La Closerie des Lilas

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Il tiepido venticello di primavera odorava di fiori, brioche e profumi costosi da donna, e Parigi, racchiusa in quel piccolo scorcio di città in cui mi trovavo, diventava come parte di un bellissimo dipinto partorito dalla tavolozza di un artista di strada.

Agguantai per l'ennesima volta il sottile tovagliolino di carta che la lieve brezza tentava dispettosamente di soffiarmi via.

Sorseggiai poi con lentezza il mio infuso, accompagnato da un fragrante croissant che arricchiva il variegato effluvio avvolgente di cui era già permea l'aria di quella frizzante mattina.

Era ormai divenuto un consueto rituale per me sostare all'esterno della nota Closerie des Lilas, una tranquilla e accogliente caffetteria situata proprio a Montaparnasse, uno dei miei quartieri preferiti in assoluto.

Vi notavo ogni volta qualcosa di incredibilmente magico in quel luogo, oltre che di così terribilmente romantico.

Nulla di Parigi pareva cambiato da quell'ultima volta. Persino il cielo rammentava lo stesso azzurro terso, a cui faceva da contrasto il verde cangiante delle chiome degli alberi e dell'incredibile quantità di fiori e piante che abbelliva la capitale.

Ecco, di fiori nessuno sembrava non averne mai abbastanza, e neppure io. Le fioriere colme di petali, che sfumavano dall'indaco più intenso a un violetto più delicato, mi circondavano creando un piacevole effetto e dando così l'illusione di trovarmi in un grazioso berceau immerso in un giardino ottocentesco.

Chissà se ne avresti goduto anche tu alla mia stessa maniera, o forse avresti prediletto altre parole per descrivere una così bella atmosfera primaverile.

Senza ombra di dubbio, avresti accantonato l'idea di "Parigi, città dell'amore", affermando invece che ogni luogo del pianeta poteva essere romantico, e che l'unica differenza la faceva la persona che ti stava accanto.

Eppure in quel momento, ovunque io guardassi, non potevo che darti torto e pensare a quella caffetteria come il posto più romantico del mondo; uno di quei luoghi di passaggio segnati dagli sguardi, dagli incontri occasionali, dalle strette di mano nascoste sotto i tavolini, dai baci rubati in tutta fretta per via dei minuti contati.

Bruscamente, mi sporsi ancora, e con un certo fastidio, dalla sedia un po' traballante, ma il tovagliolino che avevo cercato di non farmi sfuggire di mano si era già librato in aria finendo poco dopo dritto in una fioriera.

«Per quanto mi piaccia questo posto, non è per niente consigliabile portarsi dietro il lavoro!».

Mi voltai curiosa verso l'indirizzo di quella voce, per scoprire poi un medesimo cliente che occupava il tavolino alle mie spalle. L'uomo tentava goffamente di tenere fermi con entrambe le mani i diversi fogli che aveva sparso per tutto il piccolo ripiano rotondo, nonostante alcuni di quelli fossero già stati messi in salvo da dei fermacarte improvvisati, quali una tazza di caffè, un piattino di biscotti mangiucchiati e una zuccheriera.

Notai anche un taccuino, affiancato al computer che il giovane teneva aperto davanti a sé; il tavolino da colazione pareva essersi trasformato in una vera e propria scrivania da lavoro, troppo ingombra e disordinata per figurare in un ambiente raffinato come La Closerie des Lilas.

«Oh, no!».

In fretta mi fiondai in aiuto del disperato, a cui il vento stava per mandare letteralmente all'aria tutto il lavoro, e vi acciuffai un paio di fogli volanti.

Non badai ai tanti scarabocchi che per lo più decoravano le pagine, ma mi accorsi ben presto in cosa consistesse il lavoro dell'uomo.

Una lieve stretta al petto mi colse quando lo schermo del portatile mostrò la testata di un blog con tanto di foto allegata e che ritraeva, sorridente, il bel giovane a cui avevo appena offerto il mio aiuto.

«Oh, è solo un blog che ho aperto qualche tempo fa per farmi un po' di pubblicità», ridacchiò stranamente imbarazzato quello. «Le interessa il giornalismo?», mi chiese poi.

Non ci pensai su molto. «È una forma alternativa di scrittura creativa... Io... adoro i racconti».

