XLVI. Dämmerung

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N E B E L

XLVI.

Dämmerung



Era stato così impegnato a guardare qualcun altro, per settimane, che non si ricordava più com'era guardare se stessi.

Si scrutava, Richard, in uno degli specchi del salotto. Seduto sulla poltrona alla luce della lampada, con la schiena dritta. Alla sua sinistra, la porta sprangata della stanza di Verena. Anche se la vedeva soltanto con la coda dell'occhio, gli incuteva soggezione come un'ombra all'angolo che stava in agguato per lui.

Per qualche motivo, il suo corpo tanto frenetico non azzardava il minimo movimento. Si limitava a deglutire. Un sudore freddo gli percorreva la nuca, e temeva persino di sbattere le palpebre. Senza di lei, poteva affidarsi soltanto ai propri occhi.

E a Sonne.

Sonne, che dormiva sul divano lì accanto con un'espressione sofferente e il pollice lacerato premuto contro il petto, ancora all'oscuro di ciò che aveva fatto. Richard non aveva pensato neanche per un istante a quale sarebbe stata la sua reazione. Era così concentrato che, in fondo, non gli importava nemmeno. Era passato molto tempo dall'ultima volta che se n'era infischiato così del giudizio di Sonne.

Nello specchio, seppur con uno sguardo un po' stralunato, sembrava diverso.

Questo sono io?

Lo spaventava vedere uno sconosciuto al posto del proprio riflesso, ma allo stesso tempo c'era anche un certo grado di curiosità per la trasformazione che era avvenuta, l'ultimo stadio di una metamorfosi, come se si fosse risvegliato nei panni della farfalla dopo il bruco e dovesse abituarsi alla sua nuova forma...

Non chiudere gli occhi, non chiudere gli occhi, non chiudere gli occhi...

Era rischioso starsene da solo, ma non svegliò Sonne. Voleva dare a Verena tutto il tempo necessario.

Non pensò ad altro, solo a guadagnarsi altri minuti di vita.

Forse dopo un quarto d'ora, si sentì il suo sguardo addosso. Richard si voltò verso di lui. Sonne si strofinò le palpebre, si passò una mano sul viso ruvido, sul doppio mento che gli creava quella posizione. Si fissarono apaticamente per qualche secondo come se fossero automi e non persone in carne e ossa. Ah, si è svegliato. Ah, Richard.

Ma nel quadro di Sonne subito qualcosa non tornò.

Richard non doveva essere lì.

E la porta era chiusa.

Nel giro di un attimo, il suo respiro si velocizzò e tutto il suo corpo divenne una tavolozza di panico, come in un dipinto di Munch.

Ancora intontito, scivolò su un fianco e si alzò in fretta dal divano, rischiando di inciampare nel tavolino da caffè – si resse con una mano al muro e corse nella stanza di Verena spalancando la porta.

Richard lo seguì per inerzia.

Affrontare le conseguenze delle sue azioni fu piuttosto semplice. Rimosso l'ostacolo della porta, i vani di realtà si mostrarono in una continuità dolceamara e conciliante, senza nessuna sorpresa.

La stanza era una tomba profanata. Si respirava aria di morte, ma non c'era un corpo. Nessuna traccia di lei, nemmeno un capello, sul letto o sul pavimento. Le corde erano ancora afflosciate alle sbarre della testiera come pelle vecchia di serpenti.

Se n'era andata.

La cosa più strana era che Sonne parve provare un moto di sollievo. Lo vide, chiaro e inequivocabile, rilassare le spalle e rilasciare un sospiro. Ma fu soltanto un attimo, un attimo di silenzio in cui galleggiarono, non insieme ma divisi, ognuno in una propria bolla.

Poi Sonne si avvicinò alla finestra. Si era accorto che era semiaperta. La aprì del tutto tirando l'imposta a sé, si sporse e guardò di sotto con il cuore in gola, a destra e a sinistra. Anche Richard appoggiò la fronte al vetro dell'altra imposta e guardò in strada. Non c'era nulla di anomalo. I lampioni illuminavano il marciapiede di pietra nelle prime ore della sera. Un passante con una ventiquattrore svoltò l'angolo del palazzo proprio in quel momento.

Sonne fece un passo indietro e con la mano ancora aggrappata all'imposta fissò il vuoto per qualche istante. Forse stava provando a chiamarla con il pensiero. Se brancolava così, voleva dire che non aveva neanche sentito il risucchio di cui gli aveva parlato tempo prima. Neanche un segnale nel sonno – non gli era dovuto, non erano più suoi. Aveva dormito beatamente mentre Verena si strappava a lui per sempre, da ogni cellula nervosa e da ogni altro organo.

