Capitolo 1

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La vita a New York non era poi così male; tranne per il traffico, lo odiavo. Nonostante vivessi lì da poco più di cinque anni, cercavo di sopravvivere in qualche modo a quella bolgia di persone.

La folla si muoveva troppo velocemente per i miei gusti o, semplicemente, ero io troppo lenta per la società. I loro ritmi mi mandavano davvero in confusione.

Sul marciapiede mi ritrovavo sempre circondata da sguardi persi e sentimenti spenti dalla routine. Provavo a non farmi sopprimere dalla popolazione che sembrava essere tutta uguale.

Camminavo dritta, tentando di non urtare qualcosa o qualcuno intorno a me. Era mattinata inoltrata; sentivo lo stomaco brontolare, mentre mi dirigevo a lavoro.

Fra le mani avevo delle scatole di tutte le dimensioni e cercavo di farle arrivare fino al negozio. A stento, riuscivo a vedere la strada davanti a me. Ero tremendamente preoccupata del fatto che, fra quelle cose, il mio pranzo potesse finire a terra.

La mia attenzione si spostò sul mio capo: piccoli fiocchetti bianchi cadevano dal cielo. La neve mi metteva sempre di buon umore perché, significava, che il Natale si stava avvicinando sempre più.

Mi fermai per godermi quell'attimo notando come, ogni negozio sulla strada, si stava preparando al grande giorno. Festoni, lucine, palline colorate; come poteva non essere il periodo migliore dell'anno?

Scossi la testa, provando a riprendermi. Ero in ritardo, non potevo perdermi fra i miei pensieri.
Ero arrivata sul ciglio della strada; dall'altra parte, c'era la gioielleria dove lavoravo, ma qualcosa mi fermò nell'attraversare.

Sentii vibrare il cellulare nella tasca del giaccone, facendomi sobbalzare. A stento, cercai di raggiungerlo con una mano, provando a non buttar tutto sull'asfalto. Lo afferrai velocemente, prima che potesse smettere di suonare.

«Pronto? Zia Jean?» esclamai, portando il telefono sulla spalla. Sorreggere tutti quei pacchi, e il mio cibo, non era poi così semplice con un braccio soltanto.

«Dove sei?» ringhiò dall'altra parte del capo, «Sei in ritardo di cinque minuti!» aggiunse, facendo squillare la voce.

Alzai gli occhi al cielo, era così pignola.

«Scusami zia, il corso ha ritardato un po' questa mattina...» Provai a spiegare, «Sto arrivando, dammi due secondi.» continuai, prima di mettere giù.

Infilai lo smartphone nel giubbotto e saldai la presa sulle scatole. Prima di incamminarmi nella giungla newyorkese, guardai il semaforo dei pedoni per attraversare. Quando indicò il verde, mi precipitai ad arrivare sull'altro marciapiede.

Pensavo non ci fosse nessuno, invece, un ciclista a tutta velocità, mi tagliò la strada facendomi agitare.

«Brutto stronzo!» sbraitai, raccogliendo i pochi scatoloni che finirono per terra. Fortunatamente il mio pranzo era ancora intatto. «Il semaforo rosso vale anche per te!» esclamai, agitando una mano verso di lui che se ne andò indisturbato.

«Ma come si fa?» commentai ad alta voce, mentre raccoglievo gli oggetti da terra. «Per fortuna che mi sono fermata in tempo. Si può morire per via di un ciclista?»

Cercavo di sbollentare la rabbia, prima di arrivare da mia zia. L'esercizio era a una decina di minuti dal college e riuscivo ad arrivare lì in tempo. Ma quel giorno, il mio capo, ovvero mia zia, mi aveva mandata a fare una commissione: comprare delle scatole di varie misure. Non riuscivo a capire a cosa potessero servirle; aveva sempre idee strampalate.

Quando arrivai davanti alla vetrina, notai subito la donnina dietro il bancone con sguardo furente. Aprii la porta, facendo risuonare le campanelle su di essa.

«Eccomi qui!» esordii, entrando a stento.

«Oh, sì!» esclamò mia zia, raggiungendomi. Mi strappò di mano tutto quel che avevo, posandoli sull'espositore dei gioielli.

«Scusami ancora per il ritardo.» dissi, avvicinandomi a lei. Afferrai la scatola con il panino e presi posto sullo sgabello accanto alla cassa.

Il negozio non era poi così grande, anzi, era anche abbastanza accogliente. La gioielleria apparteneva alla mia famiglia, principalmente di mia zia, la sorella di mia nonna. Lo stile era abbastanza semplice, rimasto così dalla prima apertura del locale. Crema e bianco erano i colori che spiccavano di più, e richiamavano i gioielli in vendita. C'erano pochi espositori, ma belli grandi. La merce, invece, non era molta perché, da lì a poco, mia zia sarebbe andata in pensione. Diceva sempre di essersi stufata di stare in contatto con le persone.

