(Marco) Non ci si cura da soli

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Arrivai in albergo che era quasi mezzanotte, stanco e innervosito dal traffico di Milano che non conosce pause.

Abbandonai la valigia accanto al letto, senza prendermi la briga di disfarla e limitandomi ad aprirla per tirare fuori lo stretto necessario per affrontare una doccia.

Ripulito, mi sdraiai cercando di decidere se scrivere prima a Maia o a mio figlio. Optai per la seconda opzione. Lo avvertii del mio arrivo e quando inziammo a prendere accordi per l'indomani mi resi conto che una telefonata sarebbe stata più efficace. Da quanto non parlavo con Daniele? Scavai nella memoria, ma non trovai una risposta. Fu un moto di stizza, credo, a scardinare la mia inerzia nei suoi confronti: trovai il suo nome in rubrica e schiacciai l'icona verde della chiamata.

Rispose dopo quattro squilli.

- Papà. -

Sembrava stanco. Di me? Di sua madre? Di entrambi? La terza, probabilmente, era quella buona. Non considerai minimamente il fatto che a quell'ora essere stanchi poteva essere considerato fisiologico.

- Ciao Daniele. Eri a letto? -

- No, sto studiando.-

Sorrisi. Affiorò l'immagine di quel ragazzo magro e biondo curvo su una scrivania e seminascosto a una pila di libri; come me, una ventina d'anni prima.

- Come vanno gli esami? -

- Ne parliamo domani– tagliò corto, non perché arrabbiato: Daniele non lo era mai. Sembrava incapace di provare rancore, persino nei miei confronti. Quello che non ero riuscito ad affrontare, in quegli anni, non era la sua rabbia, come avrei sperato e preferito. No. Non era nemmeno il disprezzo, che non avevo mai sentito affiorare nelle sue parole. Io ero fuggito dal suo sguardo deluso. Avevo disatteso le sue aspettative. Mio figlio aveva colto perfettamente la mia incapacità di portare avanti due progetti contemporaneamente. Al contrario di sua madre, non era rimasto ferito dal fatto che io avessi scelto la carriera anziché la famiglia. Era rimasto deluso dal fallimento nel mantenere la mia efficienza sia in casa che in ospedale. Daniele era l'unico ad aver capito che non avevo rinunciato solo per totale disinteresse, ma anche per mancanza di risorse.

- Ti passo a prendere? - mi chiese subito.

- Posso venire in taxi, non preoccuparti. -

- Perché dovresti? Passo domani alle 10. Ho avvertito la clinica del tuo arrivo, così potrai parlare con i medici e provare a capirci qualcosa. -

- Va bene, mi faccio trovare pronto. Ora smetti di studiare e dormi. -

Gli feci una raccomandazione che Daniele avrebbe ignorato. Ne ero certo: io avrei fatto lo stesso, alla sua età. E anche successivamente.

- Ho quasi finito, poi mi butto sul letto. Notte, papà. -

- Buonanotte, Daniele. -

Mio figlio mi aveva parlato con scioltezza, come se non fossero passati mesi dall'ultima volta che suo padre lo aveva chiamato.

Se per Michela era troppo tardi, per Daniele non avevo ancora buttato via troppo tempo. Forse avevo trovato le risorse che mi erano mancate negli anni precedenti.

Mi aveva fatto bene parlare con lui: sentivo già di odiare meno Milano.

Prima di addormentarmi sentii anche Maia, che si stava riprendendo velocemente.

Fu una notte meno tormentata di quello che avevo temuto.

***

La cartella clinica di Michela era corposa, ma non aveva alcun senso sfogliarla per intero. Un'occhiata alla risonanza e una alla biopsia erano state più che sufficienti. Daniele era accanto a me e mi guardava con un'espressione priva di aspettative. Riposi la documentazione sulla scrivania nel giro di mezzo minuto.

Non alzai lo sguardo sul primario Bennardi, che sapeva quanto fosse inutile fornirmi qualunque dettaglio o spiegazione. Ebbe invece il buon gusto di congedarsi e lasciarmi con mio figlio.

- Concordi con la prognosi? - mi chiese Daniele.

- Sì. Tra tutti i tumori cerebrali, il Glioblastoma è il più incazzoso. Quello della mamma è all'ultimo stadio, inoperabile. Mi dispiace. -

Daniele non si era aspettato nulla di diverso: il suo sguardo non conobbe nessun cambiamento. Abbassò le spalle, appoggiandosi allo schienale della sedia.

- Credi che le terapie antidepressive abbiano avuto un ruolo in tutto questo? -

- No. -

- Ha assunto quella robaccia per anni...-

- Insieme all'alcool e al fumo, Daniele. Sarebbe stata più probabile una cirrosi, se proprio vuoi saperlo. -

Lo vidi annuire, inghiottendo. Forse per la prima volta vedevo farsi strada in lui un profondo senso di frustrazione.

