XXIV. Die Spucke

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N E B E L

XXIV.

Die Spucke



Verena non stava dormendo.

Aveva caldo e si era scostata la coperta dalle gambe con un mezzo calcio. Sapeva che anche Sonne era sveglio. Se n'era accorta dal suo respiro, niente affatto calmo come quando si dorme. Nel buio era l'unico suono su cui poteva concentrarsi. Le dava fastidio. Forse era quello il dettaglio che non la faceva addormentare.

Richard era in mezzo a loro nel letto, molle e fragile come non l'avevano mai visto, la statua di cera di se stesso. Sul comodino svettava la bottiglia di latte che si era scolato prima di crollare, con l'impronta delle sue labbra sull'orlo. Una sola tazza non era bastata. L'indomani avrebbe avuto un mal di pancia bestiale. Ma era meglio così, perché almeno si era calmato.

Il suo Richard, il loro Richard. Sparito e riapparso proprio come lei, risucchiato via dalla loro amata realtà. Se ci ripensava le saliva di nuovo il pianto in gola. Chiunque ma non lui, continuava a ripetersi. Ti prego. Non lui. Non ha fatto nulla di male, è la persona più buona che io conosca.

Era un tentativo maldestro di parlare di nuovo con Dio. Nelle situazioni più disperate ci provava ancora. Chiudeva gli occhi e si concentrava, si concentrava fino a farsi venire il mal di testa, ma non accadeva nulla. Gli unici con cui poteva comunicare telepaticamente erano Sonne e Richard, quando venivano separati. La sensazione era pressoché la stessa. Un conforto a cui aggrapparsi. Che fosse riuscita a parlare con Dio, in passato, perché il luogo in cui stava era un'altra dimensione rispetto alla sua? Che Dio non le rispondesse più perché si era spostato in un altro piano di realtà? Aveva scoperto con Sonne, poco prima, che non si poteva comunicare quando ci si trovava dalla stessa parte.

Questo poteva significare che Dio non le rispondeva più perché era vicino.

Quella luce bianca che talvolta li inondava...

Verena scosse la testa tra sé.

Era arrabbiata con Lui. Anzi, era furiosa. Doveva essere stato Dio a scatenare quella sciagura su di loro, doveva far tutto parte del suo grande piano imperscrutabile, anche il suo silenzio. Darle la felicità e poi togliergliela con uno schiocco di dita. Cominciava a odiarlo, per quello che aveva fatto a lei e alle ragazze nella foresta. Lui le odiava allo stesso modo, di un odio viscerale! Lui. Per questo le puniva.

Avrebbe imparato a smettere di cercarlo, così come stava imparando a non mangiare più carne. Non aveva bisogno di nessuna delle due cose. Aveva bisogno soltanto di imporsi su quella crudeltà, per quel che poteva, rifiutarla con tutto il proprio corpo, dallo stomaco alla mente.

Presto si stancò di fingere di dormire.

«Sonne?» chiamò laconicamente a bassa voce, guardando oltre il corpo di Richard.

«Sei sveglia» disse lui, una constatazione di qualcosa che già sapeva.

«Non riesco a dormire.»

Lo vide alzarsi a sedere sul bordo del letto nella penombra. La sua sagoma era più buia del resto. «Neanch'io. Non riesco a fare a meno di pensare a quello che ci ha raccontato.»

Sonne si riferiva alle ultime parole che Richard aveva balbettato prima di sprofondare nel sonno, un breve resoconto di come si era conclusa la sua avventura ad Amburgo. Un'esplosione seguita da alcuni spari, il panico della folla. Il loro Richard schiacciato e trascinato giù per le scale della metro. Sarebbe mancato il respiro anche a lei, se si fosse trovata al suo posto.

Verena corse d'istinto a sfiorare le dita di Richard, poco lontane dalle sue.

Chiunque ma non lui.

