Un assaggio di Priceless

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Prima dell'epilogo, consapevole che tante lettrici sono silenziose e non avrò mai modo di sapere chi sono, vi lascio qualche boccone della mia nuova storia.
Molte di voi non sono mie followers e quindi non ricevono aggiornamenti.
Se fino qua avete apprezzato La sindrome dell'eroe, magari avete voglia di dare una possibilità anche a Priceless.
Grazie mille per la fiducia e il tempo che mi avete dedicato, senza di voi i miei personaggi non potrebbero vivere ❤️

PROLOGO E PRIMO CAPITOLO DELLA PROSSIMA STORIA

"Aveva ragione Gabriel Garcìa Màrquez quando diceva che ogni essere umano ha tre vite: una pubblica, una privata e una segreta. E tu, Lea, dovrai imparare a brillare nella prima, splendere nella seconda, accecare nella terza. "

Me lo aveva scritto Matteo Gessi, mio padre, nel biglietto d'auguri per il mio diciottesimo compleanno.

A quell'età non avevo ancora una vita privata, ma ne avevo già una segreta. Lì accecavo così bene, che anche lui non la vedeva.

La mia vita privata ebbe invece inizio poche ore dopo aver letto quel biglietto, e ancora oggi mi chiedo se mio padre avesse pianificato l'evento.

Mantenni un ottimo equilibrio in tutte e tre le mie esistenze per quasi dieci anni, poi arrivò lui, spalancò le ante dell'armadio che custodiva tutti i miei scheletri e prese a calci il mucchio d'ossa che si riversò fuori.

A pensarci adesso vedo tutti gli errori, tutte le valutazioni approssimative, tutte le scelte superficiali. Ma adesso ho più strumenti, più consapevolezza.

Lividi. Cicatrici. Questo quello che ho guadagnato. Ma quello che ho perso, non lo so quantificare.

Ero felice. Soddisfatta. Realizzata. Prima.

Tutte le persone normali hanno dei prima e dei dopo.

Prima del matrimonio, dopo il divorzio.

Prima dei figli, dopo la laurea.

Prima della vecchiaia, dopo la pensione.

Ora io ne ho uno solo di prima e dopo.

Prima di lui, dopo di lui.

Non che non avessi mai fallito prima di lui. Ma le mie erano state cadute seguite da rapide riprese.

Nella vita pubblica, da adulta, ero diventata un'ottima consulente finanziaria.

Quando tutto iniziò, con lui, avevo un portafoglio clienti che avevo smesso di stimare: il meno facoltoso aveva investimenti per 36 milioni di euro ed ero stipendiata da una delle più grandi realtà europee nell'ambito degli istituti di credito.

Non era questo a rendermi felice. Questo mi rendeva economicamente indipendente. Non ricca. Benestante, forse.

Già a quel tempo soffocavo la latente sensazione che prima o poi qualcosa sarebbe accaduto: avrei commesso un errore, compromettendo il mio invidiabile equilibrio tra la vita pubblica, privata e segreta e sospettavo che il problema sarebbe sorto dalla seconda, ovvero quella che mi rendeva felice e che mi consentiva di abbattere la soglia del benestare per entrare a passo svelto nell'atrio della ricchezza. La ricchezza sobria, non quella eclatante.

Nella vita privata non vendevo fondi d'investimento, non riempivo le tasche dei miei clienti con plusvalenze inaspettate o trading ben riuscito, ma aveva inizio quando spegnevo il cellulare aziendale per accendere una web cam in una delle stanze sul retro del locale che avevo comprato come fosse un vezzo e che dava lavoro a venti persone tra bariste, ballerine, uomini della sicurezza. Senza contare l'indotto: fornitori, imprese di pulizie, tecnici luci e suoni, deejay. Dismettevo il completo elegante per indossare abiti provocanti e dimenticavo la quotazione delle commodities e il cambio euro/dollaro per riempire il mio portafoglio, anziché quello dei clienti. Ma questo non accadeva dietro il bancone del mio locale: lì riempivo bicchieri.

Nel retro c'erano tre stanze nelle quali accadeva qualcosa di diverso. In quelle stanze, il portafoglio dei clienti lo svuotavo. Gli svuotavo pure la borsa. No, non quella che si mette a tracolla. Quella che contiene lo sperma.

Una puttana, direte voi.

No, meglio.

Una puttana on line.

Niente di illegale. Tutto in regola.