Richard non ci provò neanche a comunicare con lei. Sapeva che sarebbe stata Verena a cercarlo, se fossero stati ancora in contatto con la mente. Si girò, senza staccare la testa dal vetro, e incrociò le braccia in maniera stanca. Aveva già pianto, e ora di quella tristezza restava l'intorpidimento.

Sonne invece sembrava totalmente impreparato. Eppure era stato lui a prevedere che sarebbero spariti senza più tornare, prima o poi. Non era contento di aver avuto ragione?

Richard avrebbe voluto dirgli: ovunque sia, non puoi più perseguitarla, ma non lo fece.

Sonne si voltò verso il letto. Avanzò piano, finché non cadde in ginocchio dinanzi al materasso vuoto. Vi appoggiò le braccia e vi nascose la faccia, stringendo le lenzuola fino a farsi sbiancare le nocche. Le spalle cominciarono a essere scosse dai singhiozzi, ma a tratti somigliavano più a sussulti di rabbia. Alla fine, dopotutto, Verena gli era sfuggita.

Richard lo osservò con una vena di sprezzo.

Adesso piangi?

Lo lasciò piangere per qualche minuto, tenendo ancora una volta d'occhio lo specchio. Sonne non si scompose poi molto, rimase raccolto in se stesso, le braccia come barriera, genuflesso come in un confessionale costruito intorno a lui.

Non capiva che cosa stesse provando realmente. Se stesse chiedendo un'assoluzione.

Non gli venne alcuna voglia di consolarlo.

Sonne alzò la testa di scatto dopo un po'. «Richard» si ricordò. Si voltò alle proprie spalle con un'espressione cinerea, quasi aspettandosi di non trovarlo lì. Ma a salvaguardarsi ci aveva già pensato lui.

Si rimise in piedi lentamente, stavolta senza togliergli gli occhi di dosso.

«Richard...» ripeté, avvicinandosi di un paio di passi.

Quando la distanza tra loro fu abbastanza breve, Richard gli sferrò un pugno dritto in faccia.

Sonne lanciò un lamento e si coprì naso e bocca con entrambe le mani.

Barcollò all'indietro, incredulo, dolorante. Ci mise qualche secondo per riprendersi. Bastarono quei secondi, a Richard, perché la rabbia che gli era montata dentro all'improvviso si dissolvesse così com'era venuta. Le nocche pulsavano all'impazzata. Non se ne pentì, ma non infierì neanche.

Sonne si scostò le dita dal naso per controllare se ci fosse del sangue. Pareva di no. Solo il labbro superiore si era un po' spaccato, in corrispondenza del canino sinistro. Se lo leccò per ridargli sensibilità, e poi tornò con lo sguardo spalancato su Richard.

«Perché?» gli chiese, le mani ancora sollevate davanti a sé.

Richard fece istintivamente un passo indietro.

«Intrappolerai anche me, adesso?» disse con un filo di voce.

La verità era che si aspettava delle ripercussioni per quello che aveva fatto. Forse se la meritava, una punizione, per aver tradito la sua fiducia tanto quanto per aver acconsentito a quella tortura in primo luogo. Si sentiva un maledetto ipocrita. Ora Sonne se la sarebbe presa con lui. Lo avrebbe picchiato – aveva senso, era Richard ad aver colpito per primo – e poi lo avrebbe legato al letto come aveva fatto con Verena, l'avrebbe imboccato, l'avrebbe pulito e lavato, sarebbe stato la marionetta che aveva sempre sognato, almeno finché la stanchezza non fosse stata troppa per continuare a guardarlo.

Sonne avanzò di nuovo, anche a costo di andare incontro a un altro pugno. «No...» disse, con la gola secca. Richard non ebbe nemmeno il tempo di rivolgergli un'occhiata scettica che Sonne lo strinse a sé in uno slancio. Lo strinse forte sulle braccia, quasi togliendogli il respiro, per impedirgli qualunque altra mossa o di polverizzarsi all'improvviso. «No, no, Richard, non dirlo neanche...»

Gli posò una mano sui capelli; solo allora Richard si concesse di abbassare le palpebre e lasciarsi cullare in quella morsa. Non importava cosa gli avrebbe fatto Sonne. Poteva anche seviziarlo. Sarebbe sparito in ogni caso.

Ecco cosa terrorizzava Sonne in quel momento, di un terrore che cancellava anche l'ira, ecco perché sentiva i suoi muscoli tremare sotto i polpastrelli. Sapeva che adesso la partita si giocava soltanto tra loro due. Al minimo errore, avrebbe perso Richard per sempre.

Capì che nella sua paura era sincero. Questa volta non lo stava manipolando.

«Non sei incazzato con me?» gli sussurrò contro il petto.

Sonne tirò su con il naso e non rispose.