«Gli hai promesso che non succederà più» sussurrò alla schiena di Sonne. «Come hai potuto illuderlo così? Ho capito che era per tranquillizzarlo, ma... Non è qualcosa che possiamo controllare.»

«Troverò il modo.»

«È impossibile, non c'è nessun modo.»

«Ho detto che lo troverò.» Aveva alzato un po' la voce, per cui Richard si mosse sul materasso, mettendosi su un fianco, ma non si svegliò. Sonne si assicurò che stesse ancora dormendo prima di riprendere a parlare. «Non voglio che mi veniate strappati così. E, in tutta onestà, se proprio credi che non m'importa di voi, voglio impedire che succeda anche a me.»

Verena tornò a guardare il soffitto. «A te non succederebbe.»

«Per come si stanno mettendo le cose, direi di sì, invece. Perché altrimenti sarei connesso anch'io a voi con il pensiero? È una cosa che riguarda tutti e tre.» Fece una pausa e si voltò verso di lei. «Perché lo pensi?»

Lei poté sentire i suoi occhi scavare nel buio, arrivare a toccarla. «Non lo so, tu... tu sei diverso da noi.»

Sonne si tirò in piedi e girò intorno al letto per starle più vicino. Verena rimase dritta nella sua posizione supina, né gli rivolse lo sguardo. Non l'aveva ancora perdonato. Ma sapeva che l'avrebbe fatto a breve, per il bene di Richard, come talvolta si fa per il bene dei figli.

Sonne fece qualcosa che lei non si aspettava, non in quel momento. Si mise in ginocchio ai piedi del materasso e poi si stese cauto su di lei, cercando di non gravare troppo con il proprio peso: le posò la testa sul petto, il resto del corpo tra le sue gambe nude. La strinse a sé. Non le era mai sembrato così giovane e vulnerabile. «Perché lo pensi?» ripeté.

Verena restò immobile. Esitò. Le venne voglia di passargli una mano tra i capelli, ma si trattenne. «Perché tu hai un atteggiamento diverso nei confronti della vita. Non ne sei grato. Quasi la disprezzi. Per te non sarebbe un gran problema sparire» rispose freddamente. «Per te non sarebbe una punizione come lo è per noi.»

«Allora la mia punizione è veder sparire voi» rispose lui, la guancia premuta contro il suo sterno. Aveva un tono fermo e serio, come se non stesse parlando dei suoi sentimenti ma di qualcosa di estremamente logico e razionale.

Verena odiava quel lato di lui. Voleva vederlo piangere, disperarsi, gridare. Perché si chiamava come il Sole, se non covava la minima traccia di calore? Del fuoco aveva paura. Un Sole che fugge dal suo elemento essenziale e che rifiuta se stesso, ecco cos'era.

Sonne, come ascoltandole i pensieri dall'interno del petto, colpito da tanta severità da parte sua, alzò la testa per guardarla dritta in faccia.

«Cosa faresti se un giorno io sparissi, Verena?» le chiese, senza l'ombra di un'emozione. «Se sparissi per sempre, intendo.»

La domanda la fece irrigidire.

Verena provò a immaginarsi una vita senza Sonne. Giorno dopo giorno, per giorni, la rumorosa assenza di lui. Avrebbe fatto volentieri a meno delle sue manie di controllo, si disse. Poteva fare persino a meno del suo sguardo profondo, dinanzi al quale si sentiva più viva che mai, come se lui le desse conferma della sua esistenza. Poteva rinunciare alla sua voce nei meandri di sé, che sapeva di casa, di protezione. Ci sarebbe riuscita, giurò.

Ma poi capì che era una bugia destinata a sgonfiarsi nel giro di un attimo. Dopo suo padre e Dio, avrebbe perso il terzo punto cardine della sua vita, e sarebbe stato devastante.

Nulla la legava a lui, eppure tutto la legava a lui.

La risposta le emerse sincera sulle labbra. «Ne morirei.»

