10. Casa è felicità

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Your home is where you're happy

Charles Manson

Non sono nel luogo in cui dovrei e vorrei essere, non è questo il mio posto, non sono fatta per stare qui in un paese piccolo e in Italia, non è il luogo, lo Stato e il Paese nel quale ho scelto di stare, tra persone che non hanno i miei stessi interessi, a eccezione delle uniche quattro amiche, Leila, Caterina, Eileen e Ilse che mi erano state vicine nel momento del bisogno e con le quali spesso mi confrontavo, ma che non incontravo così spesso per impegni lavorativi o di altro genere.

Sono uno spirito libero, dicevo, che ha bisogno di spazio, musica di mio gusto, concerti, festival, danza, eventi di vario genere culturale e che ha bisogno di viaggiare e di essere indipendente e inserita in culture diverse; sono come un uccello, o almeno lo ero, libera, come dichiarava il mio nome stesso. Sentendosi dire questo, mia madre annuiva in silenzio, arricciando le labbra, sapeva di non potermi trattenere con lei, prima o poi bisogna lasciar andare i propri figli e lasciarli vivere la vita con le proprie forze e responsabilità.

Welcome Home -  Radical Face

Here, beneath my lungs

I feel your thumbs

Press into my skin again

qui, sotto i miei polmoni,

sento i tuoi pollici

premere nella mia pelle, di nuovo

Benvenuto a casa - Radical Face

Per me la musica è davvero importante, provengo da una famiglia legata nel profondo a essa, mio zio è accordatore di pianoforti, mio nonno era flautista nella radio di Baden-Baden e mia madre suona il pianoforte e la fisarmonica, io suono l'ukulele, il piano, canto e mi diletto nella musiva elettronica, il mio ex ragazzo mi aveva fatto conoscere molti artisti di musica contemporanea di questo genere, come anche ambient e indie, gli stili di musica che preferisco.  Era così che ci eravamo avvicinati, ma da quando non stavamo più insieme avevo smesso di ascoltarla costantemente, forse perché me lo ricordava o forse perché dopo essere stata lasciata avevo perso il gusto e il fascino di ascoltare ciò che mi legava inesorabilmente a lui. Avevo per questo iniziato ad apprezzare artisti diversi come Sufjan Stevens, l'autore della colonna sonora del mio film preferito, Call me by Your Name, per me un inno poetico all'amore. 

La mia famiglia "soffre" si sinestesia, vediamo colori nei suoni o in breve, vediamo la musica a colori. Io l'ho ereditato da mia madre, come lei e suo fratello da mio nonno. Potrei dirvi che il do è un blu scuro, mentre un si un bordeaux come il vino e il la come un bianco crema tendente al celeste. Nel mio nome, Liberta, ci vedo bianco, giallo e celeste, con una punta di marrone dettata dalla "t": in poche parole nel mio nome ci vedo il mare. E in Gabriel? Azzurro marino, tendente al turchese dettato dalla "G", giallo della "A" come il sole di marzo e bianco tendente al celeste della "L", come un occhio o una spiaggia caraibica.

Il mio compleanno si avvicinava e presto sarei diventata trentenne, che traguardo, ma si è giovani finché ci si sente tali e io dopotutto mi percepivo ancora come una ventenne; cominciai a ridere mentre ci pensavo. Intanto continuavo a non vedere l'ora di tornare a Lipsia per rincontrare Gabriel, sempre che ancora lavorasse in quella stessa clinica. Un giorno decisi di chiamare per chiedere di lui, ma gli infermieri, che rispondevano al telefono, erano circospetti e insicuri e continuavano a dire che non era a lavoro. Pensai che non me lo volessero passare. Fu così che decisi di mandargli una cartolina del lago del mio paese, invitandolo a venire alla festa del mio compleanno, e la spedii al suo nome in clinica, non avendo alcun suo contatto o indirizzo e conoscendo solo il quartiere in cui viveva. Non ricevetti mai una risposta, come previsto. Avevo fatto i conti con la possibilità di non averne una.

La riabilitazione procedeva a gonfie vele, ormai riuscivo a muovermi e a camminare da sola in stampella, forse anche grazie al forte desiderio di tornare in clinica a gennaio camminando, coronavirus permettendo. Avevo uno scopo e un traguardo da raggiungere che mi erano cari, volevo più di ogni altra cosa apparire normale agli occhi di Gabriel, desideravo che mi osservasse con occhi diversi, non più come una paziente e una malata da accudire, ma come una donna sana, forte e determinata a conquistarlo. Sapevo di essere stata una disabile, ma lui mi aveva ugualmente notata e perché allora non farlo adesso che ero in forma e vigorosa? Non so cosa mi aspettassi allora. Che mi prendesse per mano e fuggisse via con me? Magari su un cavallo bianco? Non lo nego, ci avevo pensato e speravo in un'azione simile, qualcosa per il quale valesse la pena lottare. D'altronde non è questo che si fa per amore? Combattere per i propri sentimenti?

