Overdose

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Timothy Wright non aveva mai avuto la sua età.

Nei suoi ventisei anni non era mai riuscito ad essere felice, o, banalmente, a realizzare uno solo dei suoi desideri. Non era mai riuscito a mollare tutto, prendere la chitarra, la macchina, i suoi pochi risparmi e andare in America con Brian.

Non aveva mai potuto e Brian era morto.

Sì, dannatamente morto. Ed era stato lui ad ucciderlo. Aveva avuto il coraggio di guardarlo negli occhi mentre lo spingeva giù da una finestra e, prima che potesse rendersi conto del suo gesto, Brian, qualche metro sotto di lui, era già accasciato sul pavimento impolverato. Freddo, immobile, con gli arti distorti in una posizione innaturale. Per fortuna - e si sentiva un idiota nel pensarlo - probabilmente non aveva neanche sofferto: l'impatto era stato talmente forte che doveva essere morto sul colpo.

Non passava giorno in cui Tim non rivivesse quella scena terribilmente vivida nella sua mente e non provasse odio verso se stesso. Odio, rabbia e un'infinita delusione: si faceva letteralmente schifo. Era riuscito ad uccidere l'unica persona che gli avesse mai davvero voluto bene, che lo avesse sempre fatto sentire normale, nonostante tutto, e che gli era stato sempre accanto.

Dopo il ricovero nell'ospedale psichiatrico, così come per tutta la sua vita, Brian era stata la sua guida, il suo porto sicuro, un fratello e il suo migliore amico. Si erano sempre aiutati e sostenuti a vicenda, fidandosi ciecamente l'uno dell'altro. Così diversi eppure così uguali, indissolubilmente legati dal medesimo, crudele destino.

Entrambi vivevano in un incubo, ma ancorati alla realtà dalla consapevolezza che non sarebbero mai stati liberi, che sarebbero morti in una condizione di perenne schiavitù al servizio dell'Operatore.

Non erano che microscopici e rivoltanti insetti, che infettavano il pianeta con le loro patetiche e inutili esistenze. Avevano avuto la sfortuna di nascere umani, e gli umani sono deboli, totalmente impotenti difronte ad un potere superiore e illimitato. Il gioco preferito dell'Operatore era vederli contorcersi nella pazzia che guastava lentamente ma inesorabilmente le loro menti. E poi, erano cavie perfette per i suoi sadici esperimenti: non finiva mai di meravigliarsi del modo in cui reagivano ai diversi stimoli. Visioni, insonnia, paranoia, odio, depressione, autocommiserazione... così nulli e al contempo snervantemente tenaci, ricolmi di sentimenti a lui sconosciuti e a cui si aggrappavano nel disperato tentativo di rimanere vivi, di non perdere ciò che li rendeva effettivamente umani, nonostante il vuoto che li divorasse dall'interno.

Ma Brian non c'era più e Tim sperava fosse solo in un posto migliore, finalmente libero. Lui invece no, lui c'era ancora, condannato a scontare la propria pena tra i vivi, in un inferno che era il mondo in cui viveva.

Aveva appena avuto un altro attacco di panico, nel bagno del suo appartamento. Era buio e disordinato, spoglio e triste proprio come lui, e nonostante fosse un buco, riusciva a malapena a pagarsi l'affitto. Ad aspettarlo c'erano una montagna di bollette da pagare, posta da ritirare e scatoloni disseminati per il corridoio da sistemare, ma al momento lo stato della casa era l'ultima delle sue preoccupazioni.

L'unica cosa di cui gli importava erano le medicine, quelle che gli erano state prescritte anni prima dal medico e che gli permettevano di sopravvivere, alleviando momentaneamente i disturbi e alimentando una fiammella di lucidità.

La sua intera esistenza ruotava attorno a quello: dolore, pasticche e tanto, tanto fumo. Le lancette del suo orologio erano rappresentate da una sigaretta, di cui puntualmente riusciva a bruciare il filtro. Tim sapeva che fumare faceva male e probabilmente le persone che glielo avevano ripetuto erano più di quelle realmente interessate alla sua condizione.

Complice il momentaneo rilassamento, forse era proprio la speranza che il fumo lo uccidesse prima di qualcun altro, che lo spingeva a consumarne pacchetti interi al giorno. E poi, l'idea di un cancro ai polmoni non lo spaventava così tanto: un male che lo distruggesse dall'interno, impedendogli di respirare e di vivere, lo aveva sempre avuto, fin da bambino.

Nonostante fossero gli odiati compagni di una vita intera, non era mai stato facile affrontare, né tanto meno accettare la schizofrenia, gli attacchi di panico, le allucinazioni e, soprattutto, la convivenza forzata in un unico corpo con Masky. Era una vera e propria agonia dover trascinare avanti assieme a lui un'esistenza che entrambi, probabilmente, avrebbero volentieri accartocciato e gettato tra le fiamme, finché anche dell'ultimo, ardente e crepitante ricordo non fosse rimasto solo un anonimo soffio di fumo.