Sonne restò in silenzio per qualche secondo, poi si issò sulle braccia e la sovrastò, eclissando qualsiasi cosa ci fosse intorno. La guardò. Lui era in mezzo alle sue gambe e lei in mezzo alle sue braccia. Occupavano completamente l'uno lo spazio dell'altra, impedendosi di sottrarsi. Richard, lì accanto, continuava a dormire dando loro le spalle.

«Voglio baciarti» le disse.

«Fallo.» Ma il suo tono era ancora distaccato.

«Non ti lascerei mai morire, Verena. Neanche se me lo chiedessi. È bene che tu lo sappia.»

Quella dichiarazione la spaventò. Era come se Sonne avesse teso un arco invisibile tra loro e le avesse scoccato una freccia tra i seni, dolorosissima ma incapace di uccidere. Era così che stava suggellando il suo potere su di lei, ed era Verena ad autorizzarlo. Stava mettendo la vita nelle sue mani. Non avrebbe mai pensato che la conversazione potesse condurre a questo.

Sonne calò le sue labbra affilate su di lei. Il petto fu infilzato dalla stessa freccia con cui aveva colpito Verena. Era un patto di sangue improvvisato con il favore della notte. Era anche qualcos'altro, una maledizione più che una promessa. L'inizio di un rito. Sanguinanti, adesso, si baciavano.

Verena comprese a un livello profondamente intimo e personale, a cui Sonne non aveva accesso, che stava commettendo un errore. Non riguardava il perdono: era sempre stata brava a perdonare. Aveva più a che fare con la configurazione del loro rapporto. Sonne non avrebbe mai smesso di cercare di controllarla, proprio come un padre o come un Dio. Era una caratteristica inscritta non solo nella sua persona, ma nel suo ruolo. Un padre non può smettere di essere un padre. Sonne vedeva in lei e Richard una qualche forma di subalternità e loro guardavano a Sonne con ammirazione – anzi, adorazione. Per questo avevano tentato sin dal primo istante di liberarlo dai suoi fardelli senza chiedere nulla in cambio. Verena non si era mai domandata se ne valesse la pena, aveva agito e basta, seguendo fino alla fine quel nastro immaginario che dalla Foresta Nera l'aveva condotta a lui.

Non voleva tirarsi indietro, adesso.

Era giunta fin lì.

Nella sua casa, nel suo cuore, nella sua testa.

Furono baci lenti ma insistenti, da parte di entrambi. L'eccitazione li accarezzò come quando il vento si alza piano in estate, smuovendo le fronde degli alberi. Verena sentì presto l'erezione di Sonne premerle contro l'inguine. Era già successo altre volte, ma mai come in quel momento lui sembrava disposto ad andare oltre. Stava succedendo qualcosa di nuovo. La sparizione di Richard era stata il catalizzatore.

Sonne si separò da lei solo per abbassarsi ancora sul suo petto. Le alzò la maglia fin sopra alle clavicole, con delicatezza. Verena non si mosse, nemmeno quando fu colta dai brividi per i baci successivi, sui capezzoli, nell'incavo del seno, via via sempre più in basso verso l'ombelico, con un'attenzione particolare ai graffi della foresta che persistevano e di cui restavano crosticine scure, sotto le costole, sulla carne morbida dei fianchi, sulla trama della sua pelle che ora si andava a ricomporre anche grazie a quelle labbra.

Sonne arrivò all'elastico degli slip. Verena lo fissò. Non l'aveva mai fatto prima, e adesso non stava neanche tentennando. Era furbo, a manipolarla così, in uno stato di pieno possesso di sé – lui, che non si era mai smaterializzato dalla realtà, talmente rigido nei suoi legamenti da avvicinarsi al rigor mortis. O forse era più un atto di devozione con cui le chiedeva perdono per i suoi errori, persino per tutti quelli che sapeva avrebbe continuato a commettere.

Non le importava poi molto. Verena ascoltava il proprio corpo. Il corpo le diceva che lo desiderava. Era la sua volontà, quella, ben divisa dalla volontà di Sonne. Amarsi così era spaventoso. Non c'era unione nell'incontro, ma soltanto uno scisma, il reiterarsi dell'opposizione.