L'uomo parve come non capire, ma più che il mio pensiero, l'espressione che dovevo aver assunto alla vista del blog.

Quante ore ci avevo trascorso io stessa su quella sorta di diario virtuale, aiutandoti a rispondere a tutti i bei commenti che lettori appassionati ti dedicavano per lo straordinario successo del tuo ultimo libro.

Ti ci eri dedicato anima e corpo, privandoti persino del sonno. E io ero stata più che felice di stare sveglia assieme a te, fino all'alba, sia che fosse su una panchina del nostro parco preferito sia di fronte al bagliore aranciato del caminetto acceso durante le nottate più fredde.

Eri uno scrittore, proprio come quell'uomo che si portava dietro il suo lavoro anziché preferire una tranquilla colazione in una caffetteria parigina.

«E sentiamo, anche lei è una cantastorie?», domandò allegramente il giovane, chiaramente ignaro di quanto tutto quello mi avesse coinvolta nel profondo.

Lo guardai allungandogli un breve sorriso e acconsentii al suo muto invito di prendere posto sulla sedia vuota che gli stava di fronte.

Non so perché lo feci, del resto non era più che un estraneo. Mi aveva solo ricordato te, nonostante fossi anche conscia della diversità che vi contraddistingueva. Lui, giornalista un po' scarmigliato nei capelli così come lo era quella sua scrivania temporanea.

Lo pensavi anche tu, del resto: il ripiano di uno scrittore è il riflesso della propria essenza, e il tuo modo di lavorare mi era sempre parso così metodico e sicuro che nessuno avrebbe mai immaginato quali difficili trame e intrighi inventasse la tua mente capace. Eppure pareva non costarti fatica, senza la necessità di incombere in un ulteriore spreco di fogli.

Il giornalista scribacchiava in mezzo al caos da cui, tuttavia, pareva trarre un qualche ordine nascosto.

A te bastava solo un pezzo di carta e una matita, all'occasione una semplice agenda ritrovata da qualche parte in un cassetto. Ma ci scrivevi molto poco in quelle pagine, per lo più appunti sfuggenti. Il vero miracolo lo compivano le tue dita che battevano frenetiche sui tasti di una macchina da scrivere, una volta che le idee si dipanavano fluide e cristalline nel tuo mondo di fantasia. Adoravi quello strumento, e ne adoravo anch'io il costante picchiettare che riecheggiava tra le mura del salotto. M'infondeva un meraviglioso senso di pace e certezza, che ora pareva essere venuto irrimediabilmente a mancare.

«Preferisco la lettura alla scrittura, in realtà non ho mai neanche pensato di pormi in prima linea», ammisi. «Di cosa si occupa nei suoi articoli?», la buttai lì fingendomi realmente interessata.

«Per lo più di storia locale e posticini caratteristici che sarebbe meglio poter vedere almeno una volta nella vita. Al momento sto lavorando a un paragrafo che vede come protagonista proprio questa caffetteria, famosa per le frequentazioni di noti artisti, quali Cézanne, Baudelaire o le menti brillanti di Hemingway, Miller... Oh, è mai stata a Londra?», faccio segno di no imbarazzata, «Molto male! Ho messo giù un pezzo nello scorso mensile stilando una lista dei più bei musei londinesi. Le consiglio vivamente il National Portrait Gallery e il Museum of London, o, se preferisce qualcosa di decisamente più peculiare, Il museo di Sherlock Holmes! Anche se, a dirla tutta, credo per una signorina dedita ai racconti rosa, quale mi sembra di essere, io consiglierei...».

Lasciai che parlasse e ne avvertii tutto l'entusiasmo contagioso, e in questo ti era molto simile.

Mi parlavi continuamente delle tue storie, non avevo quasi mai bisogno di leggere un libro e perdermi tra le sue pagine, a quello ci pensavi tu col solo potere della tua voce calma. Non lasciavi che alcun pensiero riguardante i tuoi scritti rimanesse custodito solo in te; quella tua voglia di elargirmi fatti e nozioni contribuivano a rendere speciale la visione che avevo di me stessa ai tuoi occhi blu. Era un modo tutto tuo per dirmi quanto tenessi a me, che ogni tua priorità era per metà anche la mia. Mi rendevi in questo modo guardiana dell'intero tuo mondo, e io lì sempre un po' timorosa di non essere all'altezza di un onore così caro.

