Capitolo 1

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Era una giornata grigia, una cappa di nebbia pesante avvolgeva la città di Firenze.

Come una Fenice che risorge dalle ceneri, la cupola del Brunelleschi si ergeva silenziosa e possente. Era una delle poche cose che si intravedevano in mezzo a tutta quella foschia. Poi c'erano le luci baluginanti delle insegne dei bar, che avevano tirato su le saracinesche da poco. Gabriel sorseggiava il caffè lentamente, mentre stava controllando la posta.

«Gabriel, puoi venire qua per favore?» La voce della donna aveva un tono che non ammetteva repliche e una certa dose d'insistenza. Seduta al tavolo della cucina Gloria era assorta nel leggere qualcosa al computer. La sua testa era piegata da un lato, riccioli biondi sfuggivano dalla coda improvvisata che si era fatta, legando i lunghi capelli dorati con un laccio verde. Il collo spiccava come un quarto di luna tanto era candido, un neo si delineava vicino al lobo dell'orecchio sinistro. Ebbe voglia e il desiderio di passare le sue labbra su quella pelle, che lui sapeva essere così morbida. La conosceva a memoria, il sapore e l'odore. Ne usciva letteralmente pazzo. All'inizio era partito tutto con un'infatuazione, poi la cosa lo aveva preso e ne era rimasto coinvolto a tal punto che non viveva più senza di lei. Ne aveva bisogno come dell'aria che si respira. Gloria era una pittrice, come lui. La conobbe a una mostra e le piacque subito: fu un colpo di fulmine. Lo colpì il fascino squisito che emanava dalla sua persona e quegli occhi così belli, profondi e sinceri. Quella sera indossava un lungo abito verde acquamarina, con una scollatura appena pronunciata, che faceva intravedere le sue forme un po' acerbe e che metteva in risalto quegli occhi così azzurri, dentro ai quali poteva perdersi. Ricordò di aver pensato: "E quella chi è?" . In effetti le sembrava un po' spaesata, tuttavia volle lasciarla ancora a bollire nel suo brodo. Aveva voglia di avvicinarsi a lei, ma prese tempo. Voleva rilassarsi un po'. Gloria guardava con interesse i quadri. Aveva notato nelle mani il segno inconfondibile delle chiazze di colore che vanno via difficilmente. La cosa lo sorprese in senso positivo. Era una pittrice anche lei! "Fantastico!" pensò. La ragazza era attratta da un dipinto che raffigurava una giovane donna con un mazzolino di fiori.

«Interessante vero?», le disse Gabriel che si era avvicinato a lei in silenzio.

Lei sussultò, aveva la testa persa in chissà quali pensieri e la colse alla sprovvista. Tuttavia si riscosse quasi subito e gli rispose di sì.

«Spero che l'esito non sia lo stesso», proseguì Gabriel.

«Quale esito?», ribatté lei incuriosita.

«Beh, vedo che ti piace questo quadro. Mi ricorda una scena di un film "Vertigo la donna che visse due volte", non so se lo conosci».

«No non lo conosco», rispose lei. «Cosa succede in questo film?» Sotto le lampade della sala i suoi occhi brillavano, le guance erano rosee e le labbra sorridevano a lui.

«Beh te lo racconterò, ma non adesso», rispose.

«Ci spostiamo da un'altra parte? Ti offro un caffè, ti va?»

E lei rispose di sì semplicemente.

Iniziò a corteggiarla, fu un corteggiamento lento ed estenuante perché Gloria non cedeva. Se ne stava sempre sulle sue posizioni, facendolo dannare e sperare al tempo stesso. Finché una sera capitolò e si dettero un bacio. Non ricordava da chi fosse partita l'iniziativa, però il bacio fu bello e sentito. Era una serata invernale e si trovavano davanti all'associazione che aveva iniziato a frequentare. Era un club dedito alla ricerca di quadri trafugati. Ci si era iscritto da poco, su invito di un amico. Faceva freddo e Gloria che aveva voluto accompagnarlo, perché incuriosita, rabbrividiva sotto il cappotto logoro marrone che indossava. Lui l'abbracciò stretta per infonderle calore e lei per ringraziarlo gli dette un bacio sulla guancia, che poi fu deviato dalla guancia alle labbra. Il freddo non lo sentivano più, avvolti nel calore prepotente di quell'attimo. Gloria si trasferì da lui. Trascorrevano la maggior parte del loro tempo a dipingere quadri, fare l'amore ed era bello ed esaltante.