Quella sera, quella dopo e quella dopo ancora, Richard andò a dormire con la convinzione che non si sarebbe mai risvegliato.

Invece, per tre giorni, ogni giorno sempre più stupito, riaprì gli occhi al mattino – appena la luce veniva a lambire la finestra – e trovò Sonne ad aspettarlo su una sedia di fronte al letto, con delle occhiaie grigie, le iridi fisse nelle sclere e una ruga a spaccargli la fronte in due. Quasi sembrava trattenere il respiro. Non si era mai distratto, neanche una volta. Richard avrebbe giurato che prima o poi avesse un colpo di sonno, o che decidesse di sua spontanea volontà di alzarsi e abbandonarlo, e non l'avrebbe certo biasimato se fosse successo. Ma Sonne aveva resistito. Era stato lui a insistere affinché riposasse.

L'aveva fatto mettere nel suo letto. Nessuno dei due era più entrato nella stanza di Verena – non avevano neanche tolto le corde dalle sbarre di legno né infilato le lenzuola in lavatrice. Nella stanza di Richard, poi, mettevano piede di rado: solo in momenti casuali si ricordavano della sua esistenza. Forse, inconsciamente, Richard la evitava perché non voleva contaminarla di quell'atmosfera depressa.

Era strano, poter stare in camera di Sonne tanto a lungo, persino sotto le sue coperte. Una minuscola parte di lui credeva ancora che fosse una sorta di luogo sacro e ripensava sempre alla scena in cui aveva sfondato la porta con Verena, ignaro che da quel momento la sua vita si sarebbe ribaltata.

La mattina del terzo giorno si stiracchiò sul materasso e indugiò per qualche minuto prima di alzarsi.

«Comunque è molto comodo» disse. «E pensare che per mesi abbiamo dormito in tre sul matrimoniale con le molle scassate.»

Sonne annuì in modo piuttosto rigido, dalla sedia. «È un materasso ortopedico.»

«Anche il cuscino. Ti sei fregato il migliore di tutti.»

«Se non ho il cuscino di quello spessore mi tornano i dolori alla cervicale.»

Richard aveva di frequente degli slanci in cui sentiva il bisogno di parlare del più e del meno. Era lui a intavolare tutte le conversazioni, ad aprirle e chiuderle – sarebbe davvero impazzito se si fosse costretto a stare sempre zitto, se non avesse recitato un piccolo copione di normalità, a cosa serviva altrimenti cercare di restare in vita il più a lungo possibile? – anche se Sonne pareva essere infastidito da tanta futilità, né collaborava a creare un clima più disteso, a rendergli più godibili i suoi ultimi giorni nel mondo. Forse era proprio quello a turbarlo. La tranquillità di Richard.

A dirla tutta, Richard stesso ne era sorpreso.

Sonne avrebbe voluto che avesse più paura, almeno quanta ne aveva lui.

«Uhm. Il mal di testa come va?»

L'altro sembrò allarmarsi alla domanda, anche se c'era evidentemente qualcosa che non andava, a partire dalla postura contrita. Una disperazione strisciante. Ormai lo decifrava alla perfezione. Di sicuro Sonne non aveva immaginato che quella sul divano sarebbe stata l'ultima dormita che si sarebbe fatto. «Passerà, non è niente.»

«Se non dormi non ti passa.»

Lo faceva apposta, a stuzzicarlo a quel modo, a ricordargli che poteva sempre tirarsi indietro. Sonne gli rivolse un'occhiata seccata. «Non posso dormire, Richard, maledizione.»

Richard stirò le labbra.

Non te lo sto impedendo io.

Non sapeva come porsi di fronte a quel sacrificio. Si adeguava, sì, per lo più aspettando l'istante, il battito di ciglia, in cui tutto sarebbe scomparso. Però non riusciva a esserne grato. Oltre a un sacrificio, era tante cose. Era una dimostrazione d'orgoglio. Era un modo per ribadire la sua grandezza, il perdono caritatevole che gli aveva concesso dopo la sua ribellione. Era un atto d'amore. Era il tentativo di non rimanere solo – era egoista. Era un castigo che si impartiva per tutto quello che era accaduto. Era l'unica alternativa che gli aveva dato.

Una delle cose che aveva subito messo in chiaro la prima sera, afferrandogli dolcemente le spalle, era stata: «Non ho i soldi per comprare un'altra videocamera.»

«Lo so» aveva detto Richard.

