Capitolo 2

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Pov: Ayla
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Osservo la mia immagine allo specchio, prima di raggiungere Amira in mensa.

I capelli scuri cadono mossi sulle mie spalle, colorando la mia camicia bianca. Gli occhi castani sono contornati da un leggero strato di trucco e le labbra da un lucidalabbra rosato. Sistemo la gonna blu che cade morbida fin sopra il ginocchio e alzo un po' le parigine bianche.

Questa mattina avevo deciso di indossare dei vestiti simili all'uniforme, anch'essa composta dal colore blu e bianco.
Ma ancora non mi è stata fornita, spero in tempo per l'inizio delle lezioni di domani.

Tiro fuori dal colletto della camicia la mia collana e la stringo nel palmo della mano. Ti porto sempre con me mamma.

Sposto dietro l'orecchio alcune ciocche di capelli e poi esco dalla stanza.

Il corridoio si sta riempiendo e la maggior parte degli studenti si dirige in un'unica direzione, quella che credo sia la mensa. Decido di seguire la massa. Amira non mi ha dato alcuna indicazione per raggiungerla e ancora non ci siamo scambiate i numeri di telefono.

Una flotta di ragazzi e ragazze mi accerchiano avanzando nella mia stessa direzione e cerco di camminare a testa alta per non sfigurare in mezzo a loro. Le ragazze sono così belle, sembrano delle caramelle. I ragazzi sono composti, con la camicia e la giacca della divisa.

Proseguo fino al piano di sotto, vicino alle scale una porta aperta con la targhetta "mensa".
La stanza è grande, capiente per tutti gli studenti. È affollata e riempita dal chiacchiericcio dei ragazzi, che mangiano e scherzano tra di loro.

Faccio vagare lo sguardo, spaesata, finché non riconosco una testa bionda che sventola una mano aperta verso di me. Cammino sui miei tacchi fino al tavolo in cui ho riconosciuto Amira e mi fermo al suo fianco.

«Ei ciao!» esordisce non appena le sono accanto.

«Ei» sorrido timidamente, a disagio dagli occhi che mi osservano.

«Puoi sederti qui non noi».

Osservo le altre due ragazze al tavolo: una dai capelli arancioni e l'altra dai capelli castani.

Annuisco, contenta di essermi fatta un'amica già dal mio primo giorno qui.

Mi accomodo accanto a lei e noto che tutte e tre hanno già il loro vassoio pieno di cibo.

«Oh, lì puoi prendere da mangiare. La mensa è aperta dalle 12:00 alle 15:00 e dalle 18:00 alle 20:00», mi indica la pila di vassoi, bicchieri e posate dove iniziare il giro per prendere il cibo dalle vaschette che continuano per una lunga fila parallela, dove gli studenti forniscono i loro piatti.

«Torno subito», sorrido e mi dirigo dove mi è stato indicato.

Mi destreggio tra i tavoli e i ragazzi che mi passano accanto con i loro vassoi strabordanti, attenta a non andare incontro a nessuno.

Prendo un vassoio, ci poggio sopra le posate e un bicchiere e mi metto in fila. Vengo imbottigliata da ragazzi notevolmente più alti di me, ma cerco di concentrarmi sul cibo che ho davanti e non farmi prendere dal panico. Con una pinza prendo dell'insalata, un po' di pasta al pomodoro e quando sto per prendere una di quelle crocchette di pollo che sembrano buonissime qualcuno alla mia destra mi spinge e finisco per urtare l'altra persona alla mia sinistra. Mi giro immediatamente verso chi mi ha spinto, ma riesco soltanto a vedere una testa bionda che scappa via con una mela in mano.

Maleducato.

Mi giro dall'altra parte.

«Scusami».

Mi trovo davanti a degli occhi scuri come la notte. Un ragazzo alto, dai capelli dello stesso colore degli occhi, non sembra nemmeno essersi mosso di un centrimetro dal mio scontro.

«Non fa niente» mi guarda serio, senza accennare a un minimo sorriso di cortesia, lo stesso che piano sparisce dalle mie labbra.

Torna a concentrarsi sul suo cibo, così mi schiarisco la gola e faccio la stessa cosa. Finisco di riempire il mio piatto, prendo dell'acqua e torno al mio posto.

