I. Kahlwild

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N E B E L

I.

Kahlwild



A lungo aveva evitato il contatto umano.

Quando Sonne aveva stretto la mano del nuovo inquilino, un formicolio simile a scintille gli aveva pizzicato il palmo. Si era trattenuto per non ritrarlo bruscamente, forzando un'espressione impassibile.

Richard Weigl aveva solo due valigie con sé, il giorno del trasferimento. Aveva firmato il regolare contratto d'affitto senza nemmeno leggerlo, anzi, aveva presto abbandonato la propria copia sul tavolo della cucina insieme a un pacchetto di sigarette semivuoto. Sonne aveva scoperto che la sua era una grafia frettolosa, appuntita, tranne che per le due iniziali: la R e la W si piegavano in curve morbide, mentre le lettere successive rivelavano un qualche timore sepolto.

«Weigl...» aveva mormorato Sonne con le braccia conserte, appoggiato con una spalla allo stipite della porta di quella che era appena diventata la sua stanza. «Ero convinto che fosse Wagner.»

Richard aveva alzato lo sguardo su di lui per un secondo, poi era tornato a sistemare le sue cose nella cassettiera, con i capelli biondi che gli pendevano sulle guance scavate. Ogni tanto se li portava dietro le orecchie. «No, sempre stato Weigl. Hai la memoria corta per essere uno scrittore.»

Sonne lo aveva fissato senza riuscire a capire che tipo di sentimento stesse prevalendo dentro di lui in quel momento. Il fastidio, forse, per l'invasione di casa sua, o magari il nervosismo, per il tentativo di essere cordiale e rispettare le convenzioni sociali basilari. C'era anche una dose di bonaria comprensione, perché Richard, l'eccentrico e sbandato Richard, si azzardava a fare battute e insinuazioni sugli scrittori senza sapere assolutamente nulla di quel mondo.

Ma era emersa anche la gratitudine, insieme al resto.

Sonne non aveva dimenticato ciò che Richard aveva fatto per lui cinque anni prima.

Non poteva negare a se stesso di averlo scelto, tra i tanti che si erano presentati al suo annuncio, proprio per quello. Era stata una magra consolazione: si trattava pur sempre di un estraneo in casa, il che gli procurava non poco turbamento, ma aver accolto lui piuttosto che qualcun altro gli era sembrata una buona idea, una conseguenza naturale di ciò che avevano condiviso in passato, durante il suo ultimo anno di università. Un unico evento, un unico gesto che li aveva uniti molto più di un'amicizia duratura. Perché il loro era un legame a tutti gli effetti, anche se non si conoscevano per nulla.

Sonne si domandava se Richard lo percepisse allo stesso modo: la prospettiva dell'agente poteva essere del tutto diversa rispetto a quella del ricevente dell'azione. Ma non poteva essere un caso che Richard fosse ricomparso nella sua vita.

Non gli aveva raccontato molto. Non avevano parlato molto. Sonne sapeva soltanto che, dopo aver vagabondato da una città all'altra nel nord-ovest della Germania, Richard, una volta approdato a Brema, aveva trovato per una fortuita coincidenza il suo annuncio sul Weser-Kurier: si affittano due stanze in un appartamento storico nel quartiere di Mitte (Violenstraße, 124), seicento marchi una, settecento la più grande. Si prega di rivolgersi a Sonne Rothberger al numero...

«Ti ho riconosciuto subito. Non conosco nessun altro che si faccia chiamare Sonne. Dovevi essere tu per forza» aveva detto Richard.

Si ricordava di lui, eccome. Nulla era stato cancellato.

E così Richard era piovuto dal cielo, dopo aver abbandonato l'università e la natia Amburgo. Per fuggire, sembrava, da qualcuno o qualcosa. Aveva contattato Sonne in cerca di un luogo sicuro in cui fermarsi: era quel legame a spingerli a fidarsi l'uno dell'altro. Cosa, altrimenti?