Quanto lo amareggiava sapere che Sonne non avrebbe provato a cercare altre soluzioni. Che pur di mettere in scena quell'atto eroico lo stava condannando. Non ci provava nemmeno lui, perché se anche gli fosse venuta in mente una soluzione migliore, Sonne non l'avrebbe accettata. Doveva farsi andar bene la sua, la più folle, ché prima o poi sarebbe inevitabilmente fallita. Volevano dimostrare a se stessi che erano disposti a lottare per la sopravvivenza, ma al contempo, se avevano seguito la strada di Sonne, doveva significare che in fondo entrambi avevano già accettato la fine come unico destino possibile.

Richard indugiava. Avrebbe potuto voltare i tacchi e cercare di aggrapparsi alle persone lì fuori, almeno per un po', almeno per andare avanti in maniera più dignitosa, ma non ce la faceva a lasciarlo. L'idea lo attraversava di tanto in tanto, ma non si concretizzava mai.

Restava a casa. Restava lì in attesa, con un peso invisibile che lo inchiodava a terra. Quante volte in quei giorni aveva pensato adesso me ne vado, e poi non se n'era andato? Si domandava se lo stesse facendo per lui, o se semplicemente non facesse alcuna differenza, se spariva nell'appartamento di Violenstraße, davanti al Duomo o sulle sponde del Weser. Non ci vedeva nulla di simbolico, né vedeva un riscatto nel ferire Sonne.

Avrebbe tanto voluto avere la spina dorsale di Verena.

Non parlavano mai di lei o del perché Richard l'avesse liberata. Erano chiusi ciascuno nel proprio dolore e affrontavano quel lutto in modi troppo diversi. Richard ci pensava tutto il giorno. Indossava una delle felpe larghe di Verena da quando l'aveva trovata ripiegata sull'asciugatrice, in bagno. Non sapeva neanche da quanto tempo stesse lì. L'aveva stretta a sé inalandone il profumo di ammorbidente davanti agli occhi vigili di Sonne, che non aveva detto nulla, seduto sul bordo della vasca. Sorprendentemente gli calzava bene. Era morbida e calda. Si erano scambiati decine di vestiti in passato, ma quella felpa le era sempre appartenuta un po' più di altre cose, e Richard non gliel'aveva mai sottratta. Adesso gli sembrava di capirla meglio e di sentirla di nuovo vicino a sé, con la pelle.

Sonne invece non le aveva nemmeno detto addio. Richard si era accorto di quanto si struggesse in silenzio per questo vuoto: era dura fare i conti con l'immagine di sé con cui l'aveva lasciata.

Nonostante tutto, il primo giorno era sembrato determinato. Anche se aveva perso lei, avrebbe protetto Richard. Il secondo giorno la determinazione era stata infestata da qualcos'altro che gli faceva tremare le budella. Cercava di nasconderlo dietro una facciata impenetrabile, ma il senso di colpa, il sentimento che per sua stessa confessione gli era più familiare da tutta la vita, emergeva comunque tra le crepe.

Odiava che Richard gli parlasse di cose normali. Odiava la sua audacia. Non era qualcosa che lo distraeva, tutt'altro, gli ricordava che lui e Verena erano stati delle persone vere con delle vite vere e lo costringeva a fare i conti con il male che gli aveva fatto strappandogli quella normalità.

Richard si alzò dal letto e camminò a piedi nudi fino in salotto, senza dire niente, con Sonne che si affrettava a seguirlo. A dire il vero, la voglia di parlare gli passava presto. Aveva tanto a cui pensare. Doveva fare ordine nella sua testa, che continuava a passare rapidamente da un'associazione all'altra. Tornava spesso sull'ultima conversazione che aveva avuto con Verena. Si domandava ancora dove fosse andata e dove sarebbe andato lui. Si chiedeva cosa avesse lasciato in sospeso.

Gli sembrava di aver vissuto la vita soltanto in potenza. Non c'erano altre persone a cui si fosse legato, non c'erano progetti che avesse cominciato e interrotto, non c'era un lavoro da cui potesse licenziarsi. Sarebbe potuto tornare al Musikant per salutare qualcuno, ma chissà se si ricordavano ancora di lui.

Doveva pur esserci qualcosa che gli restava da fare. Qualche desiderio dell'ultimo minuto. Forse andare a un concerto. Ma dove e quando? Non restava molto tempo. Cos'altro aveva lasciato incompiuto?

Gli venne in mente la pila di musicassette esposte sulla cassettiera in camera sua. Sorrise tra sé, ricordandosi di non aver mai finito di ascoltare Pablo Honey dei Radiohead.

Cambiò stanza. Sonne non faceva domande e gli stava alle calcagna. Con l'indice percorse tutte le cassette che aveva e le contò: trentuno. Quella dei Radiohead era proprio l'ultima. L'aveva comprata nel '93, dopo aver sentito il loro primo singolo alla radio. Aveva creduto potesse interessargli, ma poi l'album si era rivelato più lagnoso del previsto.

