EXTRA: Alternative Universe - Elaine finisce ne "L'ultimo dei Draghi"

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Quello che trovate in questo capitolo è il racconto vincitore del MonthShot di Settembre del profilo WP_Advisor. La traccia del concorso era: ti ritrovi nella tua opera Wattpad. 

Non potevo perdere l'occasione di visitare Ponente&Levante e incontrare i miei personaggi, non pensate?

***

╰☆╮ UNA GIORNATA DI ERRORI FATALI ╰☆╮ 

Continuo a far roteare nervosamente il puntatore laser tra le unghie smaltate. Non mi aspettavo una sala riunioni tanto grande. Dannazione! Neanche fossi una novellina! Rivolgo un sorriso di circostanza ai colleghi seduti attorno all'anonimo tavolo di compensato bianco, facendo una rapida verifica di quanti stiano effettivamente seguendo la mia presentazione e quanti invece armeggino poco educatamente con lo smartphone. Ultimamente mi ritrovo sempre più spesso a dovermi contendere l'attenzione di chi ho di fronte con questi aggeggi infernali. Lo ammetto: anche io sono succube di questa ossessione dell'essere sempre online, soprattutto da quando ho cominciato a pubblicare su Wattpad, però quando è troppo, è troppo.

«Non mi aspettavo una sala riunioni tanto grande, mi dispiace se quelli più lontani non riescono a leggere i dettagli della tabella nella slide» decido di ripetere a voce alta quello che mi sta assillando da quando mi sono accorta di aver usato un font troppo piccolo, che errore da principiante!

Comincio a illustrare a voce alta il contenuto della tabella incriminata, sapendo che dovrò tagliare da qualche altra parte per rispettare i tempi: venti miseri minuti per presentare la proposta commerciale su cui ho lavorato per sei interminabili mesi.

Vado avanti a parlare, ostentando sicurezza mentre evidenzio le conclusioni principali, finché non mi accorgo che da troppo tempo c'è un silenzio innaturale. Non mi riferisco al fatto che nessuno faccia domande, ma al sottofondo muto: non sento più né il ronzio del proiettore né il vocìo proveniente dalla sala riunione attigua. Che strano.

Mi volto e mi ritrovo davanti a una scena che non dovrebbe più stupirmi e che invece mi coglie impreparata: come ho potuto non accorgermene prima? È un disastro, ora sono davvero nei guai...

Non mi soffermo neanche a osservare le pose ridicole in cui si sono bloccati i miei colleghi, ma mi fiondo sulla borsa del computer e tra biglietti da visita, stampe di fogli Excel e brochure piene di orecchiette trovo finalmente quello che sto cercando: si tratta di un taccuino consunto, la copertina è lavorata come se fosse un libro d'altri tempi e le pagine scritte creano un volume che ho cercato di schiacciare alla meglio con due giri di filo di spago.

Il portale apparirà a momenti e non posso partire senza il mio quaderno d'appunti. So già che verrò bombardata da talmente tanti stimoli che dovrò segnare all'istante quel che vedrò; è già abbastanza difficile vivere due vite, per mantenere un briciolo di lucidità non ho altra scelta se non affidarmi a quei rassicuranti fogli bianchi che mi aiutano a svuotare la mente.

Purtroppo non ci sono regole fisse: non so dove comparirà il portale, non so neppure quanto tempo mi verrà concesso stavolta per scorrazzare liberamente nell'universo che ho creato ne L'ultimo dei Draghi; ma, considerando l'importanza di questo meeting per la mia carriera lavorativa, spero di non assentarmi troppo a lungo, o sarà davvero difficile riprendere le fila di cosa stavo facendo prima che il tempo si fermasse.

Sono assorta in questi ragionamenti quando il muro di fronte inizia a ondulare come una vela sbattuta dal vento, fino a strapparsi violentemente proprio dove poco prima era proiettata la mia slide. Vengo istantaneamente raggiunta da un aroma di alberi in fiore e subito dopo un raggio di luce calda filtra attraverso la fessura e illumina la punta delle mie scarpe eleganti; oggi, infatti, sono vestita in modo più formale del solito per il meeting, decisamente non l'abbigliamento ideale per esplorare chissà quale zona di Ponente o, peggio ancora, di Levante! Come ho detto poco fa non c'è alcuna regola fissa a cui aggrapparmi, nessuno schema che si ripeta sempre uguale: anche questa volta mi ritroverò a curiosare in un capitolo a caso della mia saga, in uno di questi viaggi tra realtà e finzione che apparentemente non seguono alcun filo logico. Talvolta ho la fortuna di assistere a una delle mie parti preferite del romanzo, talvolta mi ritrovo invece in una scena che non ho ancora scritto, ma che ho solo abbozzato a grandi linee nel taccuino.