Sonne, però, stava ignorando tutto il non detto. In particolare, una costante sensazione di essere in debito con lui, che Richard avrebbe potuto sfruttare a proprio vantaggio, prima o poi. Ammesso che non l'avesse già fatto, quando l'aveva convinto ad abbassare il fitto a cinquecentoventi marchi. Sonne sentiva di essere stato troppo arrendevole. Ma da un certo punto di vista era giusto che Richard gli estorcesse quest'arrendevolezza. Non l'avrebbe concessa a nessun altro.

Di sicuro non al prossimo inquilino.

Due persone, si era detto. Due persone che pagassero l'affitto permettendogli di sopravvivere nei mesi in cui avrebbe scritto il romanzo. Dopo la pubblicazione e l'anticipo della casa editrice avrebbe potuto cacciarle senza alcun rimorso.

Una avrebbe occupato la piccola stanza adiacente alla sua – Richard – e l'altra quella che per anni era stata adibita a camera da letto dei suoi nonni. Sonne aveva mantenuto soltanto il letto matrimoniale, l'armadio, il tappeto intrecciato di lana, e uno specchio verticale con la cornice di legno intarsiato. Ultime reliquie di una casa così solitaria da non vantare neppure dei fantasmi.

Gli ci era voluta un'enorme forza di volontà per cedere quella stanza. Sperava giorno dopo giorno che il secondo estraneo non l'avrebbe insudiciata con la propria presenza.

Quell'appartamento era tutto ciò che gli restava della sua famiglia. L'eredità del padre di sua madre, un nonno che aveva conosciuto poco. Lo diceva il testamento: ogni angolo di quella casa gli apparteneva, e lui aveva fatto in modo di appartenere alla casa con ogni fibra del corpo. Nulla era inesplorato, per lui, al terzo e ultimo piano di quel palazzo alto e stretto risalente al secondo Ottocento, nella Altstadt.

Si era chiesto se la casa avrebbe accolto o rigettato i nuovi inquilini. Si era chiesto se tutto ciò che era suo sarebbe automaticamente diventato anche loro, con un solo sguardo, o un solo tocco.

Aveva vissuto da solo per troppo tempo per ricordarsi di quanto fosse difficile, in realtà, ambientarsi in luoghi sconosciuti, che appartenevano a qualcun altro.

Le sue regole avrebbero certamente costituito un ostacolo.

Ne aveva tante. Quella fondamentale: non entrare mai in camera sua. Non usare mai la cucina dopo ora di cena. Non portare persone in casa, né animali. Non ascoltare musica ad alto volume. Non fumare e non bere – quella che più aveva infastidito Richard.

«Non posso fumare nemmeno in camera mia?» aveva chiesto, aggrottando la fronte, quando Sonne gli aveva parlato di quelle regole.

«No.»

«Sonne... non so come la vedi tu, ma non è una cosa di cui si può fare a meno. È come cagare o pisciare, per me.»

«Puoi sempre cercare un altro appartamento» era stata la sua lapidaria, definitiva risposta.

Richard aveva sospirato stizzito, ma non aveva insistito oltre. Sonne sospettava che fumasse comunque a sua insaputa, spalancando tutte le finestre per far sparire la puzza. Prima o poi avrebbe dovuto annusargli l'alito o i vestiti. Non aveva indagato soltanto perché gli sarebbe dispiaciuto cacciarlo così presto. Richard gli andava a genio, nonostante tutto. Lo incuriosiva.

Forse per le loro evidenti diversità. O forse per l'aspetto magnetico, che sarebbe potuto ricadere sotto l'infelice definizione di ariano, con un viso d'alabastro, duro eppure angelico, complici gli occhi azzurri e i capelli chiarissimi che arrivavano a sfiorargli un punto poco più in basso della mandibola. Con le mani, poi, non stava mai fermo: se le portava di continuo tra i capelli, si grattava la faccia glabra o il collo, svelando un'irrequietezza esistenziale, e così il suo corpo snello dai muscoli appena accennati, come quelli di un adolescente, nervosi sotto la pelle. Sonne poteva non avere una memoria di ferro, ma era un attento osservatore: aveva notato i due o tre tatuaggi sul suo braccio destro, gli orecchini d'acciaio ai lobi, le ginocchia leggermente storte, ad arco, le dita lunghissime da musicista mancato. A completare il quadro, un abbigliamento fatto di camicie colorate, pantaloni aderenti e anfibi.