Sfilò la cassetta dalla pila, prese il walkman e tornò in salotto per stendersi sul divano. Sonne lo fissò con le braccia lungo i fianchi, stanco e sempre più avvilito, anche se le pupille da Mona Lisa continuavano a tracciare ogni suo movimento. Non volle nemmeno sapere cosa stesse ascoltando. Verena, al suo posto, si sarebbe interessata subito. Quanto era triste che non ci fosse musica nella sua vita? Eppure era stato lui, attraverso la scrittura, a trasmettergli quella passione.

Fece partire l'album dopo qualche capriccio del walkman. Si sentì tutt'intero e assurdamente felice, con le cuffie sulle orecchie. Era la prima cosa a dargli di nuovo un briciolo di calore dopo la scomparsa di Verena.

Intrecciò le dita sul torace, le fece tamburellare a tempo. Con lo scorrere delle canzoni, pensò in generale agli oggetti che possedeva. Non erano molti. Inorridì all'idea che la sua collezione di musicassette sarebbe finita nelle mani di Sonne, e gli venne l'istinto di proteggerle e portarle con sé, ovunque sarebbe andato. Gli sarebbe quasi piaciuto sparire con le cuffie indosso. Così, forse, avrebbe continuato ad ascoltare la sua canzone preferita per sempre – e sarebbe stato quello il suo aldilà. Una canzone.

Cercò di decidere quale fosse la sua canzone preferita, in modo da essere preparato. Però i Radiohead lo distrassero e lo riattirarono a sé. Doveva ammettere che si stava ricredendo. Aveva dato un giudizio troppo affrettato, due anni prima. Forse perché non erano arrivati al momento giusto, o al Richard giusto.

Un'emozione che prima non c'era gli strinse il cuore.

Sì, potevano andare anche i Radiohead.

Ripensò: dov'è che questa musica si sarebbe propagata? Nello spazio? E lui con essa?

Ecco, Reni, se devo pensare a un posto, ecco dove mi piacerebbe sparire: scaraventato nello spazio alla deriva, per vedere cosa diamine c'è lì fuori...

Di certo non sarebbe tornato dentro Sonne. Le persone quando muoiono non tornano nel luogo in cui sono state generate, non tornano dentro la persona che li ha partoriti.

Quell'idea lo impensierì. Mentre anche l'ultimo brano scemava, Richard si chiese, guardando il soffitto, se nel suo viaggio nell'universo avrebbe finalmente incontrato una madre.

All'improvviso, la fantasia di Verena aveva un senso anche per lui.




Non c'era nulla con cui cenare, quella sera.

Sonne, poiché non poteva dargli le spalle, fece aprire a Richard tutti i pensili e i cassetti della cucina alla ricerca di qualcosa di commestibile che non dovesse essere preparato ai fornelli. Ritrovò soltanto un barattolo di burro d'arachidi mai aperto, dei cornflakes stantii e dei sottaceti. Per il resto, gli scaffali erano vuoti e impolverati. Non c'era neanche un po' di latte. Richard credette che gliene sarebbe venuta una voglia devastante al solo pensiero, ma non fu così. L'idea del latte lo lasciò indifferente, come da giorni lo lasciavano indifferente le ultime due o tre sigarette rimaste nel pacchetto.

Posò le scorte sul tavolo, davanti a lui, le esaminò con le migliori intenzioni – aveva fame –, ma poi si ritrovò a dover sostenere lo sguardo infossato di Sonne, la sua schiena curva, e pensò che qualcosa stesse decisamente per crollare da un momento all'altro.

Ci siamo, si disse. Non resisterà oltre stanotte.

Sembrava che la sua mente fosse sul punto di infrangersi. Questo gli comunicava la sua faccia. Non l'aveva visto in quelle condizioni neanche durante il suo periodo di insonnia sfrenata.

«Tutto ok?»

«Credo che stasera rimarremo a digiuno.» Fece una pausa. «Mi dispiace.»

Per cosa ti dispiace?

Richard, per qualche motivo, non riuscì a trattenere un sorriso. Sonne si innervosì e si agitò sulla sedia. Andava in cortocircuito, quando lo vedeva così tranquillo.

Si sedette accanto a lui, giocherellò con un fazzoletto strappandone piccole striscioline di carta. «Potremmo sempre andare a mangiare fuori, per una volta.»

«Fuori? Fuori dove?»

«In un ristorante, magari. Con un bel bicchiere di vino. Immagina che bello, sulla Schlachte. La serata è così limpida... Oppure potrei farti conoscere Bruno. Sarebbe divertente.»

Sonne lo fissò. «Lo stai facendo di nuovo.»

«Cosa?»