«Signorina, si sente bene?»

«Sì, sto bene», tranquillizzai l'uomo tornando a osservarne i lineamenti gentili ma adesso con un evidente accenno di preoccupazione. Me ne vergognai un po'.

«Sarebbe così cortese da portarci un bicchiere d'acqua ciascuno?».

Trasalii, improvvisamente conscia della presenza di un cameriere alle mie spalle.

«O forse sarebbe meglio anche un bel succo di frutta per la signorina?», insistette ancora con fare paterno il giornalista. Tuttavia, non era un incremento di zuccheri quello di cui necessitavo.

«Un bicchiere d'acqua andrà più che bene», ammiccai sorridente al cameriere e poi tornai a rivolgermi al mio principale interlocutore prima che ricominciasse a preoccuparsi per me.

«Un momento fa mi stava parlando di ciò che sarebbe per me più appropriato visitare. Ammetto che Londra rientra tra le mie future mete più ambite». Ed era vero. Ci saremmo dovuti andare un giorno, ma questo ero un progetto risalente a diverso tempo fa.

Il giovane cliente mi scrutò per un secondo intenso, poi iniziò a battere sulla tastiera. Dopo quella che sembrò una breve ricerca, voltò il pc per tre quarti cosicché io potessi vederne lo schermo.

«Daunt Books, una delle migliori librerie londinesi, un vero viaggetto nel passato, e in perfetto English style! Ricordo la prima volta che ci misi piede. L'odore della carta mischiata al legno di quercia di cui è fatto l'intero locale, scalinate imponenti e balconate da ambedue le facciate, e persino poltrone e tavolini dove sedersi e gustarsi un buon libro».

«Che meraviglia... Mi sembra di trovarmi lì tanto è capace con le parole».

L'uomo ridacchiò divertito e dovetti arrendermi pur io a un sorriso. Mi sentii improvvisamente leggera.

«Ho un'altra proposta, se mi consente». Di nuovo, digitò velocemente sui tasti. «Stavolta mi rivolgo a Parigi, con una bella selezione di bottegucce d'antiquariato!».

Di colpo, mi si fermò il respiro e la vista mi si annebbiò per i ricordi passati che presero il posto del presente.

Un antiquario parigino, un vecchio ma perfettamente funzionante orologio a cucù, tu che insistevi a ripetermi che quell'uccellino sarebbe diventato la rovina del tuo sonno... Quella tua incapacità a dirmi di no e la proposta dell'anziano commesso ad acquistare una gigantesca pendola.

Alla fine venimmo fuori dal negozio assieme a un graziosissimo orologio a cucù.

Volevi convincermi fosse stata una migliore alternativa alla pendola, decisamente più pratico da trasportare; io gongolante a farti credere di esserci cascata.

Quanto mi era sembrata bella Parigi in quel momento.

«Mi faccia indovinare... Lei è un'assidua frequentatrice di mercatini d'antiquariato! Perfettamente in linea col suo animo romantico. Lo considero un vero e proprio atto d'amore dare nuova vita a qualcosa di rotto o di semplicemente invecchiato dall'incuria del tempo. Un'accanita romantica!».

«Per molti risulterei démodé quanto un vecchio orologio a cucù contro una sveglia digitale». Lo dissi senza riuscire a controllarmi.

Il giovane mi rivolse una sottile occhiata ma niente che lasciasse trasparire una reazione. Si limitò a osservarmi, forse per mettermi sotto torchio e cercare di capire di più sul mio conto.

Poteva essere possibile che un completo sconosciuto avesse già centrato in pieno dei lati di me che preferivo tener nascosti?

Da qualche parte nella mia testa un tarlo insistente teneva viva la tenue fiammella della speranza, un'illusione alla quale non volevo piegarmi, ma che con quell'uomo risultava un'impresa davvero difficile.

Non volevo farti un torto quando pensavo di vedere proprio te nel gioviale giornalista.

Era un'idea fin troppo assurda e infantile, ingenua quanto il mio stesso apparirti. Ti piaceva rinfacciarmelo e mi prendevi in giro, nonostante lo facessi solo per testare fino a che punto la mia pazienza resistesse.