Sonne sapeva che Richard l'avrebbe ispirato, in qualche modo. La sua presenza avrebbe modificato lo spazio di quella casa e il suo modo di percepirla. La realtà aveva iniziato a dilatarsi, con un corpo in più.

Ma Sonne non era felice di averlo permesso. Consapevole, indubbiamente, ma non felice.

Sacrificare la propria solitudine per sopravvivere non concedeva alcuna gioia, non a una persona che amava la solitudine più della sopravvivenza.




Due settimane dopo la venuta di Richard, la mattina di un martedì piovoso di settembre, Sonne ricevette una chiamata sul telefono di casa.

«Sonne Rothberger?» domandò una voce giovane e un po' incerta dall'altro capo della cornetta.

«Sì, chi parla?»

«Mi chiamo Verena Hartmann, la contatto per la stanza in affitto. Ho visto il suo annuncio sul...»

«Certo, salve. Una delle due stanze è stata già affittata. L'altra è ancora libera, quella da settecento marchi.»

«Uhm... va bene lo stesso.»

C'erano dei rumori di fondo, come provenienti dalla strada. E lo scrosciare della pioggia, che in parte comprometteva la conversazione. Sonne capì che la ragazza stava chiamando da una cabina telefonica.

«Può venire a vederla giovedì o venerdì, se vuole» le disse.

Lei esitò. «Non potrei passare oggi stesso? Più tardi, nel pomeriggio?»

Sonne fu tentato di risponderle che era impegnato. Aveva sempre stabilito lui gli appuntamenti, come ogni altra cosa. Gli estranei non avevano il diritto di presentarsi quando e come volevano, in casa sua. Ma la limpidezza di quella voce l'aveva turbato. Era la prima volta che una donna lo chiamava per l'appartamento. Sonne aveva dato per scontato che una donna non volesse condividere i propri spazi con due uomini, per di più sconosciuti.

«Domani non le è possibile?» le chiese.

La ragazza tentennò ancora una volta. «Senta... non sono di queste parti. Dovrei pagare una notte in albergo solo per venire a vedere la stanza domani. Le prometto che non ci metterò molto.»

Sonne strinse il telefono nella mano con maggior forza, senza accorgersene. «Va bene. Conosce l'indirizzo.» Attaccò la chiamata senza alcun cenno di saluto, né tantomeno di benevolenza.

Una donna in casa. Il solo pensiero lo metteva a disagio. Probabilmente l'avrebbe invitata a non ripresentarsi, così come era successo con gli ultimi due interessati dopo Richard. Uno, un trentenne squattrinato, aveva insistito per portare il cane con sé, l'altro, più vecchio e di gran lunga più stupido, appena sfrattato dalla moglie, l'aveva esplicitamente insultato quando gli aveva parlato delle regole. E adesso si presentava lei, proveniente da chissà dove, in cerca di una stanza chissà per quale ragione. Sonne supponeva che fosse una studentessa universitaria. Non era un'informazione positiva: nessuna fonte di reddito, nessuna sicurezza sui pagamenti dell'affitto. Senza contare che quelle giovani come lei avevano soltanto voglia di divertirsi e fare casino.

Richard entrò in quel momento in salotto, uscendo dalla sua stanza. Gli aloni violacei sotto gli occhi suggerivano che non aveva dormito molto, come sempre. «Buongiorno» disse con voce impastata, passandosi una mano tra i capelli. «Altri rompicoglioni in arrivo?»

Sonne si sedette sul divano, sovrappensiero. «Una ragazza. Passa a vedere la stanza più tardi.»

Richard si piazzò accanto a lui con un tonfo. «Una femmina?» Sorrise sarcasticamente tra sé. «Questo potrebbe essere un bel colpo di scena.»

«Le probabilità che la faccia restare sono molto basse.»

