Capitolo 3 - Marrone (Prima Parte)

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Il luogo in cui Verity mise piede fu tra i più tristi che poté vedere. Almeno, fino a quel punto. Una pianura arida, di un color terra di Siena, si estendeva di fronte a lei, popolata da gente tutta uguale, con i visi e in corpi irriconoscibili. Sopra di loro un cielo, di una sfumatura simile alle tortilla, vegliava tranquillo. Dire che fossero uomini o donne, anziani o giovani, era impossibile.

La ragazza avanzò in mezzo a loro, tentando di trovare il prossimo Guardiano, ricordandosi in che maniera li aveva definiti Liam poco prima.

Scovarlo equivaleva, praticamente, a iniziare una nuova paura. Non aveva ancora ben delineato in mente la loro funzione, ma dalle parole del ragazzo aveva compreso che erano la sua unica possibilità di proseguire. Doveva essere toccata da loro, sia prima che dopo il superamento della prova, in modo tale da poter passare a quella successiva. Quella era l'unica soluzione a sua disposizione, nonché una delle sue uniche certezze.

Ciò che le dispiaceva più di tutto, però, era doverli abbandonare. Non solo il contatto fisico creava, in una maniera a lei ancora sconosciuta, una sorta di legame con i ragazzi, ma la connessione, la tensione che si generava era unica, le faceva male quasi fisicamente doversi allontanare.

Se fosse stato per lei sarebbe rimasta fin dal principio con Tae. La sua voce calda che le aveva donato conforto, il calore e il tocco leggero erano ancora vividi nella giovane. Eppure le conseguenze, apparentemente, erano troppo gravi se fosse veramente rimasta in un mondo dopo il superamento della paura. Quali fossero, alla giovane non era ancora dato saperlo, ma era curiosa di scoprire che cosa avrebbe subito. Magari non era nulla di importante o particolarmente forte.

Nel frattempo che si guardava intorno, in cerca del possibile Guardiano, Verity andò a sbattere contro qualcuno dei presenti. Erano tutti totalmente vestiti di marrone, dai capelli del colore del mogano agli abiti logori e sulle tonalità della cannella. Se non fosse stato per il dettaglio del viso deforme, indistinguibile, non avrebbe avuto alcun punto di riferimento per trovare chi stava cercando.

Chiese immediatamente scusa, sinceramente dispiaciuta per non aver prestato abbastanza attenzione. L'altro essere non la prese per nulla bene. Uno strano ringhio provenne da quella che dedusse essere la bocca, la quale in poco tempo si trasformò in un sorriso spaventoso: i denti aguzzi come rasoi spuntavano pericolosi, mentre la lingua biforcuta schioccava contro il palato.

«Non ti accorgi mai di nulla, sei proprio una fallita» le sibilò contro il bizzarro umanoide, la voce piena di disprezzo e distorta, come se avesse una sorta di macchinario per cambiarla, renderla irriconoscibile.

«Vai in giro a ferire la gente e poi a chiedere scusa, hai proprio una faccia tosta» aggiunse un altro presente, facendo un passo avanti e completando il tutto con una risata agghiacciante.

«Io non volevo, davvero, mi dispiace» insistette la giovane, il tono maggiormente disperato. Non aveva la minima idea di dove fosse finita o cosa stesse accadendo. Perché pareva che tutti la stessero odiando all'improvviso? Come mai le stavano rivolgendo quelle parole velenose, se neanche la conoscevano? Non l'aveva mica fatto appositamente a scontrarsi con quello sconosciuto, non l'aveva semplicemente visto dato che era stata troppo presa dai suoi pensieri. Voleva solamente trovare la strada giusta e continuare il prima possibile.

«Ma poi, ti pare il modo di andare in giro vestita? Con quel corpo da balena spiaggiata che ti ritrovi?» Commentò l'ennesima voce a lei sconosciuta alle sue spalle, questa volta colpendo proprio nel segno.

Verity rimase pietrificata sul posto, le lacrime iniziarono a bagnarle le guance senza che lei avesse il tempo di controllarle. La bocca si socchiuse, il respiro divenne maggiormente pesante. Non aveva un corpo mozzafiato, niente pancia piatta o gambe lunghe e snelle. Aveva dei chili di troppo che le causavano rotoli di ciccia sui fianchi, spesso messi in mostra dai pantaloni stretti in vita e coperti da una felpa più grande di qualche taglia. Quando d'estate indossava i pantaloncini corti per l'eccessivo caldo, la ragazza si osservava le cosce, da lei ritenute enormi, con disprezzo e disgusto, trattenendo a stento le lacrime.

Lo sapeva questo, purtroppo ne aveva la piena consapevolezza da tutta la vita. Era da anni che tentava di dimagrire, dall'esercizio fisico alle diete, senza raggiungere mai, tuttavia, un vero e proprio risultato. Le pareva di essere sempre lontana anni luce dal traguardo. Solo da un anno circa, però, era riuscita ad accettarsi un minimo e a trovare maggiore libertà nei vestiti da indossare.