Provai tutt'a un tratto un forte senso di nausea, e mi diedi della stupida perché rimuginavo nel passato.

Dopotutto, eri stato tu ad avermi lasciata sola, un passo più avanti, il vuoto alle mie spalle.

Una cosa del genere non avrebbe avuto senso; il tuo abbandono era stato già abbastanza doloroso perché tu tornassi a farmi male sotto forma di uno scherzo come quello.

Nemmeno tu avevi mai creduto in quelle storie di reincarnazione.

Dovevo smetterla di suggestionarmi e la presenza di quel giovane non aiutava.

Finsi di controllare il mio orologio da polso e mi alzai piano sotto lo sguardo del cliente. «Quasi dimenticavo del mio prossimo appuntamento! Mi dispiace ma sono costretta a lasciarla», annunciai senza riuscire a confondere il mio tono agitato.

«Assolutamente, è stato un momento piacevole, mademoiselle. In effetti sto aspettando anch'io una persona. Oh, non dimentichi il suo libro». Indicò in direzione del mio precedente tavolino, là dove il tuo romanzo, che tenevo assieme a me in ogni momento, se n'era rimasto tutto il tempo incustodito. Abbandonato.

Mi fiondai subito a recuperarlo.

«Una storia d'amore, scommetto». Mi sorrise ammiccante il giornalista, poi tornò a fare i conti con una nuova folata di vento tiepido, stavolta riuscendo a cavarsela da solo.

«Direi che sono molto soddisfatto».

«Come, scusi?».

«Le caffetterie parigine servono anche a questo». Ancora non riuscivo a capire. «Un orologio a cucù, una donna con un libro e un mistero a riguardarla ma che per qualche ragione non mi è stato concesso scoprire. Si fanno incontri piacevoli in queste magiche caffetterie. Il mio articolo sarà un successo».

Sorrisi mio malgrado perché ancora il suo entusiasmo riusciva a essere anche il mio.

«Non mi resta che augurarle buona fortuna». Mi congedai così, lasciando quel posto di incontri occasionali proprio come lo era stato il mio, e mi diressi lungo il grande viale che odorava di primavera e boccioli appena nati.

***

Non so per quanto camminai per la rive gauche; Montparnasse mi aveva accolta nella sua vitalità, abbracciandomi con dolcezza, e io non potevo che sentirmi ben voluta quasi come lo conoscessi da sempre.

Il fiume maestoso scintillava alla luce dorata del caldo sole di mezzogiorno, e il riverbero accecante trasformava tutto in un'immensa pozza d'acqua diamantata.

Scelsi una delle panchine allineate sul lungosenna e mi ci sedetti.

Ammirai il bel panorama e ripensai a quell'uomo strambo che di strano, dopotutto, non aveva proprio nulla. Era stato gentile con me, premuroso e divertente, un intrattenitore che, se pure indirettamente, aveva solo avuto la colpa di assomigliarti un po'.

Avrei fatto bene a dimostrarmi più simpatica.

Chissà cosa stesse facendo a quell'ora. Potevo immaginarlo chino e scarmigliato sul suo portatile, magari su di una qualche panchina in un parco o, perché no, in piedi, appoggiato alla balaustra di un ponte ad attingere ispirazione da quello stesso spettacolo a cui pur io stavo assistendo.

Aprii il tuo libro e rilessi la dedica che ormai conoscevo a memoria, trovai la pagina contrassegnata dal segnalibro e ne rilessi le parole nella mente.

Richiusi il romanzo, pezzo di quel tuo piccolo mondo che proteggevo con le mie mani.

Un lampo di sole aranciato mi finì nelle iridi, ma ciò non mi impedii di riconoscere, dall'altra parte della sponda, un uomo che passeggiava con cipiglio vivace, su di un fianco una valigetta contenente il suo lavoro.

La ragazza, che lui teneva per mano, si fermò ad ammirare le acque placide, costringendolo così ad arrestarsi assieme a lei.

Un bacio appassionante scoccò poi tra i due, un istante fugace di battiti di cuori, di sfarfallii d'ali di gabbiani stramazzanti nel cielo.

Sorrisi e ripresi il mio cammino solitario.

Parigi è davvero la città dell'amore. Non dubitarne mai.

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