So che non ho scelta. Certo, potrei sedermi su una delle scomode sedie della sala riunioni e aspettare che il portale si richiuda, magari dilettandomi a scattare foto imbarazzanti dei miei colleghi per i quali il tempo si è a loro insaputa congelato; però so che potrebbe non ricapitarmi mai più di sbirciare proprio in quel momento del mio racconto, e ciò che sto vedendo attraverso lo strappo – cioè un pendio collinare che profuma d'estate – mi attira troppo.

Un attimo prima sono nel mio ufficio, il badge mi penzola dal collo e la preoccupazione di fare bella figura davanti al team mi attanaglia, l'attimo dopo i tacchi affondano in un prato brillante e mi ritrovo a ruotare su me stessa su di giri: muoio dalla voglia di capire dove sono esattamente e soprattutto quando... Chissà quale, tra tutte le peripezie che ho in serbo per loro, stanno affrontando i miei protagonisti proprio adesso!

Niente, non riesco a riconoscere il panorama; purtroppo il mio pessimo senso dell'orientamento non migliora neanche quando sono tra le mie pagine. Ragiona, Elaine, ragiona... Cosa farebbe Agata al tuo posto? È buffo che per risolvere un problema provi a immedesimarmi nella mia protagonista? L'ho resa talmente tanto razionale, e intelligente, che è capace di uscire a testa alta da praticamente qualsiasi situazione: Agata scomporrebbe il problema in problemi più semplici, ecco cosa farebbe.

Decido quindi di concentrarmi sugli indizi che ho a disposizione... Montagne, quelle sono chiaramente delle montagne innevate e nel mio mondo fortunatamente esiste un solo massiccio montuoso: la catena che divide i due continenti. Non può essere la vista dei monti di Levante, altrimenti mi troverei nel Deserto Roccioso, quindi mi trovo per forza a Ponente. Lascio andare un sospiro di sollievo; nonostante io abbia una predilezione per Levante vi confesso che un conto è descriverne il carattere folle, un altro è ritrovarmi per le sue strade percorse da banditi della peggior specie e da drappelli di militari corrotti. A Ponente, invece, mi sento al sicuro perché so che perlomeno arriverò alla fine della mia esplorazione senza rischiare la vita.

Vedo in lontananza un carretto e a passo svelto raggiungo il sentiero, decido di cercare un centro abitato dal momento che dei miei protagonisti, almeno per ora, non c'è neanche l'ombra. Dopo un tempo forse breve, ma che a me pare interminabile per colpa delle scomodissime scarpe che indosso, mi ritrovo faccia a faccia con una delle viste più mozzafiato che ho descritto ne L'ultimo dei Draghi e... e mi commuovo. Sì, mi commuovo sul serio, va bene? I miei lettori non ci crederanno, vista la mia reputazione di autrice crudele, ma vi assicuro che sono un animo molto sensibile.

Insomma, sono costretta a sedermi un attimo per piangere in santa pace; mi sfilo le décolleté e allungo i piedi nell'erba umida mentre lo sguardo divora insaziabile ogni dettaglio dello spettacolo meraviglioso che ho di fronte.

Le basse nuvole che tagliano il cielo a metà sembrano modellate con delle formine per biscotti, tanto sono netti e tondeggianti i contorni. Sono di un colore neutro che assorbe istantaneamente la luce che riflette e, ora che sta iniziando l'atto del tramonto, si tinteggiano gradualmente di un rosso cremisi. Eppure, per una volta, non è il sole l'indiscusso protagonista del palcoscenico e trattengo il fiato nell'attesa che compaia l'intero cast... Ed ecco che un raggio buca il vapore sospeso e proprio come un occhio di bue casuale illumina, solo per un attimo, due torrette di legno simili a sentinelle appisolate ai margini della valle. Proprio nello stesso istante un cestello delle dimensioni di una city car cala ondeggiando dalle nuvole, seguito da un'altra cesta e poi da un'altra ancora. Sono tre vistose mongolfiere che viaggiano in flottiglia a bassa quota; riesco a intravedere le spesse corde che le legano insieme, dalle quali pendono fazzoletti di colori diversi, bandiere segnaletiche che aiutano a mantenere la distanza di sicurezza in volo.