«Ancora non pranzi?» Mi guardò, posizionando le mani su i fianchi.

«Ma non ho avuto tempo!» dichiarai, agitandomi sulla sedia. «Ho terminato la lezione, il tempo di passare al negozio di casalinghi qui vicino e prendere un panino al volo!» spiegai, scartando il pranzo.

«Non raccontare fandonie!» esclamò, agitando un dito di fronte ai miei occhi. «Ti sei laureata lo scorso anno! Quali lezioni?» esclamò esausta.

Un risolio uscii dalla mia bocca, «Il corso per l'abilitazione!» dissi, tornando in me. «Quello per diventare psicologa a tutti gli effetti!» spiegai superficialmente.

Mi osservò, scosse la testa sconcertata, per poi sparire nello sgabuzzino.

Rimasi sola, mentre addentavo l'hamburger del locale vicino. L'albero di Natale mi aveva ipnotizzata, era così grande per una stanza così piccola. La punta arrivava, quasi, al soffitto e le palline natalizie riprendevano i colori delle pareti.

Finii quel panino in men che non si dica. Se qualcuno avesse visto la scena da fuori, avrebbe pensato che non mangiassi da mesi.

«Devi aiutarmi!» esordì la donna, tornando di nuovo in negozio.

Aveva il passo veloce, non si diceva vista la sua altezza. In confronto a mia nonna, lei era più alta, quasi come me. Era magra e sempre vestita elegantemente. Assomigliava molto a mia madre, più di sua mamma. I capelli, tinti di biondo, erano corti sulle spalle e gli occhi le brillavano celesti sul volto.

«Che succede?» Accartocciai l'involucro, per poi gettarlo nel secchio sotto il tavolo.

Quando la vidi arrivare aveva in mano della carta regalo, più di quanta ne poteva portare.

«A cosa serve?» chiesi scattando in piedi. Mentre si avvicinava perdeva dei rotoli, senza accorgersene, durante il poco tragitto.

Posò, goffamente, il tutto sul bancone accanto alle scatole. Si asciugò la fronte e sospirò, come se avesse trasportato più di dieci chili sulle spalle.

«Che cosa devo fare?» Portai le mani su i fianchi aspettando una risposta.

La donna mi superò, affiancando gli scatoloni. «Dobbiamo incartarli per metterli sotto l'albero.» spiegò, dividendo quelli più grandi da quelle più piccole.

«Ma sono vuote!» esclamai agitando le mani davanti a lei. Che senso aveva tenere regali vuoti in negozio? Avrebbero solo occupato dello spazio utile.

«Per fare scena, ovviamente!» replicò, nervosamente. «Ti pago e devi fare quello che ti dico.» commentò, posando a terra gli oggetti.

Mi arresi alle sue parole, in fondo aveva ragione, mi pagava per stare in negozio e dovevo fare di tutto pur di farlo sembrare chic come voleva lei.

Passammo un intero pomeriggio, fra i clienti, a incartare e tagliare quella carta natalizia; ne avevo fin su i capelli. Ma, dopo un paio di ore, tutto era pronto.

«Vedi?» esclamò la donna, facendomi voltare verso di lei. Era intenta ad osservare i regali appena posizionati sotto l'albero. «Danno un'aria molto più elegante al negozio!» esclamò felice del risultato.

Infatti, non era poi così male l'idea. La carta era scintillante e molto elegante, dando un tocco in più a tutte le altre decorazioni.

Le sorrisi semplicemente, prima di buttar via tutti gli scarti rimanenti delle scatole e del resto utilizzato.

Lavorare in una gioielleria non era poi così stancante, tranne nel periodo di Natale. La gente andava e veniva dal negozio, guardavano le vetrine con gli oggetti in esposizione, ma la maggior parte non comprava nulla; oppure, veniva senza una minima idea di cosa prendere.

La situazione che non mi andava giù era quando c'erano delle coppiette felici in cerca di fedine. Inseguivano ciò che volevo io, però con più successo di me.

Nonostante passarono anni da quando cambiai città, il passato mi tormentava più di ogni altra cosa. Ogni giorno mi chiedevo se fosse davvero la realtà o se fossi ancora in coma; inoltre, speravo con tutto il cuore di rivedere Ryan, addirittura James. Ma sapevo che entrambi non sarebbero mai più tornati nella mia vita: il primo perché, purtroppo, non esisteva e il secondo perché gli avevo vietato di contattarmi o, semplicemente, di raggiungermi a New York.

Avevo il dubbio che mia madre fosse ancora in contatto con lui, ma mi aveva assicurato che i miei fossero soltanto supposizioni basate sul nulla.

Ma ormai avevo venticinque anni, non avevo nessuno al mio fianco. Perfino durante gli anni del college cercai di non legarmi a nessuno. Non volevo finire come nella realtà del mio coma: presa in giro.

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