XXXV. Strafe

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N E B E L

XXXV.

Strafe



Ogni tanto, mentre era alla scrivania, andava a stuzzicare il pacchetto di sigarette semivuoto che aveva appoggiato sulla cornice di marmo sotto la finestra, con le dita o l'estremità di una penna, come se stesse punzecchiando una cavalletta morta con un bastoncino. Nient'altro che una scoria di Richard. Delle Camel. Eppure non erano sigarette che gli si addicevano, si arrovellava Sonne, ricordandosi poi che doveva avergliele affibbiate proprio lui quando aveva scritto il suo racconto.

Erano lì da mesi.

Avevano assistito con lui, attraverso il vetro, al morire dell'inverno, della primavera e ora dell'estate. Un panorama di Brema che non era cambiato molto. La città era rimasta immobile esattamente come quell'appartamento da quando Richard e Verena se n'erano andati. Solo le lancette dell'orologio, i rintocchi del campanile del Duomo – e il clima a stento, sempre freddo da allora – testimoniavano che il tempo stava scorrendo anche senza di loro.

La voglia di fumare quelle sigarette era diventata urticante. La voglia di azionare una fiamma e vederle consumarsi in un mucchietto di cenere, in realtà. Lo solleticava sulla nuca più di quanto avesse mai fatto la benzina nascosta in bagno, per ciò che rappresentavano, una sorta di talismano che raccoglieva in sé un potere incontrastabile, una tentazione diabolica. «Non fare il patetico e fumale» gli avrebbe detto Richard, probabilmente. Alla realizzazione di questo desiderio si frapponevano diversi problemi, però. In primo luogo, non aveva mezzi per accenderle: Richard l'accendino se l'era portato via e, in quanto al gas, una volta finita la bombola non aveva mai fatto venire il tecnico a montarne una nuova. Secondo, se le avesse fumate non sarebbero più state lì, non avrebbero potuto più assolvere al compito di dimostrare che Richard e Verena erano esistiti davvero e avevano davvero vissuto con lui. Terzo, nello stato in cui era, sarebbero diventate la miccia che avrebbe portato alla degenerazione finale, facendo crollare al suolo anni di astinenza e autocontrollo. Sapeva già che dopo la prima volta le sigarette non gli sarebbero bastate.

Gli era rimasto poco altro di loro. Degli asciugamani scoloriti, un calzino di Verena rimasto impigliato nella lavatrice, un portachiavi a forma di ferro di cavallo dimenticato sul ripiano della cucina. Tutti beni che Sonne aveva riposto in una scatola nel proprio armadio; solo le sigarette ne erano rimaste fuori, con la loro influenza simbolica.

Aveva lasciato le stanze identiche a come Richard e Verena le avevano lasciate quel giorno di fine gennaio. Non aveva nemmeno mai fatto passare un po' d'aria, con il risultato che i materassi erano tuttora impregnati del loro odore. Le prime notti aveva dormito – o meglio, aveva giaciuto insonne – sul letto di Verena, al centro, a braccia larghe. Non era abituato a occupare così tanto spazio nel rettangolo in cui si erano sempre stretti in tre. Inalava ciò che restava dei loro corpi, qualcosa di acido e concentrato che gli pungeva le narici fino a farlo lacrimare. Era l'unica sensazione attraverso cui poteva riviverli. Dopo qualche giorno, siccome aveva tralasciato di lavarsi, si era accorto che il suo odore, che pure non era dissimile dal loro, stava sostituendo l'originale. Così si era fatto una lunga doccia, la prima dall'abbandono di Richard e Verena, ma si era rivelata una soluzione ancora peggiore: in questo modo il loro odore iniziava a essere sostituito da quello del bagnoschiuma. Perciò aveva compreso che doveva preservarlo il più possibile, perché era il lascito più prezioso, da custodire ossessivamente come un tesoro in un forziere sui fondali marini, di cui non poter godere neanche in prima persona, se non in rarissime occasioni. Da allora entrava nelle loro stanze chiuse a chiave soltanto di domenica, per pochi secondi. L'odore sembrava ogni volta più fioco di quella precedente, ma Sonne era diventato piuttosto abile nel captarlo e riconoscerlo, sempre, sempre con uno strappo al cuore.

Erano esistiti davvero.

Non faceva che ripeterselo. Ma adesso, lui, poteva dire di esistere? Non era forse diventato meno reale di loro? Escluso dal mondo, tra le mura di diamante di casa sua, soggetto allo sguardo di nessuno, a stento il proprio, che evitava accuratamente lo specchio. Esse est percipi. Esistere significa essere percepiti. Se è lo sguardo di un altro essere umano a confermare la nostra esistenza, Sonne aveva smesso di esistere da tempo. Ciò spiegava anche perché Richard e Verena sparissero solo quando non erano guardati. Solo degli occhi – i suoi, quando non avevano più avuto quelli delle persone intorno a loro – potevano ancorarli alla vita al di qua, così come sono gli occhi del lettore nell'atto della lettura a dare vita alle storie, che resterebbero altrimenti un mucchio ben organizzato di segni su delle pagine.