Ma ogni volta mi connettevo sapendo che dall'altra parte avrei potuto trovare uno dei clienti che di giorno si rivolgevano a me per investire il proprio denaro. Forse avrei perso il lavoro, perché quando certe realtà finanziarie decidono di farti fuori, trovano il modo di farlo anche se, sulla carta, non possono.

Sarebbe stato un problema? Un po'.

Sarebbe stato un problema insormontabile? No.

Per qualche tempo avrei fatto solo la cam girl, poi la notizia si sarebbe sgonfiata e con un curriculum come il mio avrei ricominciato la mia scalata presso un altro istituto di credito.

Questi erano i piani. Ero stata previdente, no? Mi ero preparata, emotivamente ed economicamente, ai guai.

Ma i guai si presentarono con altre sembianze. Indossavano un abito antracite da almeno quattromila euro, una camicia che forse era grigia e forse era azzurra ma che di certo era stata fatta su misura, una cintura di pelle elegante, un orologio che costava quanto una Tesla, e un paio di dannate Nike bianche ai piedi. I guai sono come il diavolo: si nascondono dove meno te lo aspetti. Così, anche se li vedi, non li riconosci. Io non riconobbi i guai, li scambiai per qualcos'altro. Per un gioco, una sfida da vincere. Ma lui è una di quelle sfide che puoi solo perdere. Oppure devi scegliere di non partecipare.

Ma no, cosa dico. Anche quella è una scelta sua. Quella di non partecipare, intendo.

E la vita segreta?

Vi state chiedendo questo? Ve lo racconterò, ma non subito, altrimenti non è divertente. Ma così come si era evoluta la mia vita pubblica, trasformandomi da studentessa a professionista, si era evoluta anche quella privata, e lo spartiacque fu il suicidio di Matteo Gessi, dopo il quale iniziò la mia carriera da cam girl. La vita privata che mi riguardò tra il biglietto dei diciotto anni e la morte di mio padre, ora, non ha importanza.

La vita segreta, invece, era rimasta quasi la stessa in quei dieci anni che avevano preceduto l'arrivo dei guai: di poco influenzata dalla mia professione, dal suicidio di mio padre e dalla mia scelta di spogliarmi davanti a una telecamera.

***

Forse sarebbe corretto dire che tutto ebbe inizio con il colloquio, ma ricordo che già quella mattina mi ero svegliata con il piede sinistro.

Era settembre e non avevo voglia di andare in ufficio, né ne avevo bisogno: avevo chiuso tutti i target dell'anno già da un paio di settimane e non avevo alcuna intenzione di offrire ai miei datori di lavoro performance esageratamente alte in cambio di una pacca sulla spalla e un sorriso di circostanza. Ma se ero libera di rimandare qualunque operazione finanziaria a gennaio dell'anno successivo, non ero altrettanto libera di restare a letto in attesa che arrivasse il nuovo anno. Subivo quella situazione quasi come un sopruso.

«Hai la faccia da stronza, stamattina.»

Denis, che aveva catalogato tutte le mie espressioni facciali con disarmante lucidità quando ancora il mio portafoglio clienti apparteneva alla categoria principianti, appoggiò due Pocket Coffee sul bancone della reception, offrendomeli. Cazzo, quanto mi conosceva bene.

« Se tu non fossi la più grande checca di tutto il Nord Est, ti avrei offerto il miglior sesso della tua vita. »

Mi sorrise, mentre scartavo il primo cioccolatino con una certa avidità.

« Checca è una parola offensiva e non inclusiva. Tu, invece, sei una troietta da quattro soldi se ti svendi per un paio cioccolatini. Tra l'altro è la versione decaffeinata. Erano in offerta. »

Affondai con i denti nel cioccolato croccante e il ripieno liquido mi accarezzò la lingua. Mi uscì dalla bocca un guaito di piacere: non esiste sulla faccia della terra un essere umano più goloso di me. Né creatura più avvezza ai piaceri della vita.

« Non mi svendo per due cioccolatini. A te la darei gratis, sgualdrina » risposi, scartando anche il secondo cioccolatino.

« In quel caso sarei io a offrirti il miglior sesso della tua vita. E saresti una troietta da quattro soldi lo stesso. Dovrei insegnarti tutto, già lo so. »

Schioccai le labbra non appena anche l'ultimo Pocket Coffee mi finì nell'esofago. Mi appoggiai con i gomiti sul bancone che delimitava il feudo di Denis, Signore indiscusso delle agende elettroniche dei consulenti, Zar dello smistamento delle chiamate, Imperatore degli archivi e Sovrano delle confidenze. Era la mia migliore amica, solo che aveva un cazzo nelle mutande.