Gabriel perso nel ricordo dell'inizio della loro storia d'amore s'intenerì, le si avvicinò, le dette un bacio sul collo. Lei lo guardò e gli sorrise dolcemente, illuminandosi tutta.

«Guarda Gabriel che ne dici, ci andiamo?» e gli indicò una bellissima spiaggia tropicale nelle Bahamas.

«Gloria, ho ancora tanto lavoro da sbrigare e proprio adesso che vorrei inaugurare una mostra d'arte mia. Aspettiamo, non è il momento adesso.»

«È anche per quel tuo amico vero? Ti è dispiaciuto, non ti sei ancora ripreso?»

«Gregorio era più di un amico per me, era un fratello. No, non mi capacito che non ci sia più. Ho perso uno dei miei migliori amici. Lo dimostra il fatto che ha pensato di lasciare a me la sua eredità, anche se poverino non possedeva quasi più nulla. È da un po' che ci penso, ma credo che in onore della sua memoria dovrò almeno controllare quel libro che mi ha donato. Non ho avuto ancora modo di visionarlo».

Nel dire questo Gabriel si diresse verso la parete del soggiorno, dove era appeso un suo dipinto. Il quadro rappresentava un solo occhio grande che guardava un puntino oltre l'orizzonte e in lontananza si scorgeva l'azzurro del mare. Gabriel spostò il quadro, che rivelò dietro una cassaforte. Aprì la cassaforte ed estrasse un libretto marrone vecchio dalle pagine ingiallite. Prese una sedia e si sedette accanto alla donna. Gloria si distolse un attimo dalle sue occupazioni, per concentrarsi con il fidanzato su ciò che era scritto su quel libro.

«Ecco qua», disse rivolto alla sua compagna.

Gregorio era un antiquario e amava il suo lavoro tanto da dedicarci buona parte del suo tempo e anche di più. Quando non era nella sua bottega studiava i dipinti scomparsi in circostanze misteriose, l'origine, la provenienza e ciò che si celava dietro. Era stato lui a trasmettere a Gabriel la passione per i quadri antichi e a coinvolgerlo in un'associazione che era dedita alla ricerca di famosi quadri trafugati. Alla sua morte non aveva eredi perché era solo e quindi aveva lasciato tutti i suoi averi all'amico e tra questi c'era anche il fantomatico libro. Si raccomandò con Gabriel di averne cura, perché come gli aveva detto, era il frutto di studi che aveva compiuto durante tutto il corso della sua vita.

«Ti aiuteranno», aveva detto a Gabriel sul letto di morte. «Non lasciare perdere, abbine cura e vedrai che verrai ricompensato e il mio studio non sarà stato vano. Sono sicuro di lasciarlo in buone mani». Poi aveva reso l'anima a Dio, pover'uomo. Gabriel inizialmente aveva preso un po' la cosa sottogamba. Non dava credibilità agli studi che il suo vecchio amico faceva, perché aveva altre cose a cui pensare. Da pittore spiantato qual era ambiva a farsi un nome e quello era il periodo giusto per proporsi sul mercato, organizzando mostre d'arte che gli avrebbero portato in cassa un po' di soldini.

«Gabriel, mi stai ascoltando?», gli chiese Gloria richiamandolo alla realtà dopo il tuffo involontario nei suoi ricordi.

«Scusami, ma mi ero distratto», rispose.

Gloria era una persona veramente speciale. Gli piaceva da impazzire il suo corpo morbido e caldo, quel calore di femmina che avvertiva ogni volta che erano sul letto a fare l'amore.

Era per lui l'acqua della fonte dalla quale dissetarsi.

«Dov'eravamo rimasti?», chiese Gabriel.

Rilessero insieme. Sulla prima pagina del libro erano scritte parole in corsivo, la cui calligrafia era senza ombra di dubbio quella di Gregorio.

Oh voi che avrete la fortuna di leggere queste mie memorie: lieve è stato il segno che ho lasciato in questa mia vita. Se sei arrivato a leggere queste mie righe allora vuol dire che sono morto e che tu sei il fortunato che avrà accesso alla chiave del tesoro. Ma ti sarà svelato tutto poco per volta. Intanto intendi del tesoro di cui ti parlo. Dovrai scoprirne l'oggetto e una volta saputo, la collocazione, perché ardua e piena di difficoltà è la via che conduce alla verità e alla giustizia.

Orbene ascolta e apri bene le tue orecchie, in modo di imprimerti per bene queste mie parole.

*Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni e nello spazio e nel tempo d'un sogno è racchiusa la nostra breve vita.* 

Ti voglio aiutare per facilitare l'arduo compito che verrà dopo. Trattasi di una cosa che tu ami molto e per la quale daresti tutta la tua vita. È un quadro, di quale quadro si tratti lo scoprirai dalle righe prima e da questa frase: «Salvaci Signore, siamo perduti».

*Ed egli disse loro:« Perché avete paura uomini di poca fede?»

Quindi levatosi sgridò i venti ed il mare e si fece una grande bonaccia.

I presenti furono presi da stupore e dicevano: « Chi è mai costui al quale i venti e il mare obbediscono?»*

«La tempesta sul mare di Galilea!» esclamò Gloria.

«Ma certo hai ragione», ribatté Gabriel che aggiunse: «Penso di averne una copia nel catalogo che ho preso dalla pinacoteca». Si alzò per prenderlo.

«Eccolo qui», disse. Entrambi stettero in silenzio di fronte a quell'opera d'arte, anche se si trattava di una fotografia. Il quadro vero era stato rubato dall'Isabella Stewart Gardner Museum di Boston.

Gabriel ammirò quel capolavoro assoluto. Il quadro era di quella bellezza straordinaria che ti fa rimanere a bocca aperta. Non c'erano colori chiari ma scuri, una barca, quattordici uomini che lottano contro la tempesta che la sta travolgendo con le sue ondate. Cinque di loro cercano di tenere stabile la barca con le corde. Una vela è strappata, una sartia svolazzante. Gesù tra di loro calma le acque. Il quadro è stato dipinto da Rembrandt nel 1633. Impressioni fugaci attraverso gli occhi di Gabriel giungevano al cervello, dove venivano sottoposte a un'analisi critica e accurata. Quel quadro era pieno di simboli. Osservò gli elementi che lo caratterizzavano: un'ondata gigantesca che rischia di far capovolgere la barca, l'acqua a bordo, l'apostolo che vomita, la tensione degli Apostoli alle corde, alla vela, al timone, uno di loro con la mano sulla testa, forse un autoritratto di Rembrandt guarda l'osservatore e sembra pensare: "Cosa ci faccio io qui? Mi salverò?"

Gabriel pensava a quegli uomini su tela, ma la cui espressione era talmente reale da sembrare vera. Il viaggio in mare è da sempre un simbolo, è un viaggio nell'ignoto, è un passaggio in un mondo parallelo. Il dipinto raffigura il miracolo di Gesù che calma le acque durante una tempesta nel mare di Galilea, secondo la descrizione del Vangelo di Marco. Gabriel pensò che di fronte a una tempesta simile lui non ce l'avrebbe fatta, nemmeno armandosi di tutta la volontà, di cui sarebbe stato capace. Nella vita si era ritrovato tante volte in condizioni d'instabilità emotiva, in balia di una tempesta di emozioni mal trattenute, che miravano sempre a farlo sentire in bilico su di un precipizio. Il mare lo riportava alla calma interiore, al frangiflutti interno, che qui era sconvolto dalla burrasca. Non è forse la vita una tempesta, dove tutti cercano di barcamenarsi in qualche modo? L'acqua che rappresentava la fonte, l'origine di ogni cosa, l'acqua della vita, non qui limpida ma scura e densa di oscuri presagi. Gli uomini in affanno di fronte alla forza della natura che li soverchia. Solo un uomo rimane sereno con un'espressione pacata sul suo bel volto, capelli lunghi, occhi pieni di una comprensione universale. Basta un suo cenno con la mano e gli elementi della natura si placano. Un uomo guarda negli occhi l'osservatore ignaro, come invitandolo a una riflessione. Una riflessione sulla vita, sul perché a volte ci troviamo in balia della corrente, sui motivi per cui abbiamo perso la bussola e non sappiamo più dove andare.

«Gabriel, guarda qui!» La voce di Gloria lo richiamò in modo prepotente alla realtà.

Gli era successa una cosa strana mentre fissava il dipinto. Si era ritrovato in una sorta di trance e aveva perso i contatti con la realtà. Una specie di "Sindrome di Stendhal" e per un attimo soltanto esisteva solo il quadro, nient'altro. Accidenti, che potenza aveva quel dipinto se riusciva a trasmettere tutto questo solo attraverso una foto. Certo, per Gregorio doveva essere stato importante.