Sonne le sfilò gli slip, le allargò le cosce con le mani. Si sistemò meglio sul letto per stare comodo e poi portò la bocca tra le sue gambe per leccarla. Verena stavolta non resistette alla tentazione e gli afferrò i capelli in modo da tirarlo ancora di più a sé. Chiuse gli occhi, decisa a non guardarlo. A differenza sua sapeva godere anche con gli altri sensi.

Il suo ritmo era di gran lunga più estenuante rispetto a quello di Richard, che trovava nella frenesia la sua ragion d'essere. Sonne preferiva torturare con la calma. Erano anche due tipi diversi di piacere. Una freccia che schizza verso l'alto e una curva larga, crescente. Verena all'inizio pensò che non sarebbe stato bello come con Richard, invece dovette ricredersi. Sonne aveva osservato a lungo i suoi punti deboli, in disparte, e stava lì il suo vantaggio. Con il passare dei minuti fu costretta a mordersi le labbra per non svegliare Richard. Cercava di spingersi con il bacino contro la lingua di Sonne per assecondarne le movenze. Gli tirò ancora di più i capelli, immaginando di infilare la sua testa dentro di sé, un parto al contrario in grado di ribaltare i ruoli di potere tra loro. Così sarebbe stata lei a dargli una casa, una protezione. E poi se l'avesse tenuto al sicuro nel proprio grembo non sarebbe mai potuto sparire. Avrebbe smesso di respirare, però, come compromesso. L'intera esistenza di Sonne avrebbe potuto puntare a quella condizione: una fantasia dove morire, vivere e nascere sono la stessa cosa. Tutto per merito di una madre.

Per la prima volta, poco prima dell'orgasmo, Verena pensò a come sarebbe stato avere dei figli. L'apoteosi della vita, dal concepimento all'istante in cui si viene al mondo. Si crogiolò in quella visione tra gli spasmi, stringendo forte le cosce intorno alla testa di Sonne. Lui forse avrebbe pensato che voleva spezzargli il collo o soffocarlo.

Si sollevò, preso da un lieve affanno. Sembrava soddisfatto ma anche indispettito. Avanzò di nuovo verso la sua faccia, con le braccia piantate sul materasso. Aveva le labbra bagnate e uno sguardo famelico. Verena poté accorgersi anche nel buio di come si fosse trasfigurato: era identico a se stesso, eppure sembrava un altro uomo. Un'altra cosa, gerarchicamente e irrimediabilmente diversa da lei.

I battiti del cuore si fecero più veloci. Il coraggio le venne a mancare, disperdendosi come da una fiala rotta sul pavimento. Quella versione di lui pareva un grosso lupo nero con la bava alla bocca che la scrutava con occhi pungenti, arrivando a leggere desideri di cui neanche lei era a conoscenza.

Verena attendeva di scoprire cosa avrebbe fatto. Lei voleva continuare. Voleva toccare il corpo nudo di Sonne. Fare l'amore con qualsiasi cosa in cui si fosse trasformato. Ma era paralizzata, in uno stato tra il terrore e una gioia violenta.

«Apri la bocca» le disse, sfiorandole il mento con le dita.

Verena schiuse le labbra, lo sguardo fisso nel suo. Sonne gliele aprì ancora di più con il pollice, premendo sui denti dell'arcata inferiore. Prima che lei potesse capire le sue intenzioni, le sputò un grumo di saliva in bocca.

Verena ingoiò di istinto, ingoiò quello che era anche il resto dei suoi umori, ma serrò subito le labbra, di nuovo. Lo guardò allucinata. Da parte di Sonne, una furia altera, così pacata da poter essere scambiata per impassibilità.

Ci fu qualche secondo di vuoto nella sua mente.

Perché l'hai fatto?, fu la sola cosa che riuscì a chiedersi, stupita o offesa, non sapeva dirlo.