-

«Cos'hai scelto come corso?» mi chiede Amira mentre ci dirigiamo verso l'ala opposta dell'edificio, dove si tengono i corsi extrascolastici, gli sport e i laboratori pomeridiani.

«Il corso di poesia e la pallavolo».

«Anch'io faccio pallavolo, allora ci alleneremo insieme quest'anno».

«Sì, ma adesso devo scappare. Il corso di poesia comincia tra poco. Sai indicarmi dove si tiene?»

«Proprio alla tua destra»

Mi giro ed effettivamente si trova l'aula che stavo cercando.

«Grazie, a dopo».

«A dopo».

Mi allontano dalla ragazza ed entro nell'aula, riempita da alcuni ragazzi che chiacchierano tra di loro. Certuni si girano a guardarmi, altri mi ignorano completamente.

Le sedie sono disposte a cerchio nell'aula quadrata e luminosa, una piacevole luce entra dalle grandi finestre spoglie e si può ammirare il sole che pian piano sta tramondando e rilascia dei raggi arancioni e rossi.

«Buonasera ragazzi, accomodatevi», il professore mi passa accanto e posa la sua tracolla sulla cattedra, per poi accomodarsi in una delle sedie disposte in cerchio.
Gli studenti, circa una decina, seguono il professore e anch'io mi siedo.

«Il semestre è cominciato da un paio di mesi, ma oggi diamo il benvenuto ad una nuova studentessa. La signorina Graves Ayla».

«Benvenuta Ayla, io sono il professore Moore. Vorresti presentarti alla classe? Abitualmente ciò non avviene a lezione, ma questo è un corso di pochi poeti e ci piace ascoltare. Prego». Gli occhi blu del professore mi incitano a fare ciò che mi ha appena chiesto, così schiarisco la voce e mi alzo in piedi, guardandomi attorno a disagio.

«Ehm... Certo. Mi chiamo Ayla, ho vent'anni e mi sono trasferita da Glasgow per continuare qui gli studi. Da quando ero piccola ho sempre amato leggere e scrivere, fin quando non mi sono resa conto di non poter fare a meno di mettere per iscritto i miei pensieri, facendoli diventare arte». Mi fermo non appena, studiando la classe, noto il ragazzo che avevo spinto stamattina. Non potrei dimenticare mai quegli occhi scuri.

Mi guarda con attenzione, senza mai incontrare il mio sguardo attento su di lui.

«Bene, grazie», il professore mi sorride e fa segno di sedermi.

«La settimana scorsa avevo assegnato da scrivere una poesia a piacere» si guarda attorno.

«Einar, vuoi iniziare tu?».

Si rivolge proprio verso il ragazzo di mio interesse.

Einar

Bel nome, particolare.

Fa segno con la testa e comincia a leggere da un blocchetto che ha in mano:

«Ci sono i fiori al posto del vomito,
un vaso viscoso apposito
ai piedi del letto.
Molli le lenzuola penzolano ai bordi
in un insolito groviglio negletto.

Un silenzio terribilmente silenzioso
avvolge la stanza stantia,
dove i pensieri sanguinano
e il fastidioso rumore dell'elettrocardiogramma è l'unica nota sbiadita nell'aria.

Ma nei miei pensieri scendo scalinate di velluto rosso e il mio sangue alle pareti,
nella penombra di una fiamma acerba, è quasi indistinguibile l'acre odore di un corpo in putrefazione.

Questa stanza non ha uscite, mi resta forse la finestra nell'angolo tetro.»


La sua voce avvolge la stanza in una ruvida carezza, graffiando le corde vocali con versi sanguinanti. Resto con il fiato sospeso in gola e non ho potuto fare a meno di fissarlo per tutto il tempo.

Le labbra rosee si muovono accarezzandosi tra di loro, gli occhi scorrono veloci tra le righe, quasi come se volesse incendiare l'inchiostro. I capelli neri gli cadono sulla fronte e le dita costellate di anelli sorreggono il blocchetto soffocandolo.

«Di ispirazione, come sempre. Grazie Einar», il professore interrompe la mia contemplazione e riporto l'attenzione su quest'ultimo, finché Einar alza lo sguardo e lo punta su di me.

Mi sento come quella stanza senza uscite. Devo solo trovare la piccola finestra all'angolo.

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