Prologo - Ponente, oggi

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«Non credo di poter resistere ancora a lungo al gelo. Sono già cinque anni, uno più freddo dell'altro» sospirò Agata sistemandosi l'acconciatura per la seconda volta nel giro di mezz'ora. Come al solito indossava tre strati di vestiti e l'immancabile sciarpa di pelliccia arrotolata intorno al collo, abitudine eccentrica che non abbandonava neanche nella stagione temperata.

«Sono già cinque anni che vivi qui?» chiese la sua stagista mentre si ritoccava con precisione il trucco.

«Sì, cinque anni il mese scorso» rispose Agata, anche se non era a quello che si riferiva.

«Ogni tanto non ti viene voglia di tornare a Levante? Lì fa sempre caldo, no?» domandò ancora la tirocinante.

«No, non vedo alcuna possibilità» replicò seccata l'altra, nonostante la risposta più accurata sarebbe stata un'altra.

«Hai dei capelli bellissimi, ma ingestibili...» commentò instancabile la ragazzina «Non è più facile legarli e basta?»

Agata sospirò; al colloquio non si era accorta che fosse così ciarliera, altrimenti avrebbe scelto senza ombra di dubbio l'altro candidato.

«Due giorni fa ti ho mandato un documento da leggere, un riassunto delle usanze dei popoli di Levante. Nel paragrafo sull'abbigliamento consigliava espressamente di evitare i capelli raccolti, dal momento che la coda è considerata un'acconciatura poco adatta a un incontro formale. Hai studiato i profili dei clienti che stiamo per incontrare?» Agata sapeva essere severa al punto giusto, se necessario; d'altra parte non era da tutti diventare team leader a soli venticinque anni.

La stagista arrossì fino alla radice dei capelli, lisci come seta, decisamente più gestibili della criniera di ricci della sua responsabile. Senza alzare lo sguardo, ripose poi i trucchi nella borsetta di madreperla e uscì in fretta dal bagno del ristorante, rientrando nella sala allestita per la cena di lavoro.

Agata fece un altro giro per verificare che tutto fosse pronto; con tono autoritario chiese di rimuovere un centrotavola di fiori gialli, piante che ricordavano le decorazioni che a Levante era consuetudine porre sulle tombe, e ne spiegò la ragione alla stagista, che nel frattempo aveva recuperato il colorito e la parlantina abituali.

Un po' alla volta iniziarono ad arrivare i clienti, accompagnati da qualche collega della sede locale. C'erano solo due persone in più del previsto; non era dunque andata così male considerato che, quando si organizzavano incontri con levantini, ognuno si sentiva libero di allargare l'invito a chi reputasse più opportuno.

La cena proseguì fortunatamente senza intoppi: un inizio più che accettabile, in vista delle aspre negoziazioni che nei giorni successivi avrebbero decretato il futuro della piccola compagnia di importazioni per cui Agata lavorava.

Nonostante approfittasse di ogni opportunità per parlare il levantese, Agata non aveva molte occasioni per esercitarsi con dei madrelingua. Amava sentire le parole rotolarle sulla lingua, le vibrazioni, le lettere dure, l'altalenarsi dei suoni tonali.

«Ha un accento della Zona Montuosa, è molto raro sentirlo parlare a uno straniero» commentò a un certo punto il commensale di fronte. «È la Zona del nostro continente con meno abitanti».

«Lo so bene» sorrise forzatamente Agata. «Ho vissuto lì per un anno» precisò.

«Ah, dove esattamente?» chiese l'altro.

«Nel capoluogo» mentì la donna.

Dal momento che finirono di mangiare molto tardi, Agata decise di mandare la stagista e il resto del suo team a casa, e accompagnò lei stessa la delegazione in un tour notturno del centro storico. La cittadina faceva la sua bella figura di notte, con le sue casette dai tetti spioventi, gli imponenti campanili, e il castelletto illuminato in cima alla collina.

«È vero che non avete mai visto una guerra, qui?» chiese uno dei levantini che aveva bevuto un po' troppa birra frizzante aromatizzata.

«Nel continente di Ponente non ci sono mai state guerre» confermò Agata; anche se lei una guerra l'aveva vista eccome, e molto da vicino. Esclamazioni di stupore si alzarono da più parti.

Ogni tanto la ponentina si fermava per contare che fossero tutti, e puntualmente doveva aspettare i due clienti imbucati, che passeggiavano in coda tenendosi a una ventina di metri di distanza. A un certo punto la ragazza ebbe il sospetto che lo facessero di proposito, per non far sentire agli altri la loro conversazione.