Gloria lo esortò a leggere il passo successivo:

"Lunga è la strada mio caro ed io ti ho avvisato. Bravo sarai se questo quesito risolverai".

Una spada

con l'elsa spezzata

a custodia

di un luogo

da dove si guardan le stelle;

tre mani cercaron di rubarla

un fulmine colpì una di queste

un lupo aggredì un'altra

una terza fu affogata.

La spada eterna memoria del Santo

dell'Abbazia che porta il suo nome.

Oh tu pellegrino viaggiatore,

una tale bellezza potrai ammirare ancora nel luogo sacrale

che vide tra carestie e peste

le vicende dei monaci cistercensi

evocatori dei simboli magici. 

                                                                         ***

La loro concentrazione fu interrotta dallo squillo del telefono.

«Pronto, chi parla?», disse Gabriel scocciato dal fatto di essere stato interrotto in quel modo.

E poi erano le dieci del mattino. Chi mai poteva essere?

Una voce di donna rispose all'altro capo del filo. Era sua madre Clarissa che preoccupata del fatto che non si era fatto più sentire, voleva sapere come stava il figlio.

Gabriel la rassicurò, si informò con premura delle sue condizioni di salute, le domandò del padre. Non aveva niente contro la madre, le voleva bene. I problemi erano sempre stati per lo più con suo padre.
I suoi genitori vivevano nella tranquilla cittadina di Pistoia, in collina, in una villetta con giardino. Gabriel era vissuto lì, fino a quando si era trasferito per studio e per lavoro a Firenze.

«Gabriel, quando metterai mai la testa a posto e non ti cercherai un lavoro per bene?», era quello che gli diceva sempre suo padre quando lo andava a trovare, il che non succedeva spesso ormai, visto il modo in cui lo trattava ogni volta.

Ex operaio metalmeccanico in pensione, suo padre Mario non accettava la sua arte e il fatto che il figlio dipingesse.

Perdite di tempo, erano altre le cose importanti nella vita, diceva e ne era convinto. Si sentiva dal tono della voce. Ora era in pensione, ma proprio per questo avendo più tempo, si dedicava maggiormente a tenersi in forma, andando in palestra, per correggere la sua scoliosi, e all'attività politica. Era un sostenitore convinto del partito comunista, Berlinguer era stato il suo idolo. Guai a dirgli che il partito comunista non esisteva più perché adesso era diventato Partito democratico. Si infuriava come una bestia e diceva che era tutta colpa dei socialisti. Gabriel si stupiva di volta in volta a pensare alla ristrettezza mentale del padre e non riusciva a capacitarsene.

«Lascialo stare», diceva sua madre.

Clarissa era un'insegnante e approvava il fatto che Gabriel seguisse la sua passione per la pittura.

Era una persona sensibile e quindi capiva di più le esigenze del figlio Gabriel o forse voleva venirgli incontro perché sapeva che lui aveva un animo sensibile.

Gabriel era stato trascurato dai genitori e quindi aveva creato un mondo tutto suo dove si rifugiava quando era triste e succedeva così spesso che non se ne rendeva più conto.

L'unico momento in cui si riunivano tutti insieme era la sera intorno al tavolo del tinello arredato con gusto sobrio, ma rustico. La televisione era la regina incontrastata di quei momenti. Sua madre era una brava cuoca. Il tavolo apparecchiato sempre con tovaglie multicolori differenti. La cena era contraddistinta dal silenzio interrotto soltanto dalla voce monocorde del televisore. Ciascuno pensava ai fatti propri ed era assorto nelle sue riflessioni.

Il padre pensava a quelle dispute sindacaliste nelle quali spesso si trovava invischiato, perso nel suo mondo di lotte di operaio contro gli interessi dei padroni, così li definiva lui.

La madre immersa nel pensiero di correggere i compiti dei suoi alunni.

Gabriel preoccupato e in ansia per il disagio causato dalle prese in giro da parte dei compagni.

Certo che non avrebbe avuto nessuna comprensione, non aveva nemmeno il coraggio di parlarne con qualcuno.

Era una sera come tante altre, fuori faceva freddo. Il cielo prometteva neve, nuvole grigie plumbee l'avevano coperto completamente. Il riscaldamento era al massimo. E quando era freddo a sua madre piaceva preparare la zuppa.

Clarissa mise la minestra nei piatti: una zuppa di zucca che emanava un gradevole profumo che gli solleticava le narici e anche il colore era invitante, un arancione intenso, un colore caldo che riempiva la vista. Gabriel iniziò a mangiare, portandosi il cucchiaio vicino alle labbra, soffiando perché era ancora troppo calda e poi assaporandola lentamente. "Buona", pensò, "ma poco salata".