Era un gesto dal significato inaccessibile. Era l'atto finale di quel rito che avevano cominciato. Fu di colpo lampante che non ci sarebbe stato alcun continuo.

Verena provò lo stesso a baciarlo e a sfilargli la maglia, ma Sonne si allontanò bruscamente proprio nel momento in cui la sentì vagare con le dita sui suoi fianchi.

«No.»

Il cuore le batteva ancora all'impazzata. «No? Perché no?» Non gliel'aveva mai chiesto prima.

Sonne si mise di nuovo a sedere e Verena lo imitò, appoggiando la schiena alla testiera del letto. Non rispose. Stava tornando il Sonne di sempre.

«Cos'è che non vuoi farmi vedere? Cos'ha il tuo corpo che non va?» riprovò, o meglio osò, perché nessuno dei tre era mai stato in grado di tirar fuori l'argomento, un segreto talmente ingombrante da non essere neanche più un segreto. «Tanto è buio! Non vedrei nulla comunque. Voglio solo... toccarti.»

Sonne si ricompose, raddrizzò la schiena, guardò verso la parete. Si ripulì la bocca con la manica della maglia. «Non ti basta quello che ti ho appena dato?»

«Richard una volta mi ha detto che eri stato con delle ragazze all'università... perché loro sì e io no

«Con loro è stato semplice proprio perché erano delle sconosciute e non ero tenuto a dare spiegazioni.»

Verena corrugò le sopracciglia. «Che razza di ragionamento è questo?»

Ma a quel punto si sovrappose la voce impastata di Richard, che si stava rigirando tra le coperte verso di loro. «La volete smettere di parlare, che per una volta stavo dormendo?»

Verena si voltò di scatto verso di lui. «Oddio Richie... mi dispiace tanto.»

Richard si passò una mano sul viso. «Dite la verità, stavate scopando senza di me.»

Lei si trattenne dal rispondere, mentre Sonne sembrò rasserenato da quella rinnovata sfacciataggine e dal fatto che non balbettasse più.

«Come ti senti, Richard?» gli chiese.

Richard si alzò su un gomito con un lamento. «Mi fa male ovunque. Domani avrò un po' di lividi, credo. Prenderò un antidolorifico.»

A quelle parole l'umore di Verena sprofondò immediatamente verso il senso di colpa. Era stata un'egoista. Aveva messo il proprio desiderio davanti all'apprensione per Richard. «Scusa» gli disse, mortificata, accarezzandogli i capelli. «Dovevamo farti dormire. Non so cosa mi sia preso...»

Richard si rannicchiò di più, così che potesse farsi abbracciare. «Non importa» mormorò, abbassando di nuovo le palpebre e posandole la testa in grembo. Si era accorto che era quasi del tutto nuda, ma non ne approfittò per fare altre battute. «Sono contento che abbiate fatto pace.»

Sonne e Verena si lanciarono un'occhiata.

«Ci sono cose più importanti. Quello che ci sta accadendo è più importante... c'è poco altro a cui pensare» rispose lei.

Richard sembrò rimuginarci per qualche secondo. «È sbagliato provare a essere felici, nella situazione in cui ci troviamo?»

Era una domanda sentita, per quanto semplice, e Verena ne restò spiazzata.

Ricomparve un po' di tremore nella voce di Richard. «Perché se ci togliamo anche questo... io... io non credo di poter andare avanti.»

«No» disse Sonne. Allungò anche lui la mano per accarezzare i capelli di Richard, per tranquillizzarlo, e tra quei fili d'oro incontrò la mano di Verena. «Non è sbagliato. È esattamente quello che dobbiamo provare a fare. Se riusciamo a capire il meccanismo o il motivo dietro tutto questo... possiamo provare a contrastarlo insieme.»