- Cosa possiamo fare? - mi chiese.

Appoggiai i gomiti sulle ginocchia per avvicinarmi di più a mio figlio.

- Quello che stiamo già facendo. Qua le forniranno le cure necessarie per affrontare i suoi ultimi giorni nelle migliori condizioni possibili. E aspettiamo, Daniele. -

- Aspettiamo che muoia? -

- Sì. Aspettiamo che muoia. -

Una sola lacrima gli bagnò il volto. Non fece nulla per nasconderla, lasciò che gli rigasse la guancia per poi cadere a bagnargli i jeans.

- Vieni a trovarla, papà. Ti vuole vedere. Chiede di te. -

- Sono venuto per questo, Daniele. -

Lo seguii lungo i corridoi della clinica, salendo scale e attraversando reparti fino a perdermi. Non avrei saputo tornare nell'ufficio di Bennardi, e probabilmente nemmeno al parcheggio.

Quando giungemmo alla camera di Michela fui sollevato nel constatare che era una singola, ben illuminata e dotata di Tv , wi-fi, bagno personale e mini frigo. Optional che forse già non aveva più la forza di apprezzare in alcun modo.

Michela era sempre stata una donna magra, un fascio di nervi che stava in piedi nutrendosi di Marlboro rosse e birra fredda. Ora il suo aspetto non rivelava più né la profonda depressione da cui non era mai uscita né l'insanabile disperazione di cui ero causa: il suo aspetto rivelava solo che stava morendo, indipendentemente dal modo in cui aveva vissuto.

Bennardi mi aveva spiegato che le crisi epilettiche erano quasi quotidiane, e che non avrebbe saputo dire quante ancora avrebbe potuto sopportarne.

Eppure, ci riconobbe.

- Sei venuto – mi disse, allungando una mano a stringere quella di Daniele.

Ci sedemmo accanto al letto.

- Sì. Ciao Michela.-

Non avrei saputo dire, in quel momento, cosa stavo provando. Col senno di poi, probabilmente, mi è più semplice identificare il mio stato d'animo: in un certo senso avevo sempre saputo che la vita di Michela sarebbe stata breve. Avrei in realtà scommesso che causa della sua fine sarebbero stati i suoi vizi, o la sua volontà di autodistruzione che già in passato aveva platealmente esternato. Ad ogni modo, ero preparato a quella situazione già da qualche anno. Avevo iniziato a covare quella certezza già quando Daniele frequentava le elementari e Michela aveva sostituito i pasti con pacchetti di sigarette. L'idea aveva poi messo radici tra le mie convinzioni non appena Daniele divenne quasi autonomo, alle medie, e Michela iniziò a riempire i vuoti delle sue giornate con pianti disperati che ai miei occhi erano tanto incomprensibili quanto fastidiosi. Infine, quando io avevo smesso di far finta di esserle fedele e Daniele aveva iniziato a prepararsi da solo anche i pasti, non ebbi più alcun dubbio sul destino fatale della mia ex moglie, dato che si fece trovare svenuta in bagno con parecchie confezioni di medicinali vari nello stomaco. Quella volta mi limitai a portarla da uno psichiatra per controllare la sua condizione. Arginarla, quantomeno.

Optai per un ricovero in clinica specializzata al suo terzo tentato suicidio: quando a trovarla fu Daniele, nemmeno maggiorenne, in un bagno di sangue dentro la vasca da bagno.

Non ero certo che Michela avesse agito con piena convinzione. Ricordo la fredda constatazione che mi saltò in mente non appena vidi le ferite che si era autoinflitta: incerte, poco profonde, frastagliate. Avevo guardato le cicatrici che le attraversavano i polsi e avevo pensato che Michela doveva sapere che il modo migliore per accelerare il processo era procurarsi ferite che dal polso risalivano attraverso l'avambraccio. Pensai che in casa avevamo lame ben più efficaci. Pensai che Michela aveva compiuto un pessimo lavoro nel tentare di uccidersi. Presi quel suo terzo tentativo come un capriccio, un dispetto a danno mio e di Daniele. Presi quella che era ancora mia moglie per un'isterica stronza autolesionista che avrebbe rovinato la vita di entrambi.

La sua incapacità di rendersi indipendente da suo marito e suo figlio aveva inaridito ogni mio sentimento nei suoi confronti. La sua presenza mi infastidiva.

Vederla ricoverata in una clinica specializzata mi fece sentire libero. Pensai che avrebbe liberato anche Daniele, ma la verità è che mi liberai di entrambi. Mantenni la clinica di Michela, dalla quale entrava e usciva a cadenza regolare, e gli studi e le spese di Daniele da lontano.