«Ti stai comportando come se tutto questo fosse normale. Devi smetterla, ti prego. Non ce la faccio. Non ce la faccio a vederti così e sapere che se mi distraggo solo un secondo...»

Il sorriso di Richard stavolta fu più amaro. «Sto solo fantasticando, Sonne. Dovresti sapere come si fa. Che ti costa darmi un po' corda?»

L'altro rimase zitto, come se gli stesse chiedendo di avere pietà di lui.

«Eddai, puoi farmi un ultimo sorriso? Posso vedere quei dentini un'ultima volta prima di andarmene?»

Sonne si mise in piedi di scatto. Lo fece sobbalzare. «No. Ti ho detto che non te ne andrai» disse, alzando la voce. Si scostò di malo modo una ciocca di capelli dal viso e si indicò gli occhi. «Ci sto riuscendo, vedi? Ce la posso fare ancora. Posso andare avanti per giorni se l'alternativa è perderti di nuovo. Neanche tu puoi fermarmi.» Diede un calcio alla sedia, così forte che cadde su un fianco con un gran baccano. «Se te ne vai anche tu, cosa cazzo mi resta? Cosa ho dimostrato a me stesso?»

Richard lo guardò di nuovo con una punta di timore.

Sonne prese a camminare avanti e indietro per la cucina, con il respiro che accelerava sempre più, una mano posata ad altezza del cuore. Più cercava di calmarsi, più si agitava. Si spaventò del suo stesso comportamento. Cominciò a piagnucolare. «Adesso mi passa. Adesso mi passa, te lo giuro.» Eppure sembrava strattonato da dentro da mille cocchieri più forti di lui.

Infine il tracollo arrivò.

Vi si arrese spontaneamente.

Cercò di appoggiarsi al bancone, ma finì per scivolare seduto a terra con le spalle appoggiate al mobile. Scoppiò in un pianto affaticato, che cercava a tutti i costi di fargli chiudere gli occhi. Tuttavia Sonne guardava Richard anche piangendo, anche attraverso le lacrime. L'aveva puntato come un faro dalle lenti cromate.

Lui si sentì pietrificato, a quella scena. Rimase immobile al tavolo mentre Sonne si consumava sul pavimento, nella posizione di un martire fucilato.

Ci volle un po' perché si acquietasse.

Accadde e neanche se ne accorsero. Tornò il silenzio. Il silenzio e loro in quello scenario da natura morta, nell'indaco della sera, privi di energie come dopo una lunga nuotata in mare.

D'un tratto Sonne sollevò il braccio e tese la mano sinistra a Richard. «Vieni qui» gli disse, con una voce bassa e roca.

Richard si alzò. Indugiò davanti a lui per qualche secondo, osservandolo di sbieco. Si sentiva altissimo. Gli pareva di poterlo schiacciare sotto le proprie scarpe. Poi gli afferrò la mano.

Si aspettava che Sonne la tirasse per mettersi in piedi, ma in realtà la tirò per trascinarlo giù. Richard, d'istinto, oppose resistenza.

«Vieni» gli ripeté lui. «Fa freddo, qua a terra.»

Lo accontentò. Si sedette sul pavimento, lì accanto al suo corpo grande, e credette immediatamente di essere diventato anche lui più flaccido. Si attirò le ginocchia al petto. La mano di Sonne sgusciò con sorprendente facilità di nuovo nella sua. La testa si rannicchiò sulla sua spalla – di solito era sempre stato Richard a cercare protezione. Adesso Sonne desiderava disperatamente di interpretare l'altra parte. Di essere Stefan con Richard, su una spiaggia vera da qualche parte, lontani da tutto.

Si stava comportando come se la cosa riguardasse soltanto lui.

Richard non era sicuro di volerlo assecondare. Se il suo scopo in quel mondo era amare Sonne e nient'altro, forse avrebbe dovuto. Perché rivoltarsi a quel destino se, nei fatti, lo amava ancora?

Era una domanda difficile da porsi.

Lo amava ancora?

Sonne strinse di più le dita alle sue. Gli erano sempre piaciute le loro mani intrecciate, una bianca e dinoccolata, l'altra ruvida e squadrata. Richard ricambiò la stretta.

«E se funzionasse anche con il tatto?» chiese, le labbra vicinissime alla sua tempia.

Sonne soppesò attentamente quelle parole. «Dici che anche un altro senso oltre alla vista potrebbe...?»

«Chi l'ha detto che soltanto gli occhi possano rilevare la mia presenza? Se tu mi tocchi senza guardarmi, anche solo per un lembo di pelle, non significa che sono qui accanto a te?»

«Dovrei... dovrei toccarti per l'eternità, allora.»

Richard ci rifletté: se tenessimo le dita intrecciate per sempre... potremmo vivere ancora a lungo, e invecchiare insieme...