«Mi passi il sale?» Chiese rivolto alla madre. Tanto lei non se la sarebbe presa per quella critica velata, al contrario di suo padre che prendeva tutto come un attacco diretto alla sua persona e che era estremamente suscettibile.

Nel silenzio si sentiva il rumore dei cucchiai che sbattevano accidentalmente sui piatti e i risucchi, che nel caso di suo padre erano particolarmente accentuati.

Tutti gli occhi erano puntati sulla televisione. I programmi erano a rotazione. Suo padre voleva vedere il telegiornale, ma talvolta vinceva lui che desiderava vedere i cartoni animati: il suo Goldrake era lì che lo aspettava. Niente dialoghi, meglio evitarli, molto meglio cadere in trance davanti al televisore. Eppure ne avrebbero avute di cose da dire. All'improvviso la voce di suo padre ruppe il silenzio e si rivolse a lui con quel tono che usava durante le occasioni solenni.

«Gabriel, ragazzo mio mi sembra che tu non ti stia dando da fare molto. Ricordati che io alla tua età già lavoravo. Non posso pensare di mantenere un figlio fannullone da qui fino a non so quando».

Gabriel fece spallucce, ma subito si pentì di quel gesto. Sapeva che suo padre l'avrebbe male interpretato e ciò avrebbe provocato in lui una maggiore durezza nei suoi confronti.

«I tuoi insegnanti non sono contenti, hanno mandato a chiamare dicendo che sei discontinuo, che non studi e che non segui le lezioni», riprese a dire suo padre.

Gabriel mandò giù il rospo non tanto bene. Sentì qualcosa formarsi in gola, un nodo di emozioni che, se trattenute, sarebbero poi esplose in atteggiamenti collerici che avrebbe voluto evitare. In effetti, quanto avrebbe voluto spaccargli su quella testa pelata quel vaso cinese sulla mensola dell'ingresso a cui teneva così tanto. Ma si trattenne. Non riusciva a rispondere a tono al padre, ma più che rispondergli per le rime avrebbe voluto dire le sue ragioni, cosa che gli era impedita dalla consapevolezza che le sue parole non solo non sarebbero state ascoltate, ma addirittura sarebbero state fraintese. Sentì gli occhi inumidirsi, ebbe voglia di piangere.

Nessuno lo capiva. Fin da piccolo aveva avuto chiara questa impressione.

Suo padre, quando era stata l'ultima volta che era stato affettuoso con lui? Forse quando era piccolo e andavano al mare e lo portava sempre a cavalcioni sulle spalle e poi facevano il bagno insieme. Bei tempi quelli! Allora suo padre era orgoglioso di lui e gli dimostrava tutto il suo affetto.

E lui gli voleva bene, lo ammirava.

Quante volte aveva pensato che suo padre era un lavoratore molto in gamba e forte. Lo vedeva nella sua mente come un eroe, il suo eroe. Le gite in bicicletta. Quante ne avevano fatte! Mario portava il figlio dappertutto la domenica mattina presto a pedalare allegramente per le strade di Firenze, per i giardini delle Cascine e poi più in là verso Fiesole. Facevano tanti chilometri, lui con la Graziellina che gli avevano regalato per la comunione e suo padre con una economica bici da uomo.

Poi i tempi erano cambiati.

Mario era sempre più nervoso e non aveva più tempo per lui, troppo preso dalle sue cose, dalle battaglie sindacali. Era rabbioso e ce l'aveva con il mondo intero. Non si parlavano più, non c'era nessuna forma di dialogo, ma solo una distruzione lenta e inesorabile esercitata attraverso critiche distruttive e brontolii che suo padre metteva sempre in atto per qualcosa di poco chiaro che neppure lui riusciva a capire.

Per lui era frustrante, avrebbe voluto parlargli apertamente senza paura, senza remore. Raccontargli di quanto era difficile la vita da adolescente, della paura di un corpo che cambia e con il quale devi prendere confidenza, del timore di non essere accettato, di essere giudicato e additato come un fenomeno da baraccone.

