Prologo

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L'Ultimo Giorno dell'Umanità

«Il paradiso fu sul letto
L'eternità in un secondo
E così finì la storia da poco
Di una fine del mondo.»

Alessandro Mannarino - L'ultimo Giorno dell'Umanità


Prologo

È il terzo sole che trova il coraggio di sorge su Hawkins, dal loro ritorno dal sottosopra. È l'alba del terzo giorno da quando i portali hanno spaccato in quattro la città, portando con loro, in superficie, gli stessi odori tossici di quel mondo capovolto, insieme alle stesse macabre tinture di cui è dipinto: il rosso e il blu. È il terzo mattino in cui si sveglia il cielo, coperto da nuvoloni neri e lampi color sangue, fuso con un cielo azzurro che appena si scorge dietro le tenebre, da quando il loro viaggio si è concluso – almeno per ora. 

Particelle bianche volano in aria come neve, ma hanno la stessa consistenza di un atomo pronto ad esplodere, con la stessa potenza di una bomba atomica.

È il terzo giorno dall'inizio dell'inferno, del caos, dell'incubo... ed è il terzo giorno da quando Eddie Munson è morto.

Dustin guarda il soffitto della sua camera, steso sul letto con un braccio sotto la testa e l'altro appoggiato sulla pancia, coperta dal velo di lenzuolo. Fissa le macchie  arabesche che si sono create col tempo e l'umidità, e cerca di riconoscere delle forme – lo fa per distrarsi, per non pensare troppo, perché non riesce a spegnere il cervello da tre giorni, e ha indubbiamente un bisogno fisiologico di dormire, ma non ha chiuso occhio da quel dì – e non riesce più a capirsi, ad essere razionale, logico e allo stesso tempo lo è fin troppo, e vorrebbe tanto che la sua mente la smettesse di essere tanto crudele da ricordargli ogni dettaglio di quei momenti terribili, strazianti, ma il cervello è una macchina che, quando prende il potere assoluto, è capace di fare davvero male. È ancorato a quel ricordo che gli si è impresso nella testa come se lo avessero marchiato con un timbro a fuoco, brutalmente, senza lasciargli un secondo di pace da quando è successo. Non ricorda di aver smesso un solo istante di pensare a ciò che è stato.

Non riesce a togliersi dalla testa quell'immagine e il sangue sui vestiti  che, appena tornato a casa, ha gettato nella spazzatura, piangendo per la rabbia.

«Stavolta non sono scappato, vero?»

Stringe le palpebre. Si posa l'avambraccio sugli occhi e gli esce un sospiro che pesa una tonnellata.

«È il mio anno, Henderson.»

Spegne i dotti lacrimali, e trattiene un singhiozzo. Non vuole piangere. Basta piangere. Non serve più a niente.

A niente di niente.

«Finalmente è il mio anno.»

Si gira su un lato, incontra il muro e lo fissa. Stringe gli occhi. Quel ricordo non se ne va, non ne ha alcuna intenzione e forse, dentro di sé, Dustin non vuole davvero che accada. Ha quasi paura di dimenticare, e non vuole farlo, ma fa talmente male che non c'è alcun sollievo nel continuare a pensarci e a struggersi, e a infliggersi quel dolore come se lo meritasse. Come se fosse stata colpa sua. Come se l'avesse ucciso lui, Eddie...

«Ti voglio bene.»

«Ti voglio bene anche io.» Mima con le labbra, e rivive quel ricordo, ancora e ancora e ancora; si stringe le ginocchia al petto e tutto ciò a cui riesce a pensare, da tre giorni a questa parte, è che Eddie è ancora lì, sdraiato sul suo letto, nel suo caravan,  nel sottosopra, dove Steve lo ha appoggiato, di sua iniziativa. Senza dire una parola. Dustin era ancora lì, lo hanno trovato con Eddie tra le braccia. Il silenzio che si è raccolto intorno a Steve, quando se lo è caricato sulle spalle per portarlo dentro al caravan, sdraiarlo sul materasso – poi gli ha posato la chitarra tra le mani, ed è stato ancora più doloroso e questo, infine, non ha fatto altro che rompere altro, nel cuore di Dustin.

