(Maia) Tutto a puttane

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La mia buchetta delle lettere, nell'ultimo mese, aveva assunto le sembianze di quella di Babbo Natale: con la battle ormai alle porte le nostre fan più giovani si erano sbizzarrite nella composizione di collage, disegni e semplici dichiarazioni d'incoraggiamento cartacee, sempre apprezzate.

La casella mail era più otturata del cesso dei Gallagher in Shameless: grazie a Dio ne avevamo una apposita per i contatti professionali di cui i followers non erano a conoscenza.

Le interviste, anche sui canali della TV nazionale, si erano intensificate mentre le dirette sui social erano sostanzialmente fuori controllo nonostante l'aiuto dello staff di Falchi nel cercare di conservare nelle nostre agende il tempo di dormire e allenarci.

Con una punta di vergogna devo ammettere che senza l'aiuto di Ale la situazione non sarebbe stata in alcun modo gestibile: la mamma di J, donna adorabile, era più esaurita della carta igienica dell'Autogrill da quando la figlia si era separata da Ricky.

Vedevo poco i bambini, ma li sentivo continuamente, in quel periodo.

Sapevano che era un mese di grande stress ma erano consci anche del fatto che sarebbe finita presto. Né Ale né i bambini mi fecero pesare l'assenza. In quello ero già una campionessa olimpica di mio, ormai schiacciata dal senso di colpa.

Quella sera aprii la porta di casa incurante della cassetta della lettere che vomitava sul marciapiede pacchetti, lettere, volantini e forse anche qualche utenza da pagare.

Se il mal di schiena si era ridotto al punto di farsi quasi dimenticare, la necessità direstare concentrata nello svolgere gli esercizi posturali mi stava prosciugando gli ultimi anfratti di materia grigia: giungevo a fine giornata esaurita, per quanto soddisfatta.

Non appena appoggiai sul pavimento della sala il borsone della palestra il cellulare prese a suonare: era Alan.

Rifiutai la chiamata per avviarne immediatamente una ad Ale.

- Mamma! -

La voce squillante che mi prese a pugni il timpano era quella di Lucas, che non attese nessuna risposta da parte mia prima di darmi una notizia di portata ciclopica per l'intera umanità: - Oggi ho imparato come si dice scorreggia in inglese! -

Amici, questa è la genitorialità: affrontare giornate che pesano come macigni, inseguire obiettivi di dubbia importanza con un impegno immeritato, perdere la pazienza con chi non ha colpe, odiarsi nel constatare che chi non ha colpe non porta nemmeno rancore, chiedersi se i giorni saranno tutti così tremendamente difficili per poi, all'improvviso, senza alcun motivo apparente, scoprire per l'ennesima volta che quei cosini che in sala parto non vedevi l'ora di espellere dalla vagina sono i depositari della felicità inaspettata, della gioia immotivata, della sorpresa di cui avevi bisogno e che non meritavi.

- Si dice fart, mamma! Ma fart non fa per niente ridere! Credo che dovrebbero chiamarla scorreggia in tutto il mondo! -

Francamente, credo che nessuno possa negarlo: mio figlio aveva dannatamente ragione.

Quando Lucas esaurì la sua campagna elettorale, molto convincente, il cui scopo era indurmi a insegnare la parola scorreggia ai miei avversari della battle, potei scambiare qualche parola anche con Mattia.

- Mami! -

Mattia, più composto, più moderato, più riflessivo e più sensibile del fratello. Avevo generato una dicotomia di carne e disordine, mettendoli al mondo.

Che figata. Che fatica, sì. Ma che figata, anche. Sì, figata, soprattutto.

- E tu? Hai imparato qualcosa di nuovo, oggi? -

- No! Ma Alberto mi ha dato una carta Gold Star. Io gli ho dato due Vmax. Ti faccio mandare la foto da papà, va bene? La devi vedere, è troppo super bellissima! -

Bastava così poco per accendere la loro gioia. L'entusiasmo che la originava si spegneva poi altrettanto in fretta, ma i bambini sono montagne russe di emozioni.