Richard gli rivolse un'occhiata un po' divertita e un po' esterrefatta. «Cos'è questa discriminazione a priori?»

«Non mi è piaciuta la sua insistenza.»

L'altro reclinò la testa sulla spalliera del divano. «Guarda che a furia di rifiutare le persone quella stanza resterà vuota. E così il tuo portafogli.»

Sonne lo guardò gelido. «A proposito, Richard. Come prosegue con il lavoro?»

«Ho un colloquio domani al nuovo Penny Market nella Neustadt. Grazie per l'interessamento.»

Subito dopo calò il silenzio.

Sonne rifletté che il primo periodo di convivenza tra loro era andato discretamente bene, ma finché Richard non avesse trovato lavoro come gli aveva promesso non poteva fidarsi completamente di lui, non per quanto riguardava l'affitto. La fiducia non bastava, non sarebbe mai bastata. Aveva venduto l'intimità di quella casa per denaro, non per misericordia.

In quel momento tornò con urgenza il bisogno di stare solo, come una pressione schiacciante sulla cassa toracica.




Verena Hartmann bussò alla sua porta alle cinque del pomeriggio.

Sonne andò ad aprire di malavoglia, muovendosi con gesti bruschi. Girò la chiave nella serratura quattro volte come se stesse sparando quattro proiettili con una rivoltella.

E la ragazza dall'altro lato della porta forse ne ricevette le ferite, perché non appena la aprì Sonne vide che stava piangendo.

Vide le scie parallele di lacrime che le erano precipitate sulle guance. Vide un volto magro, spaesato, che gli ricordò subito quello di un cerbiatto, animalesco più che umano: gli occhi grandi e lucidi, a metà tra il castano e il verde, di qualcuno che non immagina nemmeno quanto il mondo possa essere crudele. E così i suoi cacciatori, che muoiono dalla voglia di sopprimere tanta selvatichezza.

Verena dovette alzare il capo per incontrare il suo sguardo, qualche spanna più in alto.

Smise di piangere in quell'esatto istante.

Lo scrutò con un'espressione meravigliata, e si calmò. Le sue spalle si rilassarono sotto il peso dello zaino che portava, la bocca si schiuse non per dire qualcosa ma per rilasciare un respiro lieve.

Sonne rimase interdetto nel rettangolo aperto della porta. Non riuscì a decifrarla. Non capì nemmeno perché, a differenza di chiunque altro, non sembrasse colpita dal suo aspetto, neanche un po'. Di solito tutti quelli che lo vedevano per la prima volta facevano dei commenti su quanto fosse alto e massiccio, quasi mostruoso, o lasciavano intendere con il linguaggio del corpo il proprio disgusto. Lei invece lo stava fissando, sì, ma non per quello. Lo stava guardando negli occhi, ed era proprio lì che aveva trovato l'antidoto alle sue paure. Paure che apparentemente venivano dal mondo di fuori.

Sonne fece un passo indietro per farla entrare. «Verena, presumo.»

Lei non si asciugò le guance. «Sì. Lei è Sonne?»

Lui annuì, osservandola mentre avanzava nel salotto e si guardava intorno. Era alta, con un fisico snello ben nascosto dai jeans a gamba ampia e un maglione vecchio e slargato. I capelli castano chiaro, spettinati e folti, le arrivavano a metà schiena e si erano impigliati nelle bretelle dello zaino. Aveva varcato la soglia di quell'appartamento come se stesse entrando in una chiesa, con somma religiosità. Sonne era stato la sua apparizione divina.

«Mi perdoni per il disturbo, ma avevo bisogno di vedere la stanza il prima possibile» disse, con una voce più seria e adulta di quella che Sonne aveva sentito la mattina, ma ancora un po' incrinata dal pianto. Non aveva alcuna cadenza particolare, come se il suo tedesco fosse senza accento.

«Ha detto che non è di Brema» ribatté lui, nell'unico slancio di conversazione che avrebbe fatto. «Da dove viene?»