« Denis, oggi non ho voglia di fare una sega. »

Sorrise, assumendo la mia stessa postura con fare cospiratorio.

« Come sempre. »

« Esatto. Se chiudo la porta del mio ufficio e gioco a Candy Crash fino a gennaio, mi copri? »

« Ovvio, posso riempire la tua agenda di appuntamenti fittizi. In cambio mi passi il contatto telefonico del cliente con il culo che parla. »

Solo Denis poteva raddrizzare la mia giornata con una manciata di calorie e due stronzate ben assestate.

« Il primario, intendi? »

«E chi altri? Non hai molta merce di scambio tra i tuoi miliardari grassi e stronzi. »

Il primario era rimasto impresso anche a me, con il suo portamento elegante e la faccia da figlio di puttana. Aveva portato una grossa somma dagli States l'anno precedente e, sebbene fosse lontano anni luce dall'avere un patrimonio all'altezza del mio portafoglio, avevo accettato di buon grado di occuparmi di lui.

Almeno era una goduria per gli occhi. E non solo i miei, evidentemente.

« Quello è figa-dipendente, dai retta a me. Non ce lo vedo proprio mentre si fa lubrificare "il culo che parla" da un maschio. »

Denis fecce spallucce.

« So essere convincente. Tieni, » mi disse, allontanandosi dal bancone e allungandomi un post it pieno di numeri e scarabocchi, « ieri sera ti hanno cercata in ufficio. La solita concorrenza convinta che tu sia una di quelle che ha voglia di lavorare. »

Sbuffai nel prenderlo. La pausa Pocket Coffee era finita e a breve sarebbero arrivati i colleghi. Quelli con la voglia di lavorare incastonata tra i cromosomi del DNA.

« Mi farò corteggiare per telefono tra un livello e l'altro di Candy Crash. »

Vedete? Anche quando le giornate iniziavano male, le raddrizzavo. Oppure ci pensava Denis. Mi capitava di essere stanca, ovviamente. Non dormivo granché, comprimendo le ore di sonno tra il lavoro diurno e le performance notturne. E in quel lasso di tempo ci infilavo anche altri piaceri, quali lo shopping, la palestra, il sesso vero, la lettura di qualche libro.

In quella frenesia trovavo la mia tana, un adeguato rifugio che mi tutelava da pensieri foschi, ricordi sbiaditi e stati d'animo che respingevo con caparbietà.

Perché, vedete, la felicità è impegnativa quando non è innata. In fondo, quello era il mio unico, vero target annuale: la felicità. Ad ogni costo. In ogni frangente. Irrinunciabile quanto l'ossigeno per i polmoni, quanto l'acqua per l'organismo. Trincerata dietro un sorriso affabile, arroccata dietro il buonumore, inseguivo ogni piacere con erculea concentrazione.

Quel settembre, così professionalmente pigro, celava un certo pericolo. L'occulto disagio derivante dall'inattività cerebrale minacciava il mio target prioritario di felicità.

Per questo, probabilmente, quella mattina digitai il numero scritto sul post it che mi aveva dato Denis. Sapevo già che avrei declinato qualunque offerta proveniente dalla concorrenza, ma la prospettiva di un colloquio formale di lavoro mi forniva quella scarica di adrenalina necessaria a riempire i vuoti. Niente poteva restare vuoto nella ma vita, perché qualcosa prende sempre il posto dei vuoti e se quel qualcosa non è attentamente vagliato dalla coscienza della sottoscritta, probabilmente è un qualcosa di spiacevole. Qualcosa che ho chiuso nell'armadio degli scheletri, quello che abbiamo tutti quanti. Quello che nessuno vuole aprire. Tanto meno io.

Alle 10:15, dopo una pausa caffè, una scrollata alla bacheca di Facebook, un paio di inutili mail inviate a clienti ansiosi, due telefonate cui risposi con insofferenza e una serie di vergognose sconfitte a Candy Crash, mi decisi a chiamare il numero sotto il quale Denis aveva disegnato un cuoricino, una farfalla e un pene stilizzato con tanto di peli sulle palle. Il telefono squillò solo pochi secondi.

« Baker Agency, come posso aiutarla? »

Ebbi un attimo di esitazione nell'incamerare quanto detto dalla voce femminile che aveva risposto. La Baker era forse l'unico istituto più cazzuto di quello per cui stavo lavorando io, almeno in Europa, e ignoravo avessero un distaccamento in quello sputo di città che non vantava nemmeno una tangenziale. Risposi con qualche secondo di ritardo.