- Visto? - mi chiese. - Il cancro è più efficace di me nell'uccidermi. -

Non c'era astio nel suo tono. Parlò con un angolo della bocca piegato verso l'alto e per una frazione di secondo mi parve che la sua morte si fosse allontanata di qualche metro.

- Hai altri talenti– le dissi, sorridendole.

- Non me ne viene in mente nemmeno uno. -

Potei solo tacere, perché non veniva in mente nulla nemmeno a me. Michela chiuse gli occhi e si riposò per qualche minuto. Nessuno spezzò il silenzio finché non tornò vigile.

- Come va nel nuovo ospedale? - volle sapere. La sua lucidità mi sconvolgeva, considerando la sua condizione.

- Bene, ho un ottimo staff. -

- Amici? Dimmi che ne hai qualcuno. Almeno uno. -

- Sì, ho anche un amico. E' uno stronzo di prima categoria. -

La feci ridere, e ne fui felice. Daniele mi guardò con gratitudine.

- E che fate quando non sei in ospedale? Raccontami qualcosa. Ti prego. -

- Anche lui lavora in ospedale. Ironia della sorte, è un oncologo. -

- Siete gente allegra, insomma – disse Daniele, e Michela si concesse un'altra risata. Poi si voltò verso suo figlio.

- Daniele, mi vai a prendere una bottiglietta d'acqua? -

Ce n'era una piena e ancora sigillata sul suo comodino, lo sapevamo tutti e Michela ne era consapevole. Daniele si alzò, la baciò sulla fronte e uscì, sussurrandomi che mi aspettava fuori.

Quando si fu chiuso la porta alle spalle Michela sospirò.

- Detesto non avere alcun ruolo nella mia morte. -

- Non sempre abbiamo la facoltà di scegliere. -

- Ma io l'ho avuta, e ho fallito 3 volte. -

- La terza volta non ti sei impegnata granché, lasciatelo dire. -

Sorrise.

- Sono stata una moglie di merda. Mi dispiace. -

- Anch'io mi sono impegnato poco come marito. -

- Puoi dirlo forte. Hai fatto proprio schifo. Quando hai smesso di amarmi, Marco? Quando sono rimasta incinta? Era troppo presto, per te? -

Sì. Sì, avevo smesso di amarla quando era rimasta incinta.

- All'epoca ritenni che i tempi non fossero maturi. Per come è andata, forse non avevo nemmeno torto, Michela. Nostro figlio è cresciuto praticamente da solo. -

- Io, invece, non ho mai smesso di amarti. Mai. Ogni sigaretta era un bacio che tu mi negavi, ogni birra una puttana nuova che te lo tirava fuori dai pantaloni. Ti amo ancora, anche se te ne sei andato e non mi hai più chiamata. Ogni volta che sono io a contattarti penso che non risponderai. Quando lo fai, penso che mi dirai che è l'ultima volta. Vivo e rivivo i tuoi rifiuti ancora adesso. Cosa ho sbagliato, Marco?-

Come si può spiegare una cosa del genere a una persona che sta morendo? Michela era stata una ragazza brillante, energica, un po' presuntuosa. Me la ricordo nei corridoi del liceo, con il pacchetto di sigarette che sbucava dalla tasca dei jeans, incurante della presenza dei professori e dei bidelli. Non era la più bella, ma era la più popolare. Studiava poco, ma aveva una spiccata capacità d'improvvisazione fuori dal normale. Il suo utilizzo del pensiero laterale le consentiva un facile accesso a voti più che buoni con il minimo sforzo.

Le veniva tutto semplice, camminava come se il mondo fosse un tappeto su cui pulirsi le suole delle scarpe.

Prendeva quello che voleva, e dopo la maturità decise che voleva me.

- Abbiamo sbagliato tutti e due. -

- Fai l'indulgente perché ho una massa schifosa nel cervello che mi sta uccidendo? -

.

- No. E' che nessuno di noi due ha saputo gestire i vizi dell'altro. Non ci siamo mai completati, Michela. Eravamo come due pezzi di puzzle diversi all'interno della stessa scatola. -

Mi studiò per più di qualche attimo, poi fece una smorfia più compiaciuta che disgustata.

- Tu sei innamorato.-

Non attese una risposta.

- Oh, Dio. Credevo che sarei morta senza vederti mai in questo stato, sai? Credevo che sarei morta conservando il ricordo della tua indifferenza nei confronti del mondo. Ero certa che non avresti mai smesso di camminare davanti alla folla senza guardarti indietro, convinto che chiunque avrebbe deciso di seguirti, assecondarti, ammirando il tuo cervello e accettando che per te il cuore è solo l'organo che pompa il sangue e niente più. -

Era più o meno l'immagine che io stesso avevo avuto di me in quegli anni. E non mi era dispiaciuto, tutto sommato. Era così che volevo essere, ed era così che mi comportavo.