«Dal sud. Una cittadina del Baden-Württemberg, vicino la Foresta Nera» rispose lei distrattamente, perché catturata dai quadri e dalle fotografie appese alle pareti. In particolare, si soffermò sulle repliche dei disegni di Leonardo incorniciati in un'unica, ampia cornice. «Quelli da dove vengono? Sono fedelissimi agli originali» chiese, indicandoli e guardando soprattutto quello in cui un feto se ne stava rannicchiato nell'utero materno.

«Sono copie realizzate da mio nonno. Era un appassionato di Leonardo.»

«Sono bellissimi.» Verena sorrise gentilmente e poi spostò lo sguardo sugli altri oggetti nella stanza, alquanto buia per l'assenza di finestre. Due lampade alte agli angoli opposti, dalla luce giallastra, erano sempre accese per questo motivo, anche di giorno. Il pavimento era un parquet sbiadito, e gran parte dei mobili richiamava il colore di quel legno, scuro e freddo: il tavolino basso tra il divano e le due poltrone, la cassapanca in cui Sonne teneva coperte e piumoni, la consolle su cui era appoggiato un televisore rétro. Un'intera parete, quella che separava le porte di Sonne e Richard, era occupata da una libreria che toccava il soffitto, stracolma di volumi rilegati. Un'altra parete era per gran parte aperta da un arco che dava sulla cucina.

Sonne iniziò a spostarsi, per mostrarle l'essenziale. Ormai praticava quella strana danza da qualche mese, in cerca dell'inquilino giusto. Eppure adesso, con Verena, sentiva di provare una punta di disagio. Come se non volesse che la casa venisse giudicata da lei. «Tutto questo spazio è condiviso. Può usare il salotto quando vuole, a patto che la televisione venga accesa soltanto di pomeriggio. Di mattina o di sera lavoro e ho bisogno di concentrazione.»

«Lei è uno scrittore, giusto?»

Non fece in tempo a rispondere, che dietro di loro comparve Richard, con un sorriso sornione. «Non saprei. Secondo me fa finta di esserlo» disse al posto suo. «E, ti prego, dagli del tu. È più giovane di quanto sembri, ma è anche troppo educato per fartelo notare.»

Verena si voltò verso di lui e accettò con un sorriso la mano che le stava tendendo per presentarsi. «L'altro inquilino, immagino.»

«Richard Weigl, piacere.»

Sonne stirò le labbra, colto da una vena di disappunto. «Grazie per l'intervento, Richard. Dicevo, può... puoi stare in salotto tutto il tempo che vuoi, ma per quanto riguarda la cucina puoi usare i fornelli solo fino a orario di cena. Dopo le venti spengo il gas. Per cui anche l'acqua calda.»

Di solito le persone restavano sbigottite già da quella prima regola, Verena invece non fece alcuna piega. «Va bene, mi organizzerò di conseguenza.»

Sonne la fissò per qualche istante. Poi proseguì: «Ora ti mostro la stanza. Seguimi.»

Si spostarono verso la porta solitaria accanto a quella d'ingresso, con Richard che svolazzava alle loro spalle come un uccello del malaugurio. Verena ogni tanto si girava a guardarlo, raccogliendo i suoi ammiccamenti, divertita dall'evidente contrasto tra i due abitanti di quella casa.

Sonne entrò per primo nella stanza e aprì l'unica finestra per far passare un po' d'aria e mitigare l'odore permanente di chiuso. Non disse nulla. Attendeva soltanto la reazione di Verena.

Lei ancora una volta si guardò intorno con un'aria di profondo rispetto per ciò che vedeva: un luogo appartenente a un'epoca vicina, eppure remota. Tutta la casa era pervasa dal gusto antico e raffinato che era stato dei nonni di Sonne, ma allo stesso tempo versava in uno stato di decadenza non indifferente. La carta da parati, verde chiaro con decorazioni di foglie e fiori, era rovinata, e così i muri sotto di essa. Verena poggiò il palmo della mano su una parete e la accarezzò un passo dopo l'altro, come se volesse tranquillizzare una creatura vivente allertata dalla presenza di un estraneo. Abbracciò con lo sguardo lo scarso mobilio e poi si sedette sul letto per provare il materasso. La rete mandò un cigolio, ma poi non protestò più, abituandosi al peso del nuovo corpo. Lei annuì tra sé, immersa nei propri pensieri.