«Possiamo provarci. I tuoi occhi chiedono un po' di riposo.»

Sonne parve accogliere quell'ipotesi come una benedizione, anche se era solo una speranza. Il sonno complicava ancora una volta le cose. Richard lo sentì distendere i muscoli, ammorbidirsi.

«Ci sono anche le orecchie» disse, incalzato da quella prospettiva. «Se mi parli e sento chiara e forte la tua voce non può succedere che mi abbandoni all'improvviso.»

«A quanto pare ci siamo sempre affidati al senso più scontato.»

Sonne annuì e finalmente lasciò andare un vago sorriso.

«Richard...» sospirò, rigirandosi il suo nome in bocca, come se dopo tutto quel tempo fosse ancora incredulo di essersi ritrovato accanto, dal nulla, il collega universitario che gli aveva salvato la vita e che in segreto aveva tanto bramato. «Da adesso sospendiamo questa storia del creatore, va bene? Dimmi tutto quello che posso fare, e lo farò. Puoi darmi anche degli ordini, se serve. Puoi prendermi a pugni di nuovo e urlarmi addosso quando faccio qualcosa di sbagliato, oppure puoi–»

«Sonne» lo fermò Richard, prendendogli anche l'altra mano, più intirizzita e dolorante. Gli accarezzò il pollice ferito con il proprio. Lo guardò negli occhi, adesso velati di una follia innocente. «Basta.»

Sonne annuì. Richard sperava di essere stato abbastanza convincente da farlo arrendere. Poi Sonne abbassò lo sguardo sulle sue labbra e il secondo successivo, lieve, gliele baciò.

Anche il bacio sapeva di lacrime. Richard rispose. Per quanto vile, provava una pena incredibile per lui. L'uomo più solo al mondo, che era finito con l'innamorarsi delle sue storie.

Rimasero lì a terra, abbracciati, ancora per un po'.




Convincerlo ad alzarsi non fu difficile. Si sollevarono insieme, l'uno che tirava l'altro. Spensero la luce della cucina. Si presero di nuovo per mano e Richard, senza particolare sforzo, lo condusse con sé nella sua stanza.

La parte più complessa fu convincerlo a stendersi sul letto.

«Se mi stendo mi addormento di sicuro.»

«Dai, vieni vicino a me. Stiamo svegli. Parliamo un po'. Finché parliamo e ci tocchiamo...»

Ne discussero per qualche minuto, dicendo sempre le stesse cose. Poi Richard gli tirò un braccio e lo scoprì sorprendentemente arrendevole: bastò quello, tutto sommato, perché si lasciasse trascinare sul materasso.

Non si misero sotto le coperte. Si strinsero l'uno all'altro il più possibile, ché il letto era a una sola piazza, le mani saldamente intrecciate in mezzo a loro come se stessero nascondendo un gioiello rubato tra i loro palmi. Si guardavano in faccia, ripuliti dai sentimenti più aggressivi. Adesso restava una strana forma di ingenuità a distendergli la fronte e le guance.

«Ti prometto che non mi addormento» disse Sonne. «Starò a guardarti tutta la notte, come sempre. Ormai si può dire che ci sono abituato.»

«Certo.»

«Tu dormi pure, se sei stanco. Non preoccuparti.»

«Va bene.»

Richard gli scostò con la mano libera la ciocca di capelli che continuava a cadergli sugli occhi. Sonne fu attraversato da un brivido leggero. Le sue difese erano così basse da avergli reso la pelle sensibile al minimo tocco. Proseguì, con l'indice, sulla fronte, fino a discendere lungo il profilo del naso. Sonne lo fissò, grato, con gli occhi lucidi di sonno e le palpebre appiccicose.

Ma era ancora determinato a restare sveglio.

Si schiarì la voce. «Raccontami qualcosa.»

Richard gli picchiettò l'indice sulle labbra. «Qualcosa del tipo?»

«Quello che vuoi. Hai mai provato a inventare una storia?»

«In quello faccio schifo, Sonne. Al massimo posso parlarti un po' di musica.»

«D'accordo. Quel gruppo che mi avevi fatto ascoltare... come si chiamava?»

«I Judas Priest.»

«Sì. Raccontami.»

Richard cominciò a parlare di tutto quello che gli veniva in mente. Gli parlò delle sue band preferite, dell'album riscoperto dei Radiohead, ma parlò anche di Amburgo e di quello che faceva con i suoi amici all'università – e inventò, inventò perché troppi pezzi gli mancavano, inventò e si divertì a farlo, forse Sonne neanche se ne accorse che lui, quelle cose, non le aveva mai scritte. Una festa all'ultimo piano di un grattacielo. Le disavventure al tirocinio. Le estati con suo padre. Sonne all'inizio annuì e reagì a ogni dettaglio. Dopo un po', però, rimase a guardarlo immobile, come se stesse dormendo con gli occhi aperti. Erano già passate delle ore, e resisteva. Era cocciuto.