« Buongiorno, sono Lea Gessi, so che mi avete cercata ieri pomeriggio. »

Sentii le dita della receptionist digitare freneticamente su una tastiera in cerca di un filo logico che confermasse la mia tesi.

« Sì, Lea Gessi della Credit S.p.A., è corretto? » mi chiese.

« Corretto. »

Quindi aveva avuto ragione Denis: cercavano qualcuno affamato di gloria, probabilmente per aprire un distaccamento e portare via qualche fetta di mercato a chi già marcava il territorio da anni.

Un lavoraccio molto ben retribuito, di norma, ma impegnativo.

« Signorina Gessi, le passo il dottor Vitale, di risorse umane. Resti in linea, cortesemente. »

La voce che pronunciò il mio nome pochi attimi dopo era calda, ma un tantino troppo acuta per risultare virile e autoritaria. Pensai subito che a prendere la linea dall'altra parte ci fosse un ragazzino sulla trentina.

« Dottoressa Gessi, grazie di averci richiamato. La contattavo per una proposta professionale. »

Dritto al punto. Mi piaceva: non mi aspettavo certo inutili giri di parole da un istituto di quel calibro.

« Non mi risulta abbiate scrivanie da offrirmi da queste parti, dottor Vitale. »

Parlare la stessa lingua, sempre.

« Abbiamo tutto l'occorrente, dottoressa. E di qualità inarrivabile, posso garantirglielo. »

Era plausibile, e io ero curiosa. Volevo sapere quanto valevo per loro, prima di declinare. Poteva essere una base per negoziare un aumento di stipendio con la Credit S.p.A.

Sentii affiorare un sorriso sulle labbra.

« Non vorrei farle perdere tempo. Al momento non sono interessata a un cambio di ruolo alla pari... »

Non ero disposta a nessun cambio. Troppa fatica inutile.

« Alla Baker non si perde tempo, ogni attività è un investimento. Possiamo discutere i termini dell'offerta nella nostra nuova sede. Se ha modo, l'aspetto stasera intorno alle 18:00. In caso contrario, mi dica lei. »

Stava dando per scontato che sarei andata all'appuntamento. Per quanto mi risultasse fastidioso quell'atteggiamento da pezzo di merda, dovetti accettare la realtà dei fatti: aveva ragione lui.

Era una sconfitta solo momentanea: il mio immediato rifiuto di fronte a qualunque proposta sarebbe stato il mio calcio ben assestato alle palle del mio interlocutore.

Nessun prezzo valeva la mia fatica, dato che la notte guadagnavo il doppio di quello che portavo a casa di giorno, e senza nessun impegno.

Annotai l'indirizzo della Baker. Non vedevo l'ora arrivassero le 18:00.

***

È innegabile che le metropoli urbane siano noti teatri di riciclaggio di denaro e caotiche testimoni della nascita e dello sviluppo di affari sporchi.

Ma è nelle piccole città, tra le nebbie delle pianure attraversate da fiumi inquinati, all'interno di comunità asserragliate dietro patti siglati da strette di mano e sguardi d'intesa, ai bordi di vicoli ciottolati e ai tavoli di trattorie storiche che le menti più contorte partoriscono i piani più creativi per infrangere la legge senza pagarne le conseguenze.

Le piccole città, con la complicità delle sperdute campagne circostanti, sono anche il tappeto più ampio sotto il quale nascondere la polvere dei propri vizi proibiti.

Trovavo stimolante passeggiare e condurre le mie attività in una realtà così deliziosamente falsa.

Io, che dei soldi dei clienti avrei avuto anche il dovere di conoscerne e denunciarne l'eventuale origine illecita, non potevo non provare una certa ammirazione per l'invidiabile capacità della gente di mentire con eleganza, risultando credibile agli organi di vigilanza, che chissà su cosa vigilavano.

E probabilmente l'origine dei soldi che sfilavo con sorprendente facilità dalle tasche degli utenti spogliandomi di notte, non era poi tanto più cristallina.

Era un piacere un tantino perverso, quello di sentirmi pulita intascando soldi sporchi. Ma ognuno ha le sue perversioni, e io so bene che ce ne sono più discutibili.

Il completo bordeaux con ricami neri griffato Victoria's Secret che indossai il pomeriggio del colloquio sotto il tailleur non altrettanto pregiato, me lo aveva regalato uno dei miei seguaci in cam. Il suo nick era sonosolocurioso, ma durante un privè che gli era costato quasi 200 euro in meno di un'ora, mi aveva confessato di chiamarsi Danilo.

Il pizzo scuro del reggiseno sbucava leggermente dalla scollatura della camicetta bianca, sapientemente abbottonata solo il minimo indispensabile.