Scendono per mano come ballerine di una coreografia improvvisata e i loro spostamenti sono una danza corale dove ogni velivolo ha il puntiglio di un solista: si strattonano a vicenda, si sbilanciano per un attimo per poi sorreggersi subito dopo di fronte a una folata di vento; piroettano al di sotto di quel tetto di nuvole rosse, vestite dei loro palloni multicolori, disinteressate ai tormenti dei passeggeri, i cui volti spauriti sono rivolti all'approdo. La meta è vicina e quello che dalla mia poltrona d'erba e campanule è uno spettacolo superbo, per quei viandanti è probabilmente la fine di un film dell'orrore.

Il sole sta cominciando a distendersi dietro le colline e spruzza i suoi colori caldi sulla valle: alle spalle delle torrette si staglia, sterminato, il Porto delle Mongolfiere, tappa obbligata di chi parte e di chi arriva di nascosto. Questo è l'unico luogo a Ponente dove le regole diventano flessibili e il caos tipico del vicino continente serpeggia tra le comitive di viaggiatori, tra i velivoli irregolari e nel bazar dove è possibile vendere praticamente qualsiasi cosa in cambio di un biglietto.

Le mie spedizioni tra realtà e finzione sono iniziate dopo aver pubblicato su Wattpad il prologo de L'ultimo dei Draghi. Ho cercato di capire in tutti i modi cosa ci sia dietro e soprattutto il perché di questi inspiegabili viaggi. Perché proprio io? Perché proprio questa storia? Ma dopo un po', visto che neanche Google riusciva a trovare le risposte e visto che evidentemente non sono pronta ad ammettere di aver bisogno di uno strizzacervelli, ho deciso di smetterla di farmi domande e di vivere questa situazione surreale per quello che è: una grande fortuna. Quanti autori desiderano ammirare con i propri occhi le ambientazioni che hanno creato? E non una versione imprecisa come può essere un film - lo sanno tutti che i film non reggono il confronto con i libri!- ma l'originale.

Presto sarà buio e preferirei non usare la torcia del cellulare, d'altronde non esiste questo tipo di tecnologia nel mio universo - vi ho già detto che odio gli smartphone, no? - e se avessi la sfortuna di incrociare uno membro della Fondazione Scientifica Intercontinentale non saprei come giustificarmi.

Mi sento così piccola mentre faccio l'ingresso nel Porto e involontariamente comincio a guardarmi intorno alla ricerca dei miei protagonisti; ho infatti una sola regola durante queste visite, me la sono imposta io stessa fin da subito: sento di doverli evitare, non voglio interferire con la storia poiché temo che qualcosa di terribile potrebbe accadere se diventassi anche io un personaggio. Dopo aver scandagliato ossessivamente ogni metro quadrato di quel luogo delirante, finalmente li scorgo e mi lascio rasserenare da una sensazione familiare di calore nel petto, credo che sia quanto di più vicino esista al sentimento di una mamma che per un attimo ha temuto di aver perso i propri bambini.

Agata stringe agitata il borsone da viaggio e ha gli occhi fuori dalle orbite almeno quanto me: è la prima volta che si trova in una situazione tanto pericolosa e una parte di lei si sente quasi in colpa per essere andata contro tutto ciò che le è stato insegnato. Il Porto delle Mongolfiere non è di certo frequentato da persone rispettabili, qui infatti le regole cardine del continente dove è cresciuta si sbiadiscono: siamo al confine tra due mondi opposti, dove la malavita ha edificato indisturbata la propria porta d'accesso a Ponente.

Tseren, il mio protagonista, è estremamente vigile poiché il suo sesto senso lo mette in guardia nei confronti di chi potrebbe costituire un pericolo; lo vedo interferire con un paio di furti - anche se dovrebbe evitare di attirare l'attenzione, dovrebbe tenere lo sguardo basso e gli artigli riposti! - e non posso che andarne fiera.

Mi dirigo nella direzione opposta alla loro e continuo a osservare con curiosità le trattative sussurrate, gli incontri clandestini, i furti spietati. La mia condizione di autrice mi permette di capire sia il levantese che il ponentese, quindi sono in grado di comprendere esattamente cosa sta accadendo intorno a me. Peccato che, come dicevo all'inizio, io abbia un pessimo senso dell'orientamento. E peccato che quando sono concentrata su qualcosa non riesco più a prestare attenzione a tutto il resto.