«Sonne?»

«Mh?»

«Non mi hai più detto di cosa parla il tuo libro.»

Sonne sbadigliò. «Non te l'ho detto perché lo leggerai. Non voglio rovinarti la sorpresa.»

Richard sentì sprofondare qualcosa dentro di lui. Mostrò un sorriso forzato. «Giusto.»

Da quel momento, non trovò più niente da dire, e Sonne non protestò per il silenzio pacifico che si era creato. Allora continuò ad accarezzarlo e basta. Carezze che erano più uno sfiorare delicatissimo, sulla pelle esposta. Era sempre stata l'unica occasione in cui Sonne amava la propria pelle, perché Richard la levigava, la ritrasformava dandogli nuove fattezze, fattezze amabili. Adesso, come un tempo, lo faceva per farlo addormentare.

Di certo non era il modo più dignitoso per andarsene. Ancora in sua funzione. Trattarlo come se fosse un bambino. Se li avesse visti, Verena sarebbe stata piuttosto contrariata.

Ma Richard aveva deciso per sé: non avrebbe voluto che accadesse in nessun altro modo. Non c'era nessun altro che volesse accanto. Quel momento gli ricordava tutto il bello che c'era stato, che era tutto ciò di cui voleva ricordarsi, e che voleva ricordasse anche lui.

Non sarebbe stata una tragedia fino alla fine.

Un po' gli dispiaceva non poter conoscere il contenuto del romanzo. La sua vita dipendeva da quel libro. Chiunque sarebbe stato curioso di sapere se ne fosse valsa la pena.

Forse era proprio quello il senso. Il libro della vita è il libro proibito per eccellenza, e neanche a lui con la sua abnorme esistenza era permesso leggerlo.

Il pensiero vagò lontano da lì. Gli fece visualizzare Richard Wagner, proprio come se ce l'avesse davanti, come se fosse un suo vecchio amico. Lo osservava a metà tra lo stranito e il divertito. Che assurdo scherzo del destino. Ci assomigliamo da morire. Solo che se lo immaginava con il volto più affilato e grezzo, più comune, perché era Sonne ad averlo velato di bellezza, ad averci visto chissà cosa in lui. In compenso, Richard Wagner aveva molte più cose di Richard Weigl, e Richard Weigl un po' lo invidiava.

Passò molto più tempo di quanto avrebbe immaginato.

Ringraziò Sonne tra sé per la resistenza.

Si addormentò adagio, senza mai lasciargli la mano. Neanche nel più grande momento di debolezza perdeva la sua fermezza. Ma non sarebbe bastato. Non se lui era altrove, con la testa. Il cuore di Richard batté più forte in gola.

In posizione fetale accanto a lui, scaldato dal suo corpo e dalla felpa di Verena nonostante gli spifferi, si accorse che era l'alba. Alcune luci della città erano ancora accese, ma il cielo stava sbiadendo. Pensò che se avesse guardato una fotografia del sole colto in quell'esatto istante non avrebbe saputo dire se fosse l'alba o il tramonto, l'aurora o il crepuscolo.

Per questo, si ricordò, in tedesco esisteva la parola Dämmerung.

Gli sembrò di essere trasportato via da una corrente calda.






Note d'autrice:

Salve. Io lo sapevo che questi capitoli sarebbero stati uno peggio dell'altro. Dovrei prendermi le mie responsabilità. 

Ho trovato questo 46 molto difficile da scrivere, non solo per il peso emotivo, ma per tutti i sentimenti che si sono addensati nei personaggi agli sgoccioli della storia. Spero con tutto il cuore che vi siano arrivati, che li abbiate compresi nonostante la situazione folle in cui si sono ritrovati, e alla quale hanno reagito in modi molto diversi, in certi casi estremi.

Il titolo del capitolo, Dämmerung, significa sia alba che tramonto, sia aurora che crepuscolo, come ci spiega Richard nel finale. Trovo che sia una parola perfetta per esprimere la loro condizione, come del resto tutto ciò che è "sulla soglia". Ci tenevo tanto che Verena se ne andasse al tramonto e Richard all'alba, compiendo una sorta di cerchio. 

Detto ciò, siamo ufficialmente a -2! Il prossimo capitolo, in realtà, conterrà un piccolo contenuto bonus, come vedrete. Non vedo l'ora di scriverlo (e piangerò ancora sulla tastiera, maledizione a me).

A presto!

(Di sicuro ho dimenticato di dire qualcosa, ma in questo momento sono fusa, chiedo venia.)

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