d'acciaio. E mio padre l'avevo dimenticato, ch'era nato a Ottobre. Mia sorella, poi, parlava solo della sua università, degli esami, dei progetti, delle scadenze che aveva programmato... avrei voluto vedere se si fosse trovata la polizia alla porta per trascinarla al commissariato, come era successo a me, per veder passare la sua vita al microscopio in cerca delle prove di un omicidio... Avrei voluto vedere se avrebbe ancora pensato che la vita possa essere programmata.

E per dimostrarmi che avevo ragione, squillò il telefono.

Echeggiò nella stanza silenziosa, con un frastuono ben maggiore di quanto si sarebbe avvertito di giorno. Il normale rumore che proviene dalla strada e dal palazzo stesso, l'avrebbe reso null'altro che lo squillo del telefono.

Di notte invece fu un urlo. Come un urlo mi strinse lo sterno, mi fece annaspare. Nessuno mi chiamava mai di notte, sul fisso. Guardai il cellulare, e lo vidi spento. Forse mi avevan cercato lì, prima. Risposi al terzo squillo, e già alzando la cornetta seppi che veniva da casa. Non servirono tante parole. Ero abbastanza sveglio da afferrare subito tutto.

– Vengo.

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