Stava ancora lavorando sul migliorarsi, in parte era anche riuscita a superarlo, ma sentire quelle parole le avevano causato un profondo dolore, riaprendo una vecchia ferita che si stava cicatrizzando, oramai. Spesso si era sentita dare della "balena che cammina", "barile con le gambe" o, nei casi peggiori, "cesso ambulante". Non era bella come molte altre ragazze, questo lo sapeva benissimo, tuttavia stava tentando di andare oltre quella sua paura e accettarsi nel modo in cui era. Ogni suo tentativo, in quegli istanti, pareva nullo.

«Oh, guardate, la balena piange. Che c'è, vuoi la mamma? Guarda che si trova in mare.» L'ennesima voce di quella tortura si aggiunse insieme al coro di gente che la stavano deridendo, causandole il battito del cuore accelerato, quasi da tachicardia, e il respiro ancora più affannato. Sembrava che qualcuno le stesse rapendo l'aria dai polmoni, tappandole naso e bocca per non farne entrare altra.

«Dov'è la tua intelligenza quando serve? Ah giusto, non esiste. Ti riempi la testa con tante di quelle informazioni da dimenticarle tutte.» Altra freccia, ulteriori risate. Più si andava avanti e maggiormente attaccavano la sua persona, arrivando nell'anima.

Se c'era una cosa che aveva tentato di fare nella sua vita era studiare, in modo tale da superare gli anni scolastici e scappare dall'incubo in cui viveva ogni giorno quando entrava in classe. Altro giro altra corsa. Nuovo giorno nuova tortura. Il sapere, la conoscenza erano una delle uniche cose che avesse veramente sviluppato, unico elemento che le piaceva di se stessa oltre alla gentilezza che tentava di dimostrare sempre. In quell'istante le stavano distruggendo pure le sole cose su cui avesse sempre fatto affidamento. I libri erano stati il suo rifugio per molto tempo, mondi e universi lontani, sconosciuti e da scoprire uno dopo l'altro, con calma e attenzione.

«Basta, vi prego» chiese con un filo di voce Verity, le lacrime le facevano tremare la voce, mentre i singhiozzi le spezzavano il respiro. Aveva un groppo in gola che la saliva stava corrodendo, contribuendo allo stato di disagio e paura in cui si trovava.

«La tua è una finta gentilezza a cui non crede nessuno. Perché non dimostri il mostro che sei, invece?» Commentò qualcuno alla sua sinistra, scatenando, come da programma ormai, l'ilarità del vasto pubblico presente. Le stavano portando via anche l'unica caratteristica della sua personalità che le piacesse davvero.

Con il tempo, ella aveva imparato a dimostrarsi cordiale e disponibile con chiunque, consapevole di quanto una parola dolce potesse essere più utile rispetto al silenzio. La gentilezza che dimostrava non era fasulla, bensì la combinazione di esperienze diverse e complesse che, incastrate tra loro, presentavano una cosa in comune: la mancanza di tale qualità.

Non si stavano limitando a farla stare male, pugnalarla da ogni angolo. Volevano distruggerla, pezzo per pezzo, fino a quando della giovane non ne sarebbe rimasta nemmeno la polvere. In fondo, a chi importava di lei? Che cosa sarebbe accaduto se, per qualche attimo, fosse svanita nel nulla e tutti si fossero dimenticati della sua esistenza? Perché dover soffrire così, venendo lacerati nell'animo, in una società che non può limitarsi ad accettare chi sei? Ma che deve cambiarti in ogni piccolezza, se non demolirti completamente?

«Smettetela, per favore» domandò un'altra volta Verity, invano. Le lacrime erano scese lungo la gola, arrivando a bagnarle il colletto della maglietta. Ma le parole taglienti continuarono imperterrite, graffiandole lo spirito e affondando nella sua carne innocente.

Mille artigli la stavano afferrando per l'anima, tirandola e giocandoci sadicamente come un bambino con il raggio solare, la lente d'ingrandimento e la formica. Per quanto lei fosse la vittima di tutta quella situazione, in parte non poteva non credere alle loro parole. E se fosse veramente colpa sua? Se avesse davvero causato tutto quell'odio lei, anche se inconsapevolmente? Come poteva rimediare? Faceva fatica perfino a pensare, ogni cosa veniva sormontata e rimpiazzata da quei giudizi. Non era più in grado di distinguere le sue idee dalle loro, si confondevano e fondevano nella sua mente, lasciandola stordita, disorientata.

A un certo punto, si afferrò la testa tra le mani, tentando di tapparsi le orecchie. Non aveva più alcuna intenzione di sentirli, voleva scappare ma le gambe erano ferme, incollate al pavimento. L'unica cosa che le permisero di fare fu quella di cadere a terra, in ginocchio. Verity si sporse in avanti, rannicchiandosi con il viso contro le gambe. Tentò di dire di nuovo un «Smettetela, smettetela, vi prego», ma nessuno le diede ascolto, anzi, contribuì solo ad aumentare le parole negative e ad amplificarle.