Tutto ciò che aveva fatto era stato continuare a scrivere. Giorno e notte, a macinare parole che non rileggeva nemmeno, che nemmeno gli appartenevano del tutto, come se stesse espellendo dei batteri dall'organismo. C'erano dei personaggi che somigliavano sempre più a Richard e Verena in un'inesistente Germania riunita nel socialismo, che lo guidavano negli snodi di trama che aveva progettato (sensati, interessanti, colpi di scena, così distanti da come si svolge la vita vera, a pensarci), accerchiati da mille altre comparse, come nei romanzi corali di un tempo, plastici in miniatura che pretendevano di rappresentare fedelmente il mondo in nome del Realismo, fissati con le descrizioni, gli oggetti, le proprietà, la genealogia, la fiducia nelle capacità dell'uomo... Non era la vista il senso dominante per quegli scrittori, il loro paradigma di conoscenza della realtà, così fallace, così limitante? Non lo era anche per Sonne, quando descriveva una scena? Questo Meier non gliel'aveva fatto notare, il suo essere così visivo fin nel linguaggio, in modo a dir poco fastidioso. L'aveva dato per scontato, per giusto. La verità era che con gli altri sensi faticava a immaginare e a comprendere. Non aveva la sensibilità di Verena, che anche al buio trovava un senso in ciò che la circondava. Lui aveva sempre avuto bisogno di luce e per questo i suoi mondi erano fatti di lampi e bagliori, li gettava tronfiamente intorno a sé, ma non era una luce benigna, fertile. Vedere è controllare. Mostrare qualcosa significa lasciare all'oscuro qualcos'altro.

Anche nelle sue storie fantastiche non si era mai sottratto all'imperativo della vista. La connessione con il sovrannaturale avrebbe dovuto sbloccargli nuove direzioni di rappresentazione, fino a sperimentare con l'irrappresentabile, ma Sonne non aveva mai considerato di poter ragionare, per esempio, con il tatto, l'udito. Sottovalutava l'impatto di un suono, che un orecchio sano non può respingere, al contrario di un'immagine sgradita, da cui si può scegliere di distogliere lo sguardo.

Dov'era la sua bravura, quindi? Iniziava a dubitare di tutto quello che gli era stato detto finora sui suoi scritti, dei generi e delle correnti in cui avevano provato a inquadrarlo. Postmodernismo, Realismo magico, e così via. Critici come Meier disprezzavano queste definizioni. Sonne, della sua scrittura, sapeva soltanto che era guidata da un impulso agognante verso tutto ciò che era collocato tra reale e al di là del reale.

Ora procedeva senza più tornare sui propri passi. La scadenza per la consegna della prima bozza era vicina. L'unico obiettivo ormai era finire il romanzo, la creatura tirannica che gli aveva orchestrato e fagocitato la vita, come un figlio che divora il padre con il suo consenso e persino la sua collaborazione. Tieni, mangia ancora un altro pezzettino, ti aiuto ad affettarlo.

Non ce la faceva più. Ma andava avanti, perché non restava altro da fare. Dopodiché, non aveva idea di cosa sarebbe stato di lui. Intanto si lasciava morire nel modo più romantico e patetico per eccellenza.

La scrittura gli aveva modificato il corpo a tutti gli effetti, facendolo deperire un pezzo alla volta. Non c'era giorno trascorso senza dolori alla schiena, alla cervicale, ai tendini delle mani. Si ammalava se usciva di casa, perché era talmente abituato all'ecosistema dell'appartamento che il contatto con l'esterno era diventato nocivo per la sua salute. Per questo non usciva più. La pelle, d'altro canto, risentiva della mancanza del sole e dell'aria aperta, così si era riempita di dermatiti, anche sotto la barba, che non radeva da un'eternità. Era tornato il prurito, un ospite di cui non aveva sentito affatto la mancanza. Da ragazzino aveva delle crisi così acute che sua nonna Luciane doveva tenergli le mani bloccate in una stretta ferrea per impedirgli di grattarsi, o gliele schiaffeggiava se cedeva. «Il medico ha detto di no, Stefan» lo rimproverava, senza tradire più preoccupazione del necessario. Spesso il suo tono lo intimoriva. Allora si sforzava di resistere attendendo che le pomate al cortisone facessero effetto, mentre lei si rimetteva a cucinare o rassettare la casa in silenzio. Se ne ricordava adesso, desiderando che ci fosse qualcun altro a monitorare i danni del suo corpo, dal momento che lui non ne era mai stato capace. Continuava a prendere solo le pillole per lo stomaco e per il cuore, perché la digestione e la sistole e la diastole proseguissero nel modo in cui dovevano proseguire: quelle sì che temeva di lasciarle, considerando la quantità immane di grasso accumulato in quei mesi.

Sentiva che l'infarto era dietro l'angolo (doveva, doveva finire il romanzo prima che arrivasse). Non sapeva più quanto pesasse, ma sapeva di aver raggiunto un nuovo livello di mostruosità in quanto a stazza. Era tutto gonfio e teso come la ruota di un autobus, sì, l'avevano gonfiato con un compressore e si erano interrotti giusto a un soffio dal farlo esplodere.

E dire che non stava neanche mangiando tanto. I suoi miseri pasti li consumava sempre alla scrivania, da ciò che era avanzato nella dispensa, il solito flaccidume oleoso in scatola ingurgitato con un cucchiaio. Pareva quasi che il suo corpo si fosse ingigantito da solo. Di cos'è che si nutriva, esattamente, cosa stava assimilando, da dove usciva tutta quella carne nuova che aveva aumentato il volume del suo torace, della pancia, delle braccia, delle cosce? Altra materia generata dal nulla. Vita spremuta dal vuoto, lo stesso vuoto da cui succhiava come da un seno.

Pensava che la loro assenza l'avrebbe mutilato, invece l'aveva imbottito.




A settembre, si ritrovò a celebrare da solo i due anni dalla venuta di Richard e Verena. In certi giorni provava una tale rabbia nei loro confronti che finiva per farsi accidentalmente del male pur di darle uno sfogo: non con il fuoco, ma con qualsiasi altra cosa. Quella sera si era fatto esplodere un bicchiere in mano e aveva