- Sto invecchiando –dissi, come avevo fatto con Christian.

- Beh, io sto morendo. Va meglio a te, Marco. Come sempre. Tu vivi, innamorato e ricambiato, con un figlio adulto cui basta il tuo assegno e non necessita del tuo tempo. Io muoio ma invece di essermi bevuta il fegato o fumata i polmoni mi ritrovo il cervello a brandelli. Ancora innamorata di te, e mai ricambiata. Con un figlio adulto cui non posso più dedicare né un tempo che ho esaurito né il denaro che ho smesso di guadagnare. -

Non mi chiesi il motivo per cui ero lì, né il motivo per cui Michela chiedeva di me. Ero stato con questa donna per anni e, forse, per un po' l'avevo anche amata. Mi aveva dato un figlio che io non avevo cercato e che sospettavo lei mi avesse imposto. Aveva cercato di morire in molti modi diversi e il suo fallimento aveva suscitato il mio disprezzo. Nessuno di noi due era una bella persona. Salvare bambini in sala operatoria per il resto della vita forse non sarebbe bastato a redimermi per quello che avevo costruito con Michela ignorando Daniele. Ma io avevo ancora del tempo, e con quello che mi restava potevo fare ancora molte cose. Michela non ne aveva più e aveva sprecato la sua vita fino a consumarla. Era malata nell'anima e io non avevo mai nemmeno cercato di guarirla. Se avessi accolto la sua gravidanza con entusiasmo, se avessi preparato i biberon per Daniele e se l'avessi ringraziata almeno una volta per essermi stata accanto nonostante i tradimenti e la carriera, forse sarebbe andata incontro alla morte covando uno stato d'animo diverso.

- Mi dispiace, Michela. Se vuoi posso accogliere il tuo risentimento e portarlo con me fino alla tomba. Oppure posso accogliere il tuo risentimento e farne qualcosa di diverso. Magari posso elaborarlo fino a trasformarlo in un sincero coinvolgimento nella via di Daniele. Magari posso conservarlo e vedere se si evolve in orgoglio, così da indossarlo come un vestito nel giorno in cui nostro figlio prenderà la laurea. E posso anche usarlo come monito sia per me che per Daniele, per ricordare a entrambi come non rivestire il ruolo di partner e genitore. Potrebbe insegnare qualcosa sia a me che a nostro figlio. Dimmi tu, Michela. Dimmi tu, cosa vuoi che faccia con il sentimento che provi per me. -

La sua espressione si indurì. Dai suoi occhi scesero il doppio delle lacrime che aveva versato Daniele. Una per ogni occhio. Gliele asciugai con le labbra, offrendole anche una carezza. Due gesti che le negavo da un'infinità di tempo.

- Marco, trova il modo di fare qualcosa di buono con le macerie che ci siamo lasciati dietro. -

- Farò del mio meglio. -

- Devi fare molto più del tuo meglio. Sei un fallito fuori dalla sala operatoria, lo sai. Quindi il tuo meglio non basta. Come si chiama la donna di cui ti sei innamorato? -

- Maia. -

- E' giovane? Dimmi che non è così giovane da sembrare la fidanzata di Daniele. -

- Non è così giovane da sembrare la sua fidanzata. -

Michela sospirò, poco convinta.

- E' una brava persona? -

- Una brava mamma e un'ottima persona. La odieresti a morte, ne sono certo. -

Sorrise.

- Occupati di Daniele. Assicurati che stia bene. Intendo... intendo dire che devi assicurarti che nella sua testa funzioni tutto bene. Se vedi in lui atteggiamenti simili ai miei... non fargli quello che hai fatto a me. Non ci si cura da soli, Marco. Se nostro figlio ha ereditato il mio buio interiore tu dovrai occupartene. -

Era un'ipotesi, quella che mio figlio avesse le stesse tendenze autolesioniste  e maniaco depressive di Michela, che avevo già preso inconsiderazione. Daniele era un ragazzo non particolarmente espansivo, e di lui sapevo poco altro. Nelle rare occasioni in cui avevo trascorso del tempo con lui, comunque, non avevo notato nulla di strano. Senza vergogna, ammisi con me stesso che mi rincuorava l'assenza di segnali preoccupanti.

- Me ne occuperò. -

- Cazzo, mi sembri sincero. Stai invecchiando bene, brutto stronzo. -

Mi sedetti sul letto, accanto a Michela. Le baciai una mano e attesi che si addormentasse accarezzandole i pochi capelli rimasti. 

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