Mattia cercò dispiegarmi le strategie che avrebbe potuto mettere in atto con il suo mazzo di carte in una ipotetica partita a Pokemon che io, in otto anni, non gli avevo mai visto giocare: quelle carte trascorrevano la loro esistenza racchiuse negli album gentilmente forniti dal signor Amazon, e da lì venivano liberate solo per essere trasferite in una nuova prigione, di proprietà di qualche altro frequentatore di scuole elementari nonché sequestratore esperto di carte Pokemon non sempre originali ma comunque desiderate.

Ogni volta mi sentivo triste pensavo alla terribile esistenza, per altro pressoché eterna e priva di uno scopo, delle carte Pokemon che mai, e dico mai, avrebbero conosciuto l'ebbrezza di una partita vera.

Le partite di carte Pokemon erano e sono tutt'ora, presumibilmente, poco più di una leggenda, o una profezia mal riuscita.

Quando la telefonata terminò non ero certo meno stanca di prima, ma almeno avevo ritrovato un po' di gioia di vivere.

Mattia mi aveva detto che avrebbero cenato dalla nonna, perché Ale era uscito. Valutai l'ipotesi di raggiungerli dalla mia ex suocera dopo la doccia, ma decisi che non era il caso dato che, oltretutto, non c'era modo di avvisare il mio ex marito, evidentemente uscito sprovvisto del suo cellulare.

Ancora oggi mi chiedo se le cose sarebbero andate diversamente se avessi assecondato quel rigurgito di inconscio presagio.

Ma la vita non è un Multiverso Marvel, accidenti. Non c'è spazio per due stagioni di "what if". E quindi... ecco com'è andata.

Ale mi piombò in cortile, attaccandosi al campanello come le dita con l'attack.

Corsi alla porta tesa, perché tanta foga nell'annunciare la propria presenza poteva solo essere sinonimo di rottura di coglioni o guaio piuttosto grosso.

In realtà si trattava della prima ipotesi, che solo successivamente si sarebbe evoluta nella seconda. Due al prezzo di uno, amici.

Ale quasi mi calpestò, entrando come una furia, quando aprii.

- Volevo dirti che ti amo... - biascicò, alitandomi una vampata alcolica tra l'orecchio e la narice destra mentre la sua bocca tentava di raggiungere la parte più sensibile del mio collo.

Lo fermai con determinata compostezza.

- È un discorso che non intendo affrontare stasera. Anzi, non vorrei affrontarlo mai, ma stai pur certo che non lo affronterò quando il tuo tasso alcolico è anche solo appena al di sopra dello zero. -

Sbattei la porta alle nostre spalle e attraversai la stanza, con l'unico scopo di allontanarmi da lui. Doveva sparire, doveva andarsene, dovevo mandarlo via. Sarebbe saltato fuori un casino, da quell'incontro: la portata della detonazione non mi era ancora chiara ma volevo cercare di contenerla fin da subito.

Ero certa di poterlo fare, di averne gli strumenti. Non provavo più nulla che non fosse una semplice seppur profonda gratitudine nei confronti di Ale che, nel suo essere un marito scassacazzi e un ex marito invadente, si era mantenuto nel perimetro dell'eccellenza nel ruolo di padre dei miei figli.

Ero attratta da lui? Certo, cazzo. Ci avevo generato due creature con quell'uomo, e ci avevo condiviso anche una serie infinita di orgasmi, perché se c'era un argomento che non era mai stato messo in discussione, era la nostra efficacia tra le lenzuola.

Ma, che Dio sia lodato, ora avevo trovato qualcun altro con cui fare e disfare il letto, e di questo qualcun altro ero innamorata.

Non puoi farmi niente.

Questo, pensavo, mentre lo guardavo con le braccia conserte, la testa inclinata e la bocca distorta in un ghigno un po' disgustato e un po' arrogante.

I primi dubbi mi sorsero non appena lo vidi raddrizzarsi, cambiare postura, quasi ingrandendosi ai miei occhi, come fanno gli animali feroci quando devono spaventare un avversario e mantenere il ruolo di maschio alfa.

Poi cambiò anche espressione: con un disinvoltura da premio Oscar per la miglior interpretazione, passò dal disperato semi sbronzo in cerca di perdono all'Avvocato del Diavolo che venderebbe pure l'anima di sua madre per non perdere nessuna delle sue cause.