Ancora, Sonne tentava di infondere loro sicurezza. Credeva di essere più forte di Dio o di chiunque li avesse fatti precipitare in quella disgrazia. Verena sperò che lo fosse davvero, anche se il vero Dio, quello lì fuori da qualche parte, un giorno l'avrebbe punito per tanta superbia.

Sentiva ancora il sapore della sua saliva in bocca.




Da quella notte non smisero di dormire insieme.

Sonne tornava in camera sua soltanto per scrivere. Chiudeva la porta, la riapriva dopo qualche ora, ricompariva da loro. Cercava di non lasciarli mai da soli per troppo tempo. Dall'altro lato, Richard e Verena non riuscivano più a separarsi. Trovavano sempre un pretesto per toccarsi, e quando si abbracciavano lo facevano con una foga a dir poco ingenua, come per impedirsi l'un l'altra di andarsene, un tacito: resta qui. Lui emetteva dei lamenti tra le labbra perché, come previsto, gli si erano formati decine di lividi addosso, ma non per questo rinunciava a quell'impulso.

Richard la seguiva anche in bagno, e la cosa non dava a Verena alcun fastidio. Chiacchieravano mentre si lavavano, talvolta l'uno lavava l'altra. Lei si aggrappava sempre al suo braccio quando erano seduti vicini. Era un gesto meccanico dettato dall'angoscia che si era infilata tra loro, fin nei ritagli di quotidianità. La combattevano dividendo lo spazio di un solo corpo in due corpi. Non c'era più privato, tra loro. Ciò che era di Verena era anche di Richard e viceversa. Il cibo, i vestiti, la pelle e i fluidi, l'ossigeno che respiravano. Era soffocante ma era anche indispensabile.

Vennero presto licenziati entrambi.

Dopo quattro giorni di assenza ingiustificata da lavoro, Zimmermann e Köhler li telefonarono a casa per comunicarglielo, a breve distanza l'uno dall'altro. Zimmermann sembrava dispiaciuto. Non avrebbe trovato nessun altro come Verena, disse. Köhler urlò due o tre imprecazioni a un Richard inaspettatamente freddo e indifferente, che riattaccò la chiamata senza nemmeno salutarlo.

La questione non li impensierì poi molto. C'era qualcosa che li impensieriva di più. Non dovevano giustificarsi con nessuno, nemmeno con Sonne. Lui, invece, fu di gran lunga più turbato dalla notizia e dalla loro noncuranza, Verena se ne accorse subito. Nel suo sguardo si susseguirono sconcerto, rabbia e amarezza; infine, una sorta di passiva accettazione, come se si fosse autoconvinto che fosse la cosa migliore per tutti. Era un sacrificio che gli consentiva di tenerli ancora di più sott'occhio. Avrebbero mangiato di meno, se necessario. Fu un pensiero comune.

Le giornate scorrevano lente, in un'aria viziata e una luce soffusa, perché per qualche ragione non avevano neanche più il coraggio di aprire le finestre o scostare le tende. Camera di Verena divenne una tana selvatica. Il letto era sempre sfatto, e generalmente a letto c'era sempre qualcuno, Richard e Verena o tutti e tre, e se non stavano a letto fluttuavano in giro per casa, lei e lui mezzi svestiti, Sonne coperto dal collo ai piedi come se fosse costretto a indossare un abito talare, un prete che li inseguiva per le stanze con l'intento di esorcizzarli. Era l'unico a uscire di casa: Verena e Richard ironizzavano spesso sull'assurdità della situazione. Forse aveva iniziato a uscire di più – anche se mai troppo a lungo – proprio per ritrovare quella solitudine che prima si godeva in casa. Adesso vi erano internati due matti posseduti da qualcosa di sovrannaturale. Cosa non avrebbe fatto per loro. Ma ogni tanto sentiva il bisogno di fuggire.

Si rifugiava a Brema, oltre che nel suo romanzo. Sceglieva o l'una o l'altro. Il romanzo era il suo mondo inespugnabile per eccellenza. Neanche l'inquietudine che gravava su di loro gli aveva impedito di staccarvisi. Se loro stavano perdendo le energie, lui le stava trovando. La vita iniziava a rovesciarsi.