Capitava spesso che, improvvisamente, fosse Masky a prendere il sopravvento e che si prostrasse senza indugio difronte all'Operatore, pronto a servirlo tingendosi le mani - le stesse mani che appartenevano anche a Tim - del sangue di qualche innocente. D'altra parte, in quei momenti, Timothy si ritrovava annullato: non sapeva cosa succedesse quando non era lui al comando e ormai aveva perso il conto delle volte in cui si era ritrovato di colpo in un luogo sconosciuto, lontano dalla sua casa e da tutto ciò che gli era familiare.

In quei momenti di puro terrore, le sue dita tremanti scivolavano automaticamente su un numero della sua rubrica, affiancato da un volto rassicurante, e Brian, in un modo o nell'altro, che fossero le tre di notte o che il vento si aggrappasse con rabbia alle ossa e le graffiasse con i suoi artigli di rami spezzati, riusciva sempre a trovarlo.

Lo faceva salire in macchina e gli incatenava addosso lo sguardo di chi, se avesse potuto, si sarebbe accorpato tutte le sue sofferenze. Timothy viveva con la logorante ansia che avrebbe potuto ammazzare qualcuno senza rendersene conto, eppure Brian gli aveva giurato che gli sarebbe restato a fianco con lo stesso sorriso con cui, ai tempi del college, gli aveva fatto capire che non lo avrebbe mai abbandonato.

Ma ora Brian era dannatamente morto ed era stato lui ad ucciderlo.

Timothy si era rassegnato all'idea che, da quel momento in avanti, avrebbe dovuto condividere la propria disgustosa realtà con un uomo che, all'apparenza, era identico a lui: in realtà, il terrore che annacquava i suoi occhi scuri era ben diverso dalla freddezza e dall'inespressività che albergavano in quelli plasticosi di Masky. Aveva l'impressione che lo osservassero costantemente, piatti, pregni dell'angoscia e del distacco chirurgico che solo una maschera poteva trasmettere.

E fu proprio sotto la vuotezza di quello sguardo d'inchiostro, che lo scrutava dal piano di marmo accanto al lavandino, che Tim stappò nuovamente il contenitore di Ibuprofene. Il coperchio si allentò, scivolando gradualmente sotto le sue dita incerte, permettendo all'odore del farmaco di sgusciare oltre la fessura e pizzicargli le narici. Quelle pillole l'avevano salvato tante volte: si augurò che quella sarebbe stata l'ultima, quella decisiva.

Il ragazzo si versò un paio di capsule nel palmo e, senza pensarci, se le gettò in gola, deglutendole senza neanche un goccio d'acqua. Si piegò verso il lavabo, sbuffando sonoramente e mordendo le sue stesse imprecazioni: non sarebbe più potuto tornare indietro, ma tanto cosa rischiava di perdere? Qualcun altro, al suo posto, avrebbe avuto la coscienza scavata dalle lacrime che i suoi affetti sarebbero stati costretti ad ingoiare per, magari, dei giorni. Lui, da questo punto di vista, poteva ritenersi fortunato: Brian non ne avrebbe dovuta versare nemmeno una, quella volta.

Incontrò un'ultima volta i propri occhi riflessi nello specchio, spenti e cerchiati di nero, e allungò nuovamente le dita verso il contenitore in plastica arancione, vuoto per metà. Non si era mai domandato cosa ci fosse dopo la morte o se si percepisse qualcosa, o almeno non con la stessa smaniosa curiosità che era certo appartenesse ai più. Magari qualcuno aveva anche trovato delle risposte proprio per merito suo e riteneva incoerente temere qualcosa che lui stesso aveva causato innumerevoli volte.

Con un ultimo sospiro, la scatola si svuotò in fretta sopra le sue labbra. Passò qualche istante, attendendo con impazienza le conseguenze del suo gesto, con la schiena ricurva sopra il lavandino e gli occhi socchiusi: la stanza aveva iniziato a girare e il martellare del cuore nelle tempie era incredibilmente fastidioso. Ebbe l'impressione di barcollare e dovette aggrapparsi più saldamente per non scivolare, ma realizzò con stupore che la sua presa si era fatta più debole rispetto a pochi minuti prima.

Un attimo, e le sue dita abbandonarono completamente il marmo lucido, illuminato dal led sopra lo specchio.

Timothy crollò sul pavimento, il barattolo arancione ancora adagiato sul palmo e la maschera al suo posto.

Forse ora avrebbe potuto guardare al passato con la leggerezza d'animo di chi sa che è tutto finito.

Doveva solo sperare di non finire all'Inferno.

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