Intanto in Italia arrivò il brutto tempo, pioveva continuamente e tirava un forte vento da nord. Continuavo a esercitarmi con tanto impegno, i fisioterapisti venivano tutti i giorni a farmi terapia, passai dal bastone quadripode alla stampella canadese e questo fu un grande progresso: inizialmente facevo quattro passi, poi otto, dieci, poi smisi di contarli, perché non fu più necessario.

Il mese successivo avrei compiuto trent'anni ed era in programma una grande festa, virus permettendo.

Adesso ero in riva al mare e dipingevo uccelli e ritratti. Stavo lavorando su un ritratto, ad acquarelli, del mio ex ragazzo, glielo avrei inviato appena finito insieme alle foto analogiche dei viaggi passati fatti assieme, una volta sviluppate. 

Non lo feci mai.

Ero in un periodo particolare della vita, passavo da attimi di gioia irrefrenabile a momenti di depressione prorompente, fino a emozioni forti che mi commuovevano dovuti al mio stato di assenza dalla vita, forse perché avevo smesso di prendere alcuni antidepressivi e psicofarmaci. Stavo seduta ancora in sedia a rotelle, quando dovevamo camminare per lunghi tragitti o su strade sconnesse, erano due anni ormai.

«Non abituartici, tu camminerai di nuovo!» esclamava convinta mia madre, dandomi coraggio e conforto. Ora vi era un unico traguardo da raggiungere: l'autonomia e la libertà che mi avrebbero resa indipendente. Era l'ultimo grande sforzo da compiere prima della fine di questo interminabile incubo.

C'era un segreto che custodivo dentro di me e che non avevo mai confidato a nessuno: mi sentivo colpevole per la morte di mio padre. Poco prima di lui era deceduta la migliore amica di mia madre, Paula, per via di un cancro. Aveva tre figlie, una delle quali, Leila che ha un anno in meno di me. Alla morte della madre, avevo pensato a che sensazione sarebbe stata perdere mio padre, ci pensai intensamente come fosse successo sul serio e avevo sperato quasi accadesse per davvero, solo per ricevere le attenzioni dei conoscenti.

Così era accaduto.

Era morto la settimana successiva per via di un infarto fulminante. Avevo solamente diciannove anni. Era stata colpa mia? Di solito non credevo a questo genere di cose, ma la sua morte mi aveva presa così alla sprovvista da spingermi a chiedermi se fosse stata davvero mia la colpa o se avessi attirato la sfortuna. Potevo far accadere dei fatti con la forza del pensiero?

Era successo una sera di fine gennaio, il ventinove, la mattina successiva all'accaduto venne mia madre a Roma , dove vivevo per studiare, accompagnata da un amico di famiglia. Lei aveva una faccia distrutta e uno sguardo vuoto. «Che ci fai qui? Cos'è successo?» domandai preoccupata e con gli occhi sbarrati.

«Fammi entrare, accomodiamoci» asserì come un fantasma e con voce rotta.

Dal suo tono  capii subito che fosse successo qualcosa di grave. Entrammo e mia madre mi fece sedere sul letto, mi prese la mano poi disse: «Papà sta male, è in ospedale». deglutii rumorosamente. poi le domandai:

«Oddio, come sta? Che gli è successo?»

Lei iniziò a piangere.

«Papà è morto, Liberta, ha avuto un infarto» mi crollò il mondo addosso, mi sembrava inverosimile, mi strinse forte a sé e piansi ogni lacrima che avevo in corpo e riuscii a smettere solo due ore dopo quando arrivammo a casa. Non mi ero mai sentita più triste. Stavo male, mi veniva da vomitare. Perché la vita era stata cattiva con me? A volte mi chiedo quale sia stata l'ultima cosa che gli abbia detto e spero sempre che sia qualcosa di dolce, ma sono sicura di non avergli confessato di volergli bene, perché me ne ricorderei. Ecco cosa consiglio dunque, esprimete sempre affetto e amore affinché il prossimo ne sia sempre al corrente!