Succede all'improvviso. Mi scontro con qualcuno e rimango di sasso nell'incrociare lo sguardo intelligente di Agata; la ragazza mi squadra con attenzione e storce la bocca perplessa. So esattamente cosa le passa per la testa, o meglio non lo so, lo immagino: si starà chiedendo che razza di abbigliamento sia il mio visto che non riesce ad associarlo a nessuna delle Zone di Ponente o di Levante.

È solo un attimo e mi ritrovo a scambiare uno sguardo anche con Tseren. Mi manca il respiro, e non solo perché sono terrorizzata di averli incrociati, ma perché è la prima volta che vedo da vicino gli occhi tanto speciali del mio protagonista, quelle iridi nelle quali ho nascosto il segreto della sua duplice natura e che raccontano di un'epoca in cui la terra apparteneva ad altre creature: le pupille galleggiano in un blu cobalto intenso, sporcato di sottili schegge d'ambra dorata, e sono illuminate di una luce soffusa la cui fonte è il fuoco che arde nel suo petto, un fuoco di cui lui sa ancora così poco...

Lo sguardo di Tseren, al contrario di quello attento di Agata, mi attraversa come se non esistessi. Probabilmente non mi ha catalogato come una minaccia ed è già passato a esaminare la persona dietro di me. Cambio strada rapidamente, il cuore che mi martella nel petto... Ora che Agata mi ha vista non posso permettere che accada di nuovo: se dovessimo incrociarci ancora lei mi riconoscerebbe sicuramente e comincerebbe a chiedersi chi sono e se per caso li sto seguendo. Ad Agata infatti non sfugge niente, o quasi.

Mi avvicino a uno dei falò e di sottecchi vedo i miei protagonisti fare lo stesso. Cercando di non farmi notare sbircio la scena successiva: entrambi, a loro volta, spiano discretamente le persone con cui sono seduti finché uno dei viandanti non cerca di intavolare una conversazione che presto si trasforma però in un monologo esaltato. Tseren a malapena ascolta il loro interlocutore, mentre Agata risponde educatamente pur sapendo che c'è qualcosa che non va in quel giovane vestito con abiti variopinti, i cui sorrisi meccanici non trasmettono alcuna sincerità.

Solo quando vedo Modèo - così si chiama quel ragazzo impiccione dai tratti levantini - lasciarli per avvicinarsi a passo spedito al mio falò, mi rendo conto di aver fatto l'ennesima stupidaggine della giornata. Tutto è cominciato con un errore di font in una presentazione Powerpoint e ora mi ritrovo in un'altra situazione spinosa! Dovete sapere che mentre le scene in cui compaiono Agata e Tseren seguono la storia esattamente come l'ho immaginata, le mie interazioni con i personaggi secondari, dal momento che non le ho considerate nella prima stesura, sono un'incognita: non ne ho il controllo, non ho la minima idea di cosa accadrà e soprattutto non posso che comportarmi come se fossi anche io una di loro.

«In viaggio da sola? Di quale Zona di Ponente sei?»

Ma di tante persone attorno al falò, proprio con me deve parlare, questa zecca di Modèo? Ha dato per scontato che io sia originaria del continente occidentale, visti i miei lineamenti, e non vedo il motivo di smentirlo.

«E tu?» replico senza rispondergli.

«Sì, credo che viaggiare da soli sia un'esperienza unica! Si ha l'occasione di conoscere così tante persone interessanti, instaurare amicizie che durano una vita...» Un approccio apparentemente innocuo il suo, ma che con me non funziona. So chi è questo ragazzo, so chi gli ha insegnato a condurre le conversazioni esattamente dove vuole, so chi gli ha strappato la dignità rendendolo una crisalide vuota, un mero pedone sulla scacchiera di menti sadiche... No, non sto parlando di me! Tecnicamente è vero che l'ho creato io, ma alludevo ad alcuni degli antagonisti che prima o poi Tseren e Agata si troveranno a fronteggiare.

Modèo continua a interrogarmi, fingendo abilmente di non aver un doppio fine.

«Sì, ho dei fratelli più piccoli» sbuffo. «Tu, invece? Dov'è la tua famiglia?»

«La famiglia sono le persone con cui ci si sente a casa». Un altro sorriso affabile ma terribilmente falso.

«Forse, ma c'è sempre una prima famiglia. Parlami di loro: dei tuoi genitori, dei tuoi nonni, dei tuoi...»