Parlarono molto, in quei giorni. Riflettevano insieme ad alta voce, ipotizzavano, cercavano una pista da seguire. Richard sosteneva che le sparizioni avevano a che fare con luoghi e persone del loro passato. Verena aveva obiettato dicendo di non aver mai visto nulla di simile a quel villaggio in festa in cui era capitata la seconda volta. Sonne insisteva su un dettaglio in particolare.

«Una decina di anni fa ero già ad Amburgo» aveva detto un pomeriggio. «Non ricordo nessuna esplosione o attentato.»

«Beh, neanch'io. Ma si è capito che quella non è la realtà, no?» aveva risposto Richard.

Però Sonne continuava a meditarci su. Qualcosa gli diceva che era lì, la chiave.

Verena invece era ossessionata dalla foresta. Aveva iniziato a sognarla, a rivedere la testa della ragazza saltare in aria ogni volta che chiudeva gli occhi, e non solo, vedeva i resti del suo cervello nella zuppa, nei cassetti dell'armadio quando li apriva, nella vasca quando scostava la tenda. Si sfregava forte le palpebre per cancellare quelle immagini, ma era tutto inutile, così si rassegnava al fatto che avrebbe imparato a convivere con quella visione di sangue per sempre. Se solo fosse esistito un modo per far rivivere la ragazza dentro di lei, in un cantuccio del suo corpo, Verena l'avrebbe accolta senza remore.

Una sera erano sul divano a guardare distrattamente la televisione. Richard, che stava in mezzo, si era appoggiato con la guancia alla spalla di Sonne. Lui non fingeva neanche più che gli desse fastidio. Per quanto ne sapeva Verena, Richard avrebbe potuto baciarlo e Sonne non si sarebbe tirato indietro. Stava succedendo qualcosa. Stava succedendo, in Sonne, la paura di perderlo. Erano dovuti arrivare a una condizione simile perché si smuovessero le acque. Verena avrebbe voluto prendere Sonne a schiaffi per le sofferenze che aveva causato a Richard. Però sentiva un manto di contentezza avvolgerla quando li guardava. Era questo che Richard intendeva, bisognava provare ad esser felici lo stesso, e non avevano altro che il loro legame a cui puntare per raggiungere quell'obiettivo. Avevano spogliato l'esistenza di ogni altra cosa. Strato dopo strato, rimozione dopo rimozione, restava un nocciolo durissimo: loro.

Sullo schermo del televisore scorrevano fotogrammi di un documentario sugli Indiani d'America. Si parlava del loro immenso rispetto per gli animali. Del fatto che uccidessero soltanto i bisonti dopo una serie di riti e preghiere perché permettevano loro di sopravvivere, non solo con la loro carne, ma con le loro pelli, ossa, persino con gli zoccoli e la coda. Ne facevano nuova vita, e ringraziavano. Quando arrivavano gli uomini bianchi, invece, uccidevano e rubavano la pelle per poi lasciare a marcire il resto, senza alcuna cognizione della portata di un tale intervento. Le tribù avevano in orrore il loro operato. Verena immaginava di essere lì, tra le montagne rosse nel cuore dell'America del Nord, insieme a quella gente, davanti a una distesa di bisonti scuoiati che sembravano sciogliersi sul terreno nella calura del deserto, e pensava: tutto quell'amore per la vita, tutta quella fatica e quella dedizione per cosa? Per vedere qualcun altro sputarci sopra e sentirsi persino chiamare selvaggi.

A cosa serviva allora la felicità.

Verena cominciò a piangere, silenziosamente. Piangeva disarmata. Era tutto inutile. C'era sempre qualcuno di più forte, un antagonista naturale che si opponeva alla vita e che provava un malsano piacere nel distruggerla.

Richard e Sonne si voltarono verso di lei quando tirò su col naso.