Alla televisione era iniziato uno show e un cantante dai modi di fare femminili cominciò a cantare. A suo padre la musica non piaceva per niente, anzi gli dava fastidio, così prese in mano il telecomando per spegnerla. Ma mentre lo faceva gli lanciò uno sguardo tra l'inquisitore e al tempo stesso accusatore e gli sibilò a denti stretti: "Non sarai mica finocchio?". Ora quella domanda gli parve estremamente fuori luogo. Suo padre ne aveva di queste uscite improvvise, ma questa volta aveva passato il segno. Gli piombò seduta stante una sensazione di inadeguatezza mortale. Nelle sue orecchie quel "finocchio" risuonava come un'offesa, come un termine dispregiativo che lui odiava.

La madre osservava in silenzio. Non aveva il coraggio di intervenire, ma si vedeva dall'espressione del suo viso che anche lei riteneva inappropriata quella domanda. Nonostante fosse una persona dotata di una cultura immensa, era però sottomessa al marito, che esercitava in quella casa una sorta di controllo patriarcale.

Ma a quel punto Gabriel non ce la fece più. Gli occhi si stavano riempiendo di lacrime e per suo padre, che aveva la convinzione che un vero uomo non piange mai, altrimenti non è un uomo ma una femminuccia, quella visione fu intollerabile tanto che picchiò il pugno ben forte sul tavolo con le sue mani grandi e pesanti e urlò:

«Basta, sei una vergogna per me. Vattene nella tua stanza a riflettere e non farti vedere fino a domani». Gabriel era accecato dalle lacrime, mai aveva avvertito dentro di sé una tale sensazione di umiliazione e frustrazione. Non soltanto si sentiva in colpa per non essere in grado di soddisfare le aspettative del padre, ma questi gli aveva gettato addosso un'accusa infamante e non vera. A quel tempo Gabriel era ancora puro, aveva avuto delle cotte per qualche ragazzina, ma era talmente timido che non era riuscito a farsi avanti. Il pensiero di essere attratto dai ragazzi non l'aveva mai sfiorato.

La frustrazione divenne una rabbia incontrollabile. Sentì di odiare suo padre con tutte le sue forze e questa volta non riuscì a controllarsi. Quel bel vaso cinese sulla mensola dell'ingresso ebbe vita breve e sì che suo padre ci teneva come fosse stata una reliquia. Era il dono di un caro amico e lo conservava come un tesoro. Gabriel lo prese, Mario non ebbe nemmeno il tempo di accorgersi di quello che stava per accadere. Fu un attimo. Gabriel spaccò il vaso in pieno sulla testa calva del padre. Il vaso si sfracellò in mille pezzi. Urla, grida che non si sapeva da chi arrivassero. Mario prese una bella botta, si fece una ferita che cominciò a sanguinare copiosamente sulla tempia sinistra, ma niente di grave. Gabriel scappò via terrorizzato aprendo la porta di casa e precipitandosi fuori. Gabriel si rifugiò dall'unico amico che aveva Mirko, che per quella notte lo ospitò. Le trattative per far tornare Gabriel a casa furono lunghe e laboriose. Il padre si rifiutava di perdonarlo. Quello che il figlio aveva fatto era grave, la madre cercava di convincerlo, dicendogli che anche lui ci era andato pesante.
«I ragazzi devono essere trattati con comprensione e non accusandoli di cose non vere o facendoli sentire dei criminali. Caro, mettici una pietra sopra. Anche Gabriel è disposto a chiedere scusa. L'unico modo è perdonarsi a vicenda e tutto tornerà come prima o meglio di prima, perché è evidente che abbiamo sbagliato in qualcosa e sta a noi genitori capire dove e porvi rimedio. La maggior parte dell'infelicità dei figli dipende da noi genitori, da come li abbiamo educati ai valori, da come li abbiamo fatti sentire amati e dalla giusta autorevolezza nel modo di interagire con loro, facendo in modo che ci sia uno scambio reciproco, dove l'adempimento dei doveri da parte loro non appaia più come tale».

Ecco che la moglie ricominciava a fare i suoi discorsi da sociologa. Ciò gli dava un enorme fastidio e lo faceva sentire come un bambino. Acconsentì ad accogliere di nuovo in casa il figlio, anche se per i giorni a venire fu scontroso e scorbutico come non mai.

Con il senno di poi Gabriel pensò che fu proprio quell'episodio a contribuire seppur parzialmente a spingerlo a trasgredire come a dire a suo padre: " Tu mi hai accusato per qualcosa che all'epoca in cui è stata fatta non era vera, ma che lo è diventata perché l'ho voluto io e quindi tu sei in parte responsabile di avermi spinto in quella direzione".