Soffrii molto la sua mancanza. Non andavo mai al cimitero a portargli dei fiori o per andarlo a trovare, troppe scale e poche rampe per la sedia a rotelle, mi metteva tanta tristezza, il cimitero dove era sepolto non era bello come un parco, ma per lo più tutto in cemento, dava la sensazione di freddo e poca accoglienza, non che quel luogo possa esserlo, accogliente intendo. Ogni tanto mi vedevo i film che ci guardavamo insieme, giusto per sentirmi di nuovo vicina a lui.
Preferivo ricordarmi di lui da vivo e non come un cadavere freddo e bianco in viso come quando andai a salutarlo nella camera mortuaria. Strano, vedendolo in viso, notavo delle piccole rughe al lato degli occhi e le labbra leggermente incurvate ai lati, come stesse sorridendo. Non sembrava neanche essere morto, piuttosto sembrava stesse dormendo.

"Fa che mi accada qualcosa di brutto, così James tornerà da me", era stato il mio unico pensiero quando lui mi aveva lasciata, ma egli non lo aveva fatto. Molti penseranno che sono un'ingrata e si, lo ero, non amavo la mia vita, ero continuamente infelice e insoddisfatta ma con gli occhi di adesso penso fosse perfetta, avevo tutto: ero bella, intelligente, sensuale, ballavo, uscivo, ero autonoma e vivevo nella città dei miei sogni. Ero capace di prevedere i fatti brutti? No, li attiravo come una calamita. Anika, un'amica di mia madre, diceva:

«Se chiedi qualcosa o desideri ardentemente qualcosa, l'universo risponde, sempre»

Ma allora perché non reagiva al mio desiderio interminabile di Gabriel? L'universo risponde alle proprie azioni ma non può influenzare quelle altrui. E tantomeno i sentimenti. Forse avrei dovuto iniziare a pensare a cose belle e piacevoli, ai sogni, con positività. Fu così che immaginai spesso il mio ritorno in clinica a Lipsia, cosa sarebbe successo stavolta? Evitai ogni pensiero negativo, mi concentrai sulle speranze e i sogni a occhi aperti. Lo desideravo con tutto il cuore " Lo amerei alla follia, non avrebbe bisogno di cercare amore altrove, farei del tutto per renderlo felice", pensavo tra le nuvole. Fu la notte prima del mio compleanno che lo sognai, camminavamo per Lipsia mano nella mano e andavamo a mangiare in un ristorante giapponese, che sapevo piacesse molto anche a lui, poi improvvisamente finivamo in una camera da letto, ci sdraiavamo l'uno accanto all'altra e cantavamo, io ero io, come prima dell'incidente, bella, perfettamente normale. E lui era lui, bello da togliere il fiato con quei capelli lunghi biondi e le ciglia lunghe, posava la sua grande mano vellutata e calda sulla mia, come per proteggerla e slittava il suo dorso con il pollice in una muta carezza, scaturendomi dei leggeri brividi nella pancia e nel petto. Non successe altro. Mi svegliai quando nel sogno mi addormentai.

La soglia dei trent'anni era arrivata, e per il giorno del mio compleanno mia zia Patrizia aveva preparato una torta al caffè. La sera prima andai a mangiare al ristorante con mia madre, Eileen, Serena e suo marito Giorgio. Tre giorni dopo replicammo i festeggiamenti insieme a Eileen, che aveva compiuto ventisette anni due giorni prima. Per fortuna la diffusione del coronavirus con l'estate e il caldo era diminuita in Italia e nel mondo, così erano state permesse le feste sotto il numero di cento persone. Invitammo circa cinquanta amici nel mio giardino. Mia madre, mia zia e Serena prepararono cibo in abbondanza e una torta al cioccolato enorme; Serena, la migliore amica di mia madre, ed Eileen, in visita da Milano per qualche giorno, si occuparono invece di ciò che occorreva per preparare la pizza nel forno a legna che avevamo in giardino, in pietra, costruito da mio padre.

Io intanto m'interessavo ad accogliere gli invitati, in stampella ma perlomeno in piedi. Al cancello di entrata era stato posizionato un tavolino con disinfettante e innumerevoli mascherine, sulle quali avevo disegnato bocche di vario genere. La sicurezza non era mai troppa e io non dovevo assolutamente infettarmi perché ero ancora debole e sotto l'effetto di medicinali.

I primi invitati arrivarono, muniti di mascherine. Erano del gruppo italiano con il quale un tempo ballavo il lindy hop, poi arrivarono gli amici di Perugia, con i quali avevo condiviso la casa, e in seguito ancora un mio carissimo amico, Fiore, che aveva una tresca con Eileen. Infine arrivarono Leila, la figlia di Paula, con le sue sorelle Gaia e Marzia e i rispettivi ragazzi. Mia madre disse di doversi assentare per un'ora circacon Serena Pensai fosse per il regalo, anche perché Leila ed Eileen facevano le misteriose.