Sonne e Richard, uno di fianco all'altro, la guardavano ambientarsi. Cosa che le stava riuscendo benissimo. Nessun altro aveva mai trattato la casa con una tale devozione. La decadenza celava qualcosa di caotico, ed era esattamente ciò che s'intravedeva anche in lei: caos e una vita pulsante sotto gli strati di malinconia.

Dopo un po' si alzò dal letto, soddisfatta da quella sintonia che sembrava essersi creata con l'ambiente circostante.

«Posso vedere il resto della casa?» chiese.

Sonne incrociò le braccia. «Resta solo il bagno. La mia stanza è sempre chiusa a chiave, per chiunque. Quella di Richard... se lui vuole.»

Richard scrollò le spalle. «Non c'è problema.»

Si spostarono di nuovo nel salotto. Sonne la condusse nel bagno grande della casa. «Questo sarà, eventualmente, il tuo bagno, e lo condividerai con Richard. Le pulizie delle vostre stanze e del bagno sono a carico vostro. Del resto mi occupo io.»

«D'accordo» disse Verena. Aveva smesso di osservare minuziosamente gli oggetti, come se avesse già preso una decisione. Adesso si stava concentrando su di loro. I suoi occhi, coperti da un velo lucido, onnipresente al di là delle lacrime, vagavano da Sonne a Richard, avidi di nuovi dettagli. Ma non aveva ancora fatto loro alcuna domanda.

Non ti interessa sapere con chi vivrai, cerbiatta?

Infine toccò alla camera di Richard, che era quasi più spoglia di quella inoccupata. Un letto singolo, disfatto e con i piedi di legno, una vecchia cassettiera e una scrivania ingombra di vestiti, tra i quali spuntava un walkman dall'aria malmessa. Due valigie accatastate in un angolo. La carta da parati, la stessa dell'altra stanza ma con una fantasia floreale diversa, era strappata in più punti.

«Lo so, c'è un po' di casino» commentò Richard, ma non sembrava importargli davvero. Così come della ragnatela semitrasparente aggrappata in un angolo del soffitto.

Verena, invece, era intenta a osservare la parete vuota sopra la scrivania. «Sai, qui potresti metterci dei poster» rifletté, indicandola con un gesto ampio della mano. «Di film o musicisti... che musica ascolti?»

Sonne inarcò un sopracciglio, consapevole di essere stato estromesso dalla conversazione.

Richard quasi gongolò a quella domanda. «Beh, musica rock e metal principalmente. Di quella che te lo fa venire duro fin dal primo ascolto. AC/DC, Metallica, Scorpions, Judas Priest...»

Verena incrociò le braccia. «Dei Nirvana che ne pensi?»

«Oh, loro sono fenomenali. E hanno pubblicato soltanto due album! Cobain è un grande... Qualcuno dice che mi somiglia.»

Lei rise. «Forse. Tu però hai un viso più particolare.»

«Beh, io direi che possiamo farla restare, Sonne» fece Richard, voltandosi verso di lui. «Ha superato il test a pieni voti.»

Sonne rimase impassibile. Si rivolse a Verena. «Cosa sei venuta a fare a Brema?» Lo chiese abbastanza bruscamente, tanto che lei si mise sulla difensiva.

«Devo iscrivermi alla Hochschule für Künste appena inizia il semestre. Corso di restauro.»

«Anche artista, allora» commentò Richard compiaciuto.

«Beh, non proprio. Diciamo che sono brava con i lavori manuali in cui ci vuole tanta pazienza. A proposito, sono disposta a dare una mano per qualsiasi cosa, in casa. Cucina, pittura, elettricità, idraulica...»

«Chi diavolo ti ha insegnato a fare tutte queste cose?»