Sa che, insieme a Eddie, se n'è andata anche una parte di lui, una parte importante; forse un pezzo della sua gioventù e parte della sua adultitudine in potenza. E ci sono così tante cose che non riesce a capire, di quei giorni appena trascorsi... e ha la sensazione di essere l'unica persona al mondo, insieme al signor Munson, che sta vivendo il puro e drammatico dolore della perdita. Come se tutti gli altri, Eddie, lo avessero già dimenticato, in qualche modo, nel mosaico scomposto di quella nuova realtà con cui stanno facendo i conti e che ha distrutto ogni certezza.

Forse  è normale che sia andata così. Forse è lui che non è più in grado di controllare le emozioni.

Eppure... eppure, sebbene la razionalità sia l'unica cosa a cui il suo cervello si è attaccato, c'è un barlume di pazzia che, da tre giorni, gli dice che non è vero niente. Che Eddie non è morto, ma ha solo smesso di respirare per un motivo che non riesce a trovare nella sua logica sempre schiacciante. Un'idea che serpeggia, scava nel cuore, vibra dietro la schiena, nella carotide, sotto la carne, e non la smette di solleticargli la ragione, e quasi ammutolirla per rifugiarsi in quella possibilità. Gli fa rabbia non riuscire a trovare una soluzione, in questo caso alla morte, ed è il motivo per il quale si è aggrappato così tanto a quel pensiero, che gli ha fatto dimenticare per un attimo quanto nei guai si trovino. Che gli ha fatto dimenticare che, se si affaccia dalla finestra di casa, vede del fumo nero coprire Hawkins e dei lampi rossi annunciare i passi brutali della morte che cammina lentamente verso di loro con passi decisi e roboanti. Come rintocchi di un orologio che scandisce le ultime ore dell'umanità.

Eddie è vivo.

Se lo ripete nella testa, ed è l'unico pensiero che lo fa smettere di piangere, ogni volta che risale da sotto al cuore.

Eddie è vivo. Lo so. Lo sento.

No, non senti niente, brutto idiota. Sei solo un ragazzino che non vuole fare i conti con una realtà troppo difficile da digerire.

Io lo sento. So che è così. C'è una possibilità su cento milioni che sia così, ma c'è. Non è impossibile.

«Lo è. È impossibile, Dustin.» Sente la voce di Steve che glielo dice, ma lui non è lì. Lo sta solo immaginando, perché è esattamente la risposta che gli darebbe e forse l'unica di cui avrebbe bisogno per rinsavire e non cedere a quel richiamo folle, che quasi sembra nemmeno appartenergli. È solo una stupida speranza senza fondamenta.

È improbabile. Non impossibile. Niente è impossibile!

L'irrazionalità lo sovrasta, ed è lontanissimo dal suo modo di vedere il mondo, ma è più forte di lui, ora come ora. Non può razionalizzare. Il suo cervello non vuole farlo, non più. Forse è solo un meccanismo di difesa, e Dustin sa che quando impatterà con la realtà, il dolore sarà ancora più forte e insopportabile.

E l'idea più stupida che gli sia mai venuta in mente, gli frulla per la testa da quando ha aperto gli occhi. Non sa se contattare Steve e confrontarsi con lui; però lo sa già, non capirebbe e fermerebbe sul nascere le sue intenzioni – senza contare che lo sta evitando come la peste da quando sono tornati e forse Dustin sa in parte il perché, e lo rispetta, ma non può dire di sentirsi capito a sua volta. Contattare Lucas... non gli sembra il caso, ora che Max è in quelle condizioni – si nasconde la bocca con una mano, al solo ricordo di cosa è diventata. 

Pensa a Nancy, a Hopper e a tanta di quella gente, ma sa che nessuno capirebbe.

Poi, però, il suono bianco del suo walkie talkie lo fa sobbalzare.

«Dustin, mi ricevi? Mi ricevi? Passo!»

Dustin raccatta  la radio da terra, dove l'ha lasciato la sera prima e, con un barlume di speranza nel cuore, si chiede come abbia fatto a non pensare all'unica persona in grado di capirlo; l'unica persona che non lo giudicherebbe mai e poi mai.

Sorride, spinge il tasto per parlare, e si alza a sedere a gambe incrociate sul letto, e quella speranza dentro che ora preme più forte di prima e quasi gli toglie il respiro. 

«Sono Dustin, ti ricevo forte e chiaro, Will!»  

Continua...

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