Strinse le mani, le orecchie completamente schiacciate contro il cranio, ma era inutile. Le parole laceranti erano in grado di trapassare ogni cosa pur di arrivarle al timpano e, infine, al cervello per elaborarle e processarle. Le gridavano contro ogni oscenità, partendo dal suo corpo imperfetto e giungendo alla sua anima stanca, caratteristica di una personalità esausta. Ridevano, come se stessero ascoltando una barzelletta invece delle lacrime disperate della ragazza. IL cuore era martellante, quasi esplosivo, il respiro rotto e i singhiozzi le scuotevano violentemente il corpo.

Quando arrivò al culmine, senza potersi controllare, Verity gridò: «Basta!»

Intorno a lei scese il silenzio tombale, nessuna voce modificata le stava dicendo qualcosa o ridendo contro. Tuttavia, decise di mantenere gli occhi chiusi e le orecchie tappate, non essendo sicura della situazione in cui si trovava. Potevano benissimo essere rimasti in silenzio, aspettando che lei alzasse lo sguardo per poi ricominciare a riderle in faccia con maggior gusto e ilarità. Si sentiva ferita nel profondo, mille graffi sanguinolenti le stavano ricoprendo l'interno, la parte più sensibile.

Aveva imparato negli anni a sopportare un commento alla volta, ma riceverli tutti insieme era impossibile. Non aveva nemmeno idea di come ribattere, soprattutto perché erano in troppi ed erano in grado di sovrastarla. Che cosa poteva dirgli? Che non era vero? Che non era affatto come la stavano dipingendo? Così le avrebbero dato anche della bugiarda? Troppi dubbi le affollavano la mente, da ciò che era appena accaduto alla situazione in cui era. Perché la sua mente era così malata da elaborare quell'incubo così realistico? Che cosa voleva il suo inconscio, che ancora non era stata in grado di percepire? Tante domande ma nessuna risposta. Non era neanche convinta di volerne trovare una, troppo impaurita da quale sarebbe potuta essere.

«Stai tranquilla, se ne sono andati» le mormorò una voce maschile, a poca distanza da lei. La ragazza sussultò udendolo, allentando la presa sulle orecchie. Era una trappola? Avevano deciso di trarla in inganno, in modo tale da poter vedere la devastazione sul suo viso? Le dolevano gli occhi per la quantità di lacrime che aveva versato, non era nemmeno convinta di averne ancora. «Verity, ti prometto che non ti succederà nulla, veramente» insistette l'altro, notando che la giovane non rispondeva o dava segni di aver capito.

La ragazza, sentendo il suo nome e il modo dolce in cui le aveva parlato, non poté resistere dall'alzarsi di scatto, le mani che lentamente scivolavano sul grembo dalla testa. Il ragazzo di fronte le stava rivolgendo un sorriso dolce, gentile.

I capelli del colore del cioccolato formavano una frangetta, per nulla compatta, arrivando fino agli occhi, i quali erano del colore del caramello. Parevano essere quasi fusi, liquidi all'interno del contorno delle iridi. I vestiti, totalmente intatti rispetto a quelli logori delle persone senza volto di poco prima, passavano da una sfumatura più chiara di marrone a una più scura, avvicinandosi ai due estremi, il bianco e il nero. Le labbra erano leggermente carnose e il suo sguardo trasmetteva simpatia, felicità e spensieratezza.

La cosa che colpì di più Verity, tuttavia, fu la forte aurea che lo avvolgeva: un calore intenso le scaldava la pelle, donandole una sensazione di pace e calma in pochi istanti, senza nemmeno darle il tempo di elaborare il tutto.

Non le ci volle molto prima di intuire che era lui il Guardiano che stava cercando. Sentendosi al sicuro, fuori da ogni pericolo, la ragazza si osservò intorno, in modo tale di capire dove fosse finita.

Credeva alle parole dell'altro, sapeva perfettamente che non le avrebbe fatto alcun male. Il suo compito era quello di aiutarla e guidarla, non provocarle ulteriore dolore o paura, esattamente come Tae e Liam le avevano costantemente ripetuto.

Realizzò di trovarsi in un'ambientazione in legno di mogano, un quadrato perfetto completamente spoglio. All'interno, infatti, non c'era né un mobilio e tantomeno dei quadri che decorassero un minimo l'abitazione, lasciandola spoglia e anonima. L'illuminazione, come per le volte precedenti, non aveva una provenienza precisa, un punto da cui partiva e si diramava, eppure si vedeva tutto perfettamente. Distingueva la differenza tra la pelle diafana e le tonalità del marrone del ragazzo davanti a lei, così come riusciva a riconoscere le diverse sfumature presenti.

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