Dopo poco più di un'ora raggiunsero finalmente l'albergo. La ragazza consegnò l'agenda del giorno dopo a ciascuno dei diciotto membri della delegazione e si inchinò altrettante volte per augurar loro la buona notte. Era quasi fuori dall'hotel quando si sentì chiamare. Un brivido le percorse la spina dorsale: erano cinque anni che non sentiva pronunciare il suo nome con quell'accento. Si voltò di scatto e si ritrovò di fronte i due levantini che si erano aggiunti all'ultimo momento alla visita.

Solo allora si rese conto che quella sera non aveva scambiato con loro neanche una parola, o meglio: aveva intimato loro più volte di non rimanere indietro, ma i due si erano limitati a piegare il capo per scusarsi. Era stata la stagista a riceverli al ristorante e a raccogliere i loro nomi, e la ragazzina non aveva abbastanza esperienza per riconoscere l'accento o eventuali nomi tipici delle montagne di Levante. Cosa ci facevano due abitanti della Zona Montuosa con una delegazione proveniente dalla Zona Marittima? I levantini delle montagne non viaggiavano, era risaputo.

Agata spalancò i grandi occhi neri. C'era una miriade di particolari da cui avrebbe dovuto cogliere la provenienza dei due, come le erano potuti sfuggire tutti? L'uomo più alto aveva una barba troppo incolta per la moda della regione costiera e i gioielli che indossava erano di tre colori ricorrenti: blu, rosso e oro; colori che nelle località montuose erano ovunque. L'altro era avvolto in una giacca di pelle di camoscio e aveva la fronte più chiara nel punto solitamente riparato dal copricapo tradizionale. Per non parlare del modo di alzare le spalle in continuazione mentre parlava e della gestualità ampia, tipica dei levantini di montagna.

«Veniamo a nome della Fondazione Scientifica Internazionale» tossì quello che pareva essere il capo. «C'è stato un problema con il soggetto di ricerca. Non riusciamo più a controllarlo... È diventato troppo forte».

«E troppo feroce» precisò l'altro.

Entrambi sembravano agitati e spiavano con attenzione la reazione della ragazza. Agata sentiva il cuore batterle all'impazzata, così forte da coprire le voci dei due. Un misto di rabbia e disperazione stava salendo dentro di lei.

«C'è stato un incidente» riprese il primo dopo la lunga pausa di silenzio. «Durante l'ultima notte di Luna nuova è... è riuscito a uscire dalla zona di contenimento... E...».

Agata capì subito cosa fosse successo e le emozioni che aveva trattenuto fino a quel momento divennero incontenibili.

«Ha ucciso delle persone?!» Non si rese neanche conto che stava gridando.

«Ha attaccato un villaggio nella zona...» riprese l'altro con una voce sempre più sottile.

«Ha ucciso delle persone?!» urlò ancora la ragazza.

«Purtroppo circa metà degli abitanti del villaggio non è sopravvissuta» sussurrò uno dei due.

Agata non si era mai sentita così in vita sua: improvvisamente il buco che si era aperto nel suo cuore cinque anni prima si fece così grande da lacerare ogni angolo del suo corpo. Le gambe le cedettero, le orecchie iniziarono a ronzare e i polmoni rimasero in apnea per un istante infinito. Tutto prese a vorticare intorno a lei.

Lui aveva sterminato decine di persone. La sua paura più grande si era avverata. E lei non era al suo fianco. Non aveva mantenuto la promessa.

«Che villaggio?» chiese terrorizzata dalla possibile risposta. Se almeno non fosse stato quel villaggio, ma qualsiasi altro, magari un giorno molto lontano avrebbe potuto perdonare se stesso.

«Il villaggio ai piedi del monte Ariun». L'uomo più basso si avvicinò, forse per aiutarla a rialzarsi.

E invece era proprio quel villaggio. Il villaggio nei pressi del quale era cresciuto. Il villaggio che da bambino visitava una volta al mese con sua madre. Il villaggio dove l'aveva portata la sua prima sera a Levante.

«Questo sangue è sulle vostre mani!» urlò Agata incrociando le braccia sul petto e stringendo i pugni così forte che le unghie le penetrarono la carne. «Se non ci aveste diviso, non sarebbe mai successo!»

E poi le lacrime iniziarono a scendere inarrestabili, tutte le lacrime che aveva trattenuto negli ultimi anni. Inginocchiata nella hall dell'albergo, il contenuto della borsa rovesciato a terra, gli occhi dei due levantini e di tutte le altre persone nella sala puntati addosso, Agata pianse e pianse.

Qualcuno provò ad accostarsi per capire cosa le fosse accaduto, ma la ragazza non vedeva né sentiva nulla. A cinque anni e migliaia di chilometri di distanza i suoi sentimenti non erano cambiati e i ricordi erano più vividi che mai.

Senza prendere fiato Agata pianse e pianse per ore.

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