«Cosa c'è, Reni...?» le chiese Richard, raccogliendo con tenerezza una sua lacrima prima che cadesse.

«È tutto inutile» disse. Ripeteva ciò che aveva pensato, sconfortata ma serissima. «Non c'è scampo.»

Loro si presero qualche secondo per interpretare quella risposta. Richard le passò un braccio dietro le spalle e la strinse a sé, ma si era incupito.

Sonne si alzò, spense la televisione e si avvicinò alla libreria. Verena lo vide scegliere attentamente quattro o cinque volumi dalle mensole, li sfilò uno alla volta con cura, lasciando dei rettangoli vuoti in quel muro di libri. Li portò a lei impilati l'uno sull'altro.

Verena li prese dalle sue mani con un pizzico di soggezione e se li posò in grembo. Tirò di nuovo su con il naso, ma ormai aveva smesso di piangere. Lo guardò con occhi sorpresi. «Perché me li dai?»

«A volte abbiamo bisogno di immergerci nella vita di qualcun altro per poter vedere la nostra in modo più chiaro e trovare un po' di sollievo» disse lui. «Io l'ho sempre fatto.»

Verena abbassò di nuovo lo sguardo sui libri e prese a sfogliarli insieme a Richard, che si era incuriosito a sua volta. Il primo della pila si intitolava Kassandra, di Christa Wolf.

«Credi che questi possano piacermi?» gli chiese, ancora.

«Kassandra non l'ho nemmeno ancora letto. Ma sento che sono i libri che vorresti leggere tu.»

Era un dono prezioso, dunque. Una continuazione di quello che gli aveva fatto lei appena si erano conosciuti. Era così che si andava a chiudere il cerchio del perdono. Con quei libri Sonne voleva che trovasse un conforto. Era un atto d'amore.

Verena si strinse Kassandra al petto. «Grazie.»

Quella sera, a letto, mentre Sonne e Richard dormivano – Richard di nuovo al centro dava le spalle a Sonne e lui teneva un braccio sul suo fianco – iniziò a leggerlo alla luce del lume sul comodino. Si calò così tanto nella lettura che non si curò né delle ore che passavano né del fatto che la luce avrebbe potuto dare loro fastidio. Lo stile dell'autrice era un po' ostico, ma Verena era determinata a impegnarsi e presto vi si abituò, quando si accorse che il ritmo della scrittura seguiva il suo ritmo interiore. I battiti del cuore e i respiri, come un canto antico. La voce di Cassandra le parlava ma era anche la sua. Era come avere un'altra voce dentro di sé, per la prima volta quella di una donna. E così fu a Troia con lei. Conobbe il padre, la madre, i fratelli e le sorelle, l'amato Enea. Conobbe la minaccia dei Greci. Conobbe il suo terribile sogno in cui Apollo, dio del Sole, dopo averle consegnato il dono della veggenza tentava di possederla: e, trasformatosi in lupo, le sputava furente in bocca per essersi rifiutata.

In quel preciso punto richiuse il libro, tenendo il segno con un dito, e fissò il vuoto per qualche minuto.

Pensò a una cosa assurda. Poi tornò a leggere.






Note d'autrice:

Eccoci qui, sono tornata e sono tornati anche i tre bricconcelli tedeschi. Mi scuso per l'attesa e approfitto dell'angolo autrice per avvisare che i prossimi aggiornamenti riprenderanno regolarmente. 

Che dire di questo capitolo? È molto introspettivo e spero che si inizi a percepire un'atmosfera più pesante, un po' di "aria viziata" come viene detto nella seconda parte. Senza contare che più ci avviciniamo alle rivelazioni, più gli indizi cominciano a risaltare... credo. Chissà se la cosa a cui ha pensato Verena non è la stessa a cui avete pensato anche voi.

Il titolo, Die Spucke, significa Lo sputo. Direi che non servono interpretazioni particolari ahahah

A presto!


Ps: leggete Cassandra e Medea di Christa Wolf ♥

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