Per giorni e giorni si ritirava nella sua camera con la morte nel cuore. Era deluso, si sentiva un incompreso e gli pareva di sentire gravare su di sé una cappa che lo isolava dagli altri.

Clarissa cercava di consolarlo e di rimediare a quei vuoti di spazi che gli erano stati sottratti, vuoti causati dalla non presenza, dovuta a cause di cui lei non era responsabile.

Riuscire a conciliare nella vita famiglia e lavoro non era facile, ma Gabriel era anche sicuro del fatto che se avesse avuto dei figli, avrebbe fatto il possibile per trascorrere del tempo con loro.

L'adolescenza era stata per lui un brutto periodo di transizione nella quale la sua identità faceva fatica a venire fuori. Si sentiva, anzi si era sempre sentito un emarginato. A scuola aveva evidenziato fin da subito spiccate capacità creative. Ma le persone emotive come lui venivano spesso bullizzate da compagni poco sensibili che lo consideravano soltanto una persona stravagante e perciò era preso di mira costantemente e oggetto di brutti scherzi.

Un giorno, all'uscita da scuola, cercò la bicicletta che era solito parcheggiare negli appositi spazi. I suoi compagni iniziarono a schernirlo. Erano sempre i soliti: uno in particolare, si chiamava Michele, un ripetente con i capelli biondi e gli occhi azzurri che si divertiva a nascondergli la bicicletta e da quel giorno diventò un'abitudine.

In classe si era poi beccato un rapporto e l'avevano buttato fuori per aver osato ridere di fronte al professore.

Si sentiva una "merda". Gli ridevano addosso, lo scimmiottavano, gli facevano versacci, contraendo i muscoli del viso in smorfie strane per sbeffeggiarlo. Cercava di non guardarli, ma i suoi occhi erano attratti in modo quasi magnetico da loro. Gliene facevano di tutti i colori. Ancora oggi non riusciva a spiegarsi il motivo di tutto quell'accanimento nei suoi confronti.

Gabriel l'effeminato, lo chiamavano. E solo perché aveva una chioma di riccioli che gli ricadevano in modo grazioso sul volto. E poi lui non era volgare. Non diceva parolacce, non parlava delle ragazze utilizzando un linguaggio da bassifondi.

Cosa c'era di strano in tutto questo? Niente, se non che i compagni non capissero e avessero bisogno di trovare un capro espiatorio al loro disagio, qualcuno su cui riversare le loro frustrazioni mal represse. Una cosa da vigliacchi, ma c'era chi lo faceva, un'abitudine consolidata e dannosa come un parassita che si annida nel corpo della preda, distruggendola lentamente.

Aveva iniziato a dipingere all'età di 12 anni quando frequentava la seconda media. Aveva un insegnante d'arte che adorava, forse perché era l'unica persona che comprendeva il suo mondo interiore. Vedendolo così appassionato, gli aveva spiegato delle tecniche per disegnare meglio, perché lui, diceva, aveva quel qualcosa in più. Dipingere gli permetteva di esprimere i suoi sentimenti, le sue sensazioni, tutto il suo mondo interiore che le pennellate energiche mettevano in evidenza, e si ripetevano a volte un po' scomposti sul foglio ma che dicevano tanto di una personalità in divenire ancora tutta da scoprire. Quando si è così sensibili non è facile integrarsi con il mondo che ci circonda e molto spesso Gabriel cercava delle vie di fuga a situazioni di grande disagio umano, che lui viveva sempre con l'impressione di essere un alieno catapultato su questo pianeta per caso.

Un'intera vita passata in un corpo da lui considerato estraneo a se stesso.

I compagni si erano accorti di questa simpatia della professoressa e invidiosi com'erano, avevano iniziato a diffondere strane insinuazioni, secondo le quali l'insegnante voleva provarci con lui, voci che arrivarono anche alla preside alla quale erano giunte anche quelle della persecuzione attuata nei confronti di Gabriel.

Quel giorno ammirò la fiera determinazione della preside, una donna distinta, sempre vestita in modo classico e truccata leggermente, quando dichiarò infondate le accuse rivolte alla prof. e fece un rapporto di classe, minacciando la sospensione per quei ragazzi che avevano avuto e dimostravano tuttora un comportamento riprovevole e fuori dalle regole.

Gabriel non si capacitava del fatto che avesse sopportato tutto senza batter ciglio, forse perché in fondo in fondo pensava di meritare quel trattamento, secondo qualche oscura ragione.