Non puoi farmi niente, mi ripetei, un po' meno convinta, ma ancora fiduciosa.

- Allora affrontiamo un altro discorso. Qualche mese fa ti ho detto che non m'importa di chi di voi due pianta prima l'altro... -

- Stai scherzando. Io giuro che non posso credere che tu stia davvero tirando fuori quelle frasi. -

Ero sconcertata? Umiliata? Arrabbiata? Ricordavo benissimo com'era andata quella sera. Ricordavo benissimo di non essere andata a letto con Ale, ma di aver compreso che sarebbe potuto accadere, se solo lui mi avesse sfiorata.

Era merito di Ale, se io non avevo tradito Marco?

Avevo seppellito quel dubbio a lungo, sotto uno pesante strato di convinzione, lasciandolo a prendere polvere in attesa che ogni mia sinapsi ne scordasse l'esistenza. E anche J era del parere che fosse stupido lasciarsi consumare da qualcosa che non era accaduto.

Ma Ale, campione mondiale di riesumazione dei sensi di colpa altrui, maestro indiscusso di manipolazione della realtà, imperatore del regno delle responsabilità non aveva mai avuto intenzione di dimenticare, né di consentire a me di farlo.

- E invece le tiro fuori, Maia, e non fingerti stupita. Ero stato chiaro, no? Sarei intervenuto personalmente se le cose tra voi due si fossero protratte oltre la mia umana sopportazione. -

Dovrò di nuovo aprirti gli occhi sulla ciclicità inarrestabile con cui tu torni da me, in un modo o nell'altro.

Quelle erano state le sue parole e no, non le avevo scordate. Solo messe da parte, insieme al dubbio che avevano generato dentro di me.

- Ma io non ti amo più. Non c'è modo che io possa tornare da te, lo capisci? -

Si avvicinò di qualche passo, le mani infilate nelle tasche, il sorriso strafottente di chi nasconde una dentatura da squalo dietro le labbra. Non avvertivo nemmeno più quel vago odore di alcol che avevo percepito quando gli avevo aperto la porta: possibile?

Possibile che fosse svanito? Che non aleggiasse più nel suo esofago?

O era un trucco da avvocato cazzuto? Si era inventato qualche trucco del cazzo per farmi abbassare subito la guardia e colpirmi più facilmente?

No, ma cosa diavolo stavo pensando? Era un uomo. Un essere umano. Quello con cui avevo condiviso la mia prima volta... quasi tutte le mie prime volte.

La tensione stava distorcendo le mie percezioni. Lucida. Dovevo restare lucida.

Non puoi farmi niente.

- Potrei accontentarmi di qualcosa di meno, per ora - mi disse. E io giuro che ebbi l'impressione di essere sul punto di dover firmare un patto di sangue con qualche entità malefica. Ma era il mio ex marito. Carne, ossa, sangue, acqua, feci.

Dovevo.Restare.Lucida.

- Ma di cosa diavolo stai parlando? -

- Lascialo. Per ora mi basta. Non mi dispiace dovermi impegnare un po', poi, per farti tornare a casa. Ma di solito a me basta alitarti un po' sul collo per farti aprire le gambe. -

Persi la testa. La detonazione che avevo sperato di contenere fin da subito dilagò in tutta la sua dirompente forza dentro la mia scatola cranica. Niente più pensieri, niente più raccomandazioni rilasciate da una coscienza ormai soffocata, niente più volontà di verbalizzare una qualche intenzione: mi tramutai in un unico fascio di nervi fuori controllo.

Non ricordo se gli gridai qualcosa mentre lo spintonavo con rabbia e lo colpivo con omicida ferocia. Ma cosa dico? Certo che gridai. Non ricordo il cosa, me è fuori discussione che le mani non fossero un mezzo sufficiente per liberare lo sfogo cui diedi vita dopo la sua frase aberrante. E anche le mani e la voce insieme non erano certo sufficienti, ma erano gli unici mezzi di cui disponevo.

Incassò, quasi inamovibile, parecchi colpi sul petto e un paio di spintoni che lo fecero barcollare appena, ma impose la fine della mia sfuriata bloccandomi i polsi non appena si rese conto che non gli stavo risparmiando la faccia: la stavo solo tenendo per ultima.