Lo sguardo di Vitale, che si rivelò una decina d'anni più vecchio di quanto avevo supposto per telefono, cadde ripetutamente nell'incavo striminzito tra i miei seni, ma si piantò prontamente sulla mia faccia non appena gli confermai il mio inamovibile no alla sua proposta d'assunzione.

« Dottoressa, le stiamo offrendo approssimativamente il 40% in più del suo attuale stipendio e una sede di lavoro comoda rispetto alla sua residenza. Non credo potrà mai ricevere una proposta più interessante di questa. »

Allargai le labbra in un sorriso affilato, non compiacente, impreziosito dal Russian Red che si sposava bene con i riflessi dei miei capelli.

« Questo lo dice lei, dottor Vitale. La mia busta paga non è certo nei vostri database e non è mia intenzione discutere in questo momento la mia retribuzione presso la concorrenza. Ma, vede, non è questo il punto. »

E mi fermai, costringendo lui a dimostrarsi interessato a me.

« E quale sarebbe il punto? »

« Il punto è che il maggior impegno richiesto dalle vostre attuali necessità sul territorio non è quantificabile con una maggiorazione del 40% della mia retribuzione. »

L'uomo aggrottò le sopracciglia folte. Non era brutto, ma era totalmente privo di fascino. La sua postura tradiva l'assoluta mancanza di attività fisica. Il taglio elegante della giacca sartoriale non era sufficiente a celare un ventre un po' troppo prominente. L'incarnato spento, i capelli radi, lo sguardo acquoso erano ulteriori indizi: avevo di fronte l'esempio lampante di quello che io non sarei mai voluta essere. Vitale era un lavoratore assiduo e instancabile. Che tristezza.

« La nostra offerta non è negoziabile, questo deve esserle chiaro. »

Non spensi il sorriso rapace. Inclinai la testa di lato, sbattendo le ciglia allungate da un mascara che mi era costato quanto una bottiglia di vino pregiato.

« La vostra offerta non mi interesserebbe nemmeno se lo fosse. Questo deve essere chiaro a lei. »

Vitale quasi si accasciò sullo schienale della poltrona di pelle nera. Raffinata, ma cupa.

Che modo poco elegante di incassare una sconfitta.

Mi alzai e allungai la mano per salutare con educazione.

« Mi spiace averle fatto perdere tempo, ma a mia discolpa devo ricordarle che l'avevo avvertita. »

Vitale mi strinse la mano, alzandosi.

Mi accompagnò alla porta, che si aprì sulla hall non ancora del tutto attrezzata per l'imminente apertura dell'agenzia.

E quello fu il momento in cui lo vidi. Lo notai solo con la coda dell'occhio, appoggiato con i lombi al bancone ancora vuoto, mentre con lo sguardo scandagliava alcuni fogli.

Lo notai perché le sue Nike bianche non c'entravano un cazzo con l'abito antracite e la cintura nera. Ma proprio un cazzo.

Eppure.

Lui alzò lo sguardo per una frazione di secondo, forse sentendo il mio sguardo aggrottato passare al radar la sua figura. In quell'attimo in cui lui forse registrò me, io registrai lui. L'orologio costoso anzi costosissimo, la barba perfetta, la postura elegante e l'espressione annoiata.

La voce di Vitale richiamò la mia attenzione e abbandonai lo studio di quell'esemplare maschile di eleganza in fatto di abiti e cattivo gusto in fatto di scarpe.

« Dottoressa Gessi...»

« Sì? », risposi, voltandomi.

L'uomo mi allungò un biglietto da visita.

« Tenga, nel caso cambiasse idea. »

Che formidabile occasione per sfoggiare tutta la mia arrogante vanità.

« Grazie, ma non c'è alcuna possibilità che io possa cambiare idea. »

Non presi il biglietto, che rimase in mano a Vitale, come un'elemosina non richiesta. Tornai a voltarmi, uscendo dall'agenzia e portando con me un sorriso strafottente e la sensazione di uno sguardo pungente sul culo fasciato da un costoso Victoria's Secret e da un mediocre completo a pantalone. 

SPAZIO AUTRICE

Lea me la immagino più o meno così, ma un po' più stronza.

Detto questo, non è ancora successo niente, ovviamente, sebbene l'offerta di lavoro possa destare qualche sospetto. Apparentemente ha a che fare esclusivamente con la vita pubblica di Lea. Ma in ogni storia le apparenze a volte devono ingannare, giusto?

Ho creato questa copertina, che ve ne pare?

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