Finché un giorno entrò a far parte di un gruppo di amici dove conobbe ragazzi che avevano i suoi stessi problemi.

Questo lo confortò al punto tale che si ritrovò invischiato in amori adolescenziali anche con ragazzi del suo stesso sesso.

Ci si ritrovava di più.

Quella sera se la sarebbe ricordata per sempre.

Era la notte delle stelle cadenti e si erano organizzati per andarle a vedere in uno spiazzo di montagna. Si erano attrezzati per bene, con coperte, torce ecc. e arrivati nel luogo avevano steso le coperte e poi alzati gli occhi al cielo, che quella sera era limpido e di un colore blu cobalto molto intenso. Le stelle rifulgevano e brillavano nella volta celeste.

«Ecco, prendiamo come punto di riferimento l'Orsa Maggiore con quelle sette stelle tutte brillanti», disse Gabriel ai suoi compagni. Dovevano individuare la costellazione di Perseo, da dove si sarebbe diramato lo sciame meteorico.

Con il raggio laser puntò quelle stelle, per farle vedere ai compagni che non erano altrettanto preparati.

Mirko, un suo amico, si era avvicinato a lui e allora aveva provato una sensazione strana. Una scossa elettrica gli era stata trasmessa alla mano, quando lui l'aveva impercettibilmente sfiorata.

Poi era successo tutto in modo così naturale.

Si erano baciati sotto quel cielo stellato e sotto a quella pioggia di stelle cadenti, che sembravano vegliare su di loro. Era stata una notte magica, si erano frequentati per un po'. Per Gabriel era un rifugio quell'amore, era sentirsi compreso da un'altra persona, che non lo giudicava, ma accoglieva. Gli incontri con Mirko li viveva con quella spensieratezza e leggerezza adolescenziale che poi si sarebbe persa. Erano come due anime che si cercavano nel grande oceano della vita. Facevano lunghe passeggiate insieme mano nella mano, attraverso i campi in fiore di Primavera. Si divertivano molto insieme, ci scappava qualche bacio, ma niente di più. Mirko era il suo rifugio, quando lo guardava gli sembrava di osservare se stesso e questa era la cosa bella. La cosa brutta invece fu quando gli comunicò di non voler stare più insieme. Aveva bisogno di stare un po' da solo. Intanto gli anni trascorsero per Gabriel abbastanza in fretta. Aveva raggiunto ormai una certa maturità. Si diplomò all'Accademia di Arte e trovò lavoro in un'importante pinacoteca. Si sentiva sempre un po' confuso perché non gli piacevano solo gli uomini, ma anche le donne. Il corpo femminile lo attraeva molto e lo affascinavano in modo particolare quelle forme armoniose. Tuttavia a causa del suo carattere non aveva particolarmente successo con il genere femminile e per questo motivo le amicizie maschili si trasformavano in qualcosa di più. Fu in questo periodo che conobbe un giovane scrittore spiantato. Stefano era interessante. Il primo giorno che lo vide stava facendo jogging alle Cascine, dove anche lui era solito andare a volte, per ritemprarsi, altre per fare un po' di sana attività motoria.

Stefano aveva un bel fisico. Notò il particolare dei suoi bicipiti scolpiti e il sudore della maglietta che gli si era appiccicata addosso. Si fermò a un passo da lui, che era seduto sulla panchina, ansimando e riprendendo fiato.

«Bella giornata, vero?» disse guardandolo strizzando gli occhi.

«Vero, bella!» rispose lui che non era di tante parole con gli sconosciuti.

«Mi chiamo Stefano, e tu?»

«Gabriel». Da quel giorno iniziarono a frequentarsi più per curiosità che per altro. Gabriel si sentiva attratto da lui, dalla sua vivacità intellettuale e a sua volta Stefano apprezzava molto la sua arte. Si erano trovati così semplicemente, due cervelli in uno. Entrambi artisti avevano trovato una completezza l'uno nell'altro. Facevano anche sesso, ma Gabriel sentiva che in quel rapporto mancava qualcosa: la passione. Perciò era insoddisfatto. Ormai era da qualche mese che lui e Stefano dividevano la stessa casa.

Ma uno tsunami stava per travolgere la tranquilla esistenza di Gabriel. Uno tsunami di nome Gloria. Fu così che Gabriel si rese conto che la relazione con Stefano era ormai giunta al capolinea e ne parlò con il diretto interessato, che fece i bagagli e se ne andò.

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*Citazione William Shakespear

*Dal Vangelo secondo Matteo (MT 8.23.27)

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