La festa entrò nel vivo, venivano sfornate pizze gustose e croccanti a tempo di musica, che mio zio e io avevamo messo in sottofondo. Sembrava di essere in un film o in un videoclip e non sapevo ancora che alcuni amici avevano portato i loro strumenti per suonare dal vivo. Quando iniziò la jam session si creò un'altra atmosfera colorata, di partecipazione e di gioia: tutti cantavano, c'era anche chi ballava, tutti si riempivano il piatto e il bicchiere di cibo e vino poi mangiavano e bevevano. Fecero un brindisi a me e alla mia guarigione e alzarono il contenitore di spumante in carta.Intanto tornò mia madre, con il sorriso sotto i baffi di chi nasconde qualcosa; aveva portato il mio regalo. Chiese di legare una fascia sui miei occhi.

«Adesso giochiamo a "indovina chi", ci sarà qualcuno di fronte a te e tu dovrai indovinare chi è! Iniziamo!» "Mi farai toccare qualcuno che conosco ma che non vedo da tempo, un uomo, pensi di essere furba, mamma, ma ti prendo in contropiede!" Mi dicevo sorridendo incuriosita.

Ci fu un inaspettato silenzio e io non battei ciglio, rimasi sotto gli occhi di tutti ad aspettare.

Adoravo questi giochi infantili, accarezzai accuratamente la persona davanti a me, toccai i lunghi capelli lisci, la fronte, il mento e gli occhi e dissi con tono sicuro:

«Leila!».

Dovrà pur esserci una sorpresa, però, pensai, quando avevo indovinato ormai un bel po' di persone, e accarezzai un'altra di fronte a me. Aveva i capelli corti ispidi e la barba, stavolta affermai:

«È un uomo, è Fiore!».

Perché non trovo un uomo dai capelli lunghi e le ciglia lunghe? Il gioco continuò finché tutti gli invitati non finirono sotto le mie mani. Cominciavo a pensare che non ci fosse alcuna sorpresa, forse era solo un gioco d'intrattenimento. Ancora due persone e avrei potuto togliermi la benda. Toccai delicatamente prima dei capelli corti, poi un testa rotonda, un collo lungo e delle spalle piccole.

«Serena!».

«Un'ultima persona ancora!» Urlò mia madre sghignazzando eccitata.

Accarezzai i lunghi capelli fini e lisci, delle labbra dalla bella forma, le spalle larghe.

«Di sicuro è una donna, ma è qualcuno che oggi non ho ancora visto...» ipotizzai. «Ora dirò il nome di una persona che non pensavo sarebbe venuta: Dalia!».

Mi tolsi la benda ed era proprio lei, una carissima amica di vecchia data. Ci abbracciammo forte come due amiche che si vogliono tanto bene ma che per vari motivi non si sono più viste.

«Good things come in threes». Non c'è due senza tre, disse lei, e mi rimisi la benda.

Stavolta chi verrà? pensai.

Così accarezzai prima le labbra, fini e familiari, gli occhi piccoli e allungati. Tanti capelli, spessi e lunghi di fronte al viso e corti nella nuca.

È un uomo, pensai. Conosco questo corpo e c'è un'unica maniera per capire se sia davvero lui.

Toccai la spalla sinistra della persona e misi la mano sotto la camicia che indossava.

«Eccola qui, la cicatrice sulla spalla: è James!». No, lui no, mamma...

Mi tolsi la benda, era proprio il mio ex ragazzo che mi baciò all'istante sulle labbra. Era un bacio dolce, come una promessa, da parte dell'uomo del quale ero ancora follemente innamorata, l'uomo per il quale provavo ancora dei forti sentimenti d'affetto e per cui avrei lasciato tutto se solo me lo avesse chiesto. Che fine aveva fatto il nostro amore, così grande, così indistruttibile? Si era frantumato come una ciotola di ceramica caduta a terra, con i pezzi incollati alla bell'e meglio per donargli una forma simile a un'amicizia. Quel bacio cosa significava, dunque? Non lo avevo ancora dimenticato, era un amore che non svaniva dal mio cuore, era ancorato alla mia anima, neanche Gabriel era riuscito a farmelo dimenticare. Si potevano amare due persone contemporaneamente? Ero sicura di sì, altrimenti non si spiegava l'origine dei miei sentimenti.

«Si ama infinitamente» diceva mia madre.

Lo amavo ancora e quel bacio mi aveva confusa, le gambe mi tremavano, mi mordevo le labbra nervosamente.

SPAZIO AUTRICE

Casa è veramente felicità? Liberta si sente sbagliata nel posto in cui è cresciuta... 

Troverà un compromesso? Troverà la sua nuova casa, la sua nuova felicità?

Scopritelo!

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