La Rete di July

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Sala da tè, Londra, 1910

Un paio di zampette sottili e pelose uscirono dall'occhio destro di mio marito, nell'angolo all'interno. Sembrava quasi volessero tastare il terreno prima di ritirarsi velocemente e lasciarmi il dubbio su ciò che avevo appena intravisto.

Rimasi a bocca aperta, imbambolata, tanto da perdermi le ultime parole di William all'interno di un discorso che già facevo fatica a seguire.

Lui mi fissò con espressione delusa. Scosse il capo e distolse lo sguardo, rigido e controllato, a parte quel leggero guizzo sulla fronte che solo io conoscevo. Mi sentii in colpa e cercai di tornare con l'attenzione sul mio scialbo tè. Avrei preferito una cioccolata calda, ma mio marito non aveva considerato cosa potesse piacere a me, dopo anni di matrimonio.

«Non vuoi anche tu sistemare le cose?» sussurrò senza neanche guardarmi. Sistemò il tovagliolo, con gesti affettati, sicuro di non attirare l'attenzione dei presenti che, invece, si abbeveravano, assetati, alle nostre faccende.

«Io non sono da aggiustare» mormorai a bassa voce con un'inusuale sfacciataggine che mi costò tanto. William si stizzì e, silenzioso, alzò la mano per richiamare un cameriere e chiedere il conto.

Incassai il capo sulle spalle e rimasi a osservare attenta la mia ordinazione poco invitante e ancora intatta.

Un paio di zampine, forse più numerose e più tozze e pelose, uscirono dalla tazza e si fissarono sul bordo dorato e sottile, prima di avventurarsi fuori. Saltai dalla sedia che cadde rumorosamente all'indietro, lanciando un gridolino impaurito e sorpreso.

«Ma che diavolo fai?»

Mio marito imprecò imbarazzato. La tazza riversò, sulla candida tovaglia del tavolino tondo, tutto il suo contenuto che sbordò gocciolando a terra.

«Scusami, William» mormorai con un filo di voce talmente sottile che si perse nelle chiacchiere dei presenti che continuarono a spiare, incuriositi e maligni. Avevo i loro occhi puntati addosso, le loro risatine mi arrivarono alle orecchie. Le imbalsamate signore dell'alta società londinese erano pronte a far esplodere i loro pettegolezzi in giro per la città, come uno sciame di insetti fastidiosi, rovinandomi ancora di più la reputazione.

«Non lo vedi?» chiesi incredula e impaurita. Gli occhi di mio marito si fissarono prima sul tavolo e poi su di me, compatendomi.

«E cosa dovrei vedere?» mi rispose preoccupato e sempre più turbato da una situazione che non sapeva più come gestire.

Indicai il piccolo aracnide con l'indice che tremava vistosamente. William sospirò e quando cercai il suo sguardo, sbiancai.

Dai suoi occhi uscirono piccoli ragni che, velocemente, aprirono le danze a tutti i loro simili. Di lì a poco, invasero la sala da tè.

Inciampai col tacco sulla lunga gonna, quando indietreggiai terrorizzata per sfuggire all'assalto, rischiando il mio precario equilibrio. Volevo allontanarmi da lui e da quell'invasione che lo coprì completamente, da capo a piedi, in pochi attimi.

Mi girai per scappare e trovai un panorama brulicante, sempre più fitto, mobile e disgustoso che prendeva possesso di tutto. Tremai vistosamente e urlai, mentre i ragni, a migliaia, si stavano dirigendo velocemente anche verso di me.

Dagli angoli della sala comparvero fitte ragnatele. Grandi e sottili fili di maglia che venivano intessuti talmente veloce da lasciarmi senza nessuna via di scampo, consapevole che presto la sala sarebbe stata isolata dall'esterno.

Mi raggiunsero senza che potessi fare nulla e, dall'orlo del mio abito, mi sommersero salendo lungo il tessuto dell'abito di finissima fattura. A nulla valsero i miei tentativi inconsulti di cacciarli via. La paura mi aveva annebbiato il cervello.

Lo sciame veloce e infinito mi buttò poi a terra, zittendo le mie grida ormai continue. Era troppo per me e svenni.

Quando mi risvegliai, un falso silenzio invadeva la sala da tè. Non mi ero mossa di un millimetro e la sala era completamente ricoperta alle pareti di fitte trame di ragnatela; come me, distesa sul pavimento e chiusa in un bozzolo che non mi consentiva di muovermi. A tratti facevo fatica anche a respirare, nonostante il naso e gli occhi mi fossero stati lasciati liberi.

C'era un rumorio stridulo e sottile di sottofondo, che mi entrava nel cervello. Mi rendeva ancora più sensibile all'incubo che stavo vivendo e che non era finito; forse solo appena iniziato. Sentii ticchettii agili che si stavano avvicinando. Mi lamentai sempre più forte, tentando di muovermi e una testa enorme si affacciò sopra di me, i pedipalpi che si muovevano veloci e pronti ad agguantarmi. Non mi lasciarono scampo: mi presero con forza e mi portarono alla bocca che si aprì pronta a risucchiare le mie interiora.

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«Non vuoi anche tu sistemare le cose?» William sussurrò a denti stretti senza neanche guardarmi, ma attento che i nostri discorsi rimanessero tra noi. Comunque, le chiacchiere si sarebbero sparse per Londra, un'abitudine consolidata nel nostro ambiente.

Mi stavo coprendo la faccia con le mani, torturata dall'interno come se qualcuno stesse risucchiando i miei organi, prosciugandomi. Ma la voce di mio marito mi riscosse e quasi timidamente aprii le dita e mi guardai in giro. Non c'era nessuna invasione di aracnidi, nessuna ragnatela pendeva dalle eleganti pareti. Eravamo circondati solo dalle donne che non si sarebbero lasciate sfuggire l'occasione ghiotta di raccontare degli Harris sull'orlo di una crisi matrimoniale perché July, la moglie di Sir William, aveva deciso di sposare la causa delle suffragette.

Abbassai le mani con calma, non capendo cosa mi fosse successo, e vidi mio marito con lo sguardo basso, impaziente di avere una risposta. Mi resi conto che dietro quella maschera c'era un uomo debole vittima delle sue stesse credenze.

Il terrore di ciò che avevo visto non mi abbandonava e seppi cosa fare. Sospirai e mi alzai dalla sedia, occhieggiando intorno a me. La mia paura era rimanere ancora incastrata in un mondo che non riconoscevo più e che non ci apparteneva più. La sua, che io me ne accorgessi.

Non dissi nulla. Rimasi a osservarlo per un lungo momento, mentre i pettegolezzi si facevano più intensi, come lo stridulio di uno sciame di aracnidi.

Lui non si degnò mai una volta di guardarmi.

E allora me ne andai.

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