Se i colpi che gli avevo inferto non lo avevano turbato troppo, notai con soddisfazione che dovette impegnarsi ben più del previsto per trattenermi le mani, che sembravano animate da una volontà propria.

- Adesso puoi smetterla - mi disse, con un tono serafico che portò a livelli inaccettabili quella che saprei definire solo come sete di sangue.

Mi dimenai fino a farmi male, senza poter avere la soddisfazione di liberare almeno una mano per spaccargli il naso, o la bocca, o qualunque cosa si potesse spaccare su una faccia.

- Sei proprio una merda! - gridai, nella speranza di poterlo ferire almeno con il mio disprezzo.

Il mio disprezzo non lo ferì.

- Tranquilla, ho solo detto che lo devi lasciare. Non dobbiamo scopare necessariamente oggi. -

Quel tono. Ironico? Grottesco?

No.

Oltraggioso.

Sì, mi stava parlando in tono oltraggioso.

- Esci da casa mia!-

Non sembrava avere intenzione di lasciarmi andare. Tantomeno sembrava intenzionato ad andarsene.

- Devi andare dal tuo chirurgo del cazzo, e lasciarlo. Trova una scusa, se vuoi puoi inventare qualcosa che mi coinvolga, non me ne frega un cazzo. Oppure puoi dirgli la verità: che lo lasci prima di finire per tradirlo e sprofondare nel mio letto... -

Mi dimenai ancora perché ogni parola alimentava qualcosa di profondamente pericoloso dentro di me. Il suo bisogno di stringermi di più per evitare di ingoiare i denti a causa di una gomitata ben assestata sembrava invece accrescere il suo sadico piacere di dominarmi.

- ... o che, ed è altrettanto vero, lo lasci perché è ho la ferma intenzione di renderti la vita impossibile in tribunale. -

E con quella frase, spense la mia furia.

- Tribunale? - chiesi. Ale avvertì i miei muscoli rilassarsi, e allentò la presa sui miei polsi.

- L'affidamento dei bambini. -

- Stai usando i bambini per colpire me? Li farai soffrire per mesi, forse anni, perché ti vuoi scopare la tua ex moglie a piacimento? -

- No. Non voglio. Quindi, per favore, non costringermi a farlo. -

- Perderesti. In tribunale perderesti. -

- Forse. Probabilmente. Ma dopo quanto tempo, Maia? Dopo quanta sofferenza da parte di tutti? -

Diedi chiari segnali di volermi allontanare da lui, che mi lasciò andare del tutto. Non era minimamente scomposto. Minacciare la serenità emotiva dei nostri bambini non gli era costato nulla.

Perché lui sapeva. Sapeva che non saremmo mai arrivati a tanto. Che non avrei mai corso il rischio di provocarlo per vedere se avrebbe davvero messo in pratica quello scempio descritto in poche frasi.

Non lo avrebbe mai fatto. Ora lo so. Era solo una minaccia poco credibile, che lanciava con la disperazione del naufrago che affida all'Oceano la bottiglia che contiene la sua richiesta d'aiuto.

Tutta la sua compostezza, la sua rigidità, la sua convinzione nello sputare le sue frasi di merda erano una facciata tormentata che si era costruito, con fatica, in quei mesi.

E se solo fossi stata poco meno stanca, poco meno spaventata, poco meno stressata, avrei sentito di nuovo il fetore dell'alcol nel suo alito: avrei intuito che aveva cercato sul fondo di una bottiglia costosa la forza di giocare quella carta così umiliante per entrambi.

Ma non capii un cazzo.

Sarebbe stato un grosso problema e poco più, se Ale avesse fatto la sua sporca giocata in un altro momento: avremmo avuto il tempo, io e Marco, di sbollire, di riformulare l'accaduto, di non farci sopraffare dalla paura e dalla rabbia.

Ma il momento era quello: la battle non più all'orizzonte ma affacciata alla finestra e, ovviamente, la questione Rochester.

E fu così che mandai tutto a puttane, inutilmente.

SPAZIO AUTRICE

Et voilà, Maia come al solito si sgretola come cenere di fronte all'ex.

E adesso? Cosa sta per accadere?

Che ne pensate?

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