Lei esitò per un istante. Sonne se ne accorse. «Sono cresciuta da sola con i miei fratelli... abbiamo imparato per forza di cose.»

Richard evitò di approfondire. «Capito.»

Ci fu qualche attimo di silenzio, e così Sonne ne approfittò per discutere degli ultimi dettagli. Erano quelli, di solito, a creare delle grosse divergenze. Spiegò le regole una ad una, mentre cercava di leggere il volto di Verena. La sfidò con la mente: voleva vedere quanto sarebbe stata capace di restare lì senza protestare. Senza fare passi falsi, sotto il suo attento esame.

Nessuna regola la sconvolse.

Erano ancora in camera di Richard quando lei annunciò: «Va bene.»

Richard diede una pacca sulla spalla al proprietario di casa. «È fatta, allora?» Sembrava volerlo convincere a tutti i costi. Sonne non faceva fatica a immaginare il perché.

«Non ancora. Spetta a me l'ultima parola» disse. «Ti ricontatterò per darti conferma in questi giorni, con il contratto pronto.»

Verena lasciò andare un'espressione demoralizzata. «A dire il vero... speravo di poter restare qui già stanotte. Posso darti l'anticipo, se serve.»

Sonne piegò le labbra in un sorriso freddo. «No. Non sei alla reception di un albergo. Torna tra qualche giorno, se sei interessata. Altrimenti, ci sono tanti altri appartamenti in affitto a Brema.»

Richard alzò gli occhi al cielo. «Certo che ti impegni proprio a far fuggire le persone.»

«Ti ho detto che non so dove andare» insisté Verena. «A te cosa cambia?»

«Il massimo che posso fare è dirti di tornare domani.» Non avrebbe accettato altre repliche. «Se vuoi la stanza.»

Lei in quel momento subì una trasformazione impercettibile. Sonne non fu abbastanza attento da accorgersi del modo in cui avvenne, ma si accorse nel giro di un attimo del risultato finale: da cerbiatta, Verena diventò improvvisamente un animale pronto ad azzannare, un carnivoro. Un'ombra sporca e selvaggia le calò sul volto, cancellando ogni traccia di ingenuità. Qualcosa le vibrò tra le guance, come se le stessero crescendo degli ulteriori denti.

Sonne si rese conto allora della bruttezza che si annidava nella sua faccia, seppur in mezzo alla delicatezza. Era stato un gioco di luce, a propiziare quella rivelazione? Una doppia natura? La stava guardando bene soltanto adesso. Un naso che s'incurvava verso il basso, le sopracciglia asimmetriche tra loro, una peluria chiara che dai capelli scendeva a carezzarle le tempie. Tutto in lei d'un tratto urlava di non voler domare quel lato selvaggio. Bensì di volerlo amare.

Ma Sonne era più forte di lei e non si fece intimidire.

Verena fu costretta ad arrendersi alla sua volontà. «Domani?» ripeté, con un tono più duro.

«Domani.»

Benvenuta nella città delle fiabe, straniera. Benvenuta in casa mia: dove sono io a decidere, anche per quel che riguarda la tua vita.

Poco dopo lei lasciò l'appartamento, senza aggiungere altro.

Sonne sapeva che Richard avrebbe voluto commentare l'accaduto, ma il suo cipiglio, più severo che mai, lo spinse a desistere. Era quello, il suo potere. L'unico che aveva, l'unico che rivendicava. Dettare legge in uno spazio violato, per difenderlo.

Ogni creatura che metteva piede nella sua radura doveva piegarsi.

Ripensò a Verena per tutto il resto della giornata, con inusuale compiacimento.






Note d'autrice:

Eccoci qui! Mi ritaglierò un breve spazio alla fine di ogni capitolo per tradurvi i titoli in tedesco. In questo caso, Kahlwild vuol dire cerbiatto. Abbiamo qualche germanofono che mi fa compagnia nei paraggi? ♥

Che impressione vi hanno fatto i tre personaggi per ora? Ditemi tutto, ché sono curiosissima e pendo dalle vostre labbra.

A giovedì prossimo!

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