Lo vedo sbiancare. «Non capisco che gusto ci sia a ripercorrere i ricordi. Il passato è il passato e...»

«Pensi davvero che ci sia una separazione tanto netta tra passato, presente e futuro? Sinceramente sto rivedendo la mia concezione di tempo, magari dovresti provare a farlo anche tu». Continuo a ribattere con indifferenza a tutte le domande lasciandolo spaesato di fronte alla capacità di anticipare ogni sua mossa, ogni tentativo di convincermi che la vita che ha scelto per sé potrebbe essere giusta anche per me. Approfitto di un momento di silenzio per salutarlo frettolosamente, ma mi accorgo con fastidio che ha afferrato il suo valigione pronto a seguirmi. Santo cielo, si sarà accorto che c'è qualcosa che non va in me?

Nel tentativo di seminarlo mi infilo tra le bancarelle del bazar e mi ritrovo in un angolo poco illuminato del Porto. Non faccio in tempo a realizzare che questo potrebbe essere il più fatale degli errori che ho commesso oggi, che vengo accerchiata da quattro levantini. Indossano le tuniche tipiche del Deserto di Levante e più gioielli di tutti quelli che ho io nel portagioie; le loro barbe intrecciate con nastri e gemme sono particolarmente kitsch, ma sono le daghe penzolanti dai cinturoni consumati a impensierirmi.

«Non ho niente di valore!» esclamo con voce vacillante; si tratta di personaggi che non conosco, figure informi che fanno da contorno a questo capitolo, e ho solo una vaga idea di quello che potrebbero fare, nessuna certezza. E comunque sono stata sincera, non ho assolutamente niente di valore, le mie perle probabilmente sembrano loro dei sassi e lo smartphone... beh, dello smartphone non saprebbero cosa farsene da queste parti.

Cominciano a sghignazzare selvaggiamente e si chiudono a cerchio intorno a me. Non grido per timore che sia controproducente e così mi limito a portare una mano al cuore mentre stupidamente penso a Tseren: quattro delinquenti umani non potrebbero nulla contro la furia di Tseren. Però il mio protagonista non è qui, so bene che in questo momento si sta imbarcando con Agata su una mongolfiera malconcia. Questa considerazione mi annebbia la mente; succede raramente eppure stavolta sono proprio in preda al panico.

Li sento ridere. Dicono qualcosa di volgare e il più grosso si avvicina talmente tanto che vengo investita da una zaffata di odore nauseabondo: un misto di tabacco, alcol, incenso...

Ho paura. Non ho mai avuto così tanta paura in vita mia. Temo che questa volta non riuscirò a cavarmela e sento le prime lacrime inumidirmi le ciglia.

Nel vicolo da cui sono arrivata sbuca improvvisamente un'ombra: è la sagoma di un ragazzo con una valigia e nella manciata di secondi che serve ai miei assalitori per capire cosa sta succedendo, io ho riconosciuto quel disgraziato di Modèo. Approfitto del momento di distrazione dei quattro per lanciarmi a perdifiato verso il prato buio; nella corsa disperata mi libero dei tacchi e risalgo il pendio collinare senza sapere dove sono diretta. Sono quasi in apnea e sento le vene che ricoprono il cuore tendersi come elastici, mentre il sangue viene pompato freneticamente; martella in quei canali così fragili, scorre impetuoso come acqua in una tubatura troppo stretta.

D'improvviso la terra sotto i miei piedi prende a tremare, ma non sono le scosse di un terremoto; la sensazione è più quella di un tappeto elastico che vibra facendosi sempre più scivoloso, finché non si rompe e io cado in piedi in uno di quei misteriosi portali che possono ricondurmi a casa.

Mi sento soffocare. Ho ancora il fiatone mentre mi sorreggo appoggiando entrambe le mani tremanti sul tavolo di compensato bianco; non ho il coraggio di incrociare lo sguardo sgomento dei miei colleghi e così tengo gli occhi bassi. Il confine tra realtà e finzione si sta facendo pericolosamente sottile. Mi sento davvero soffocare. In questo momento a malapena so dove sono e non vedo altro che due piedi nudi sporchi di terra. Le mie scarpe giacciono abbandonate in un prato che non rivedrò mai più e le risate sguaiate di quattro malviventi levantini mi hanno seguito fin qui, fino a questa sala riunione che oggi non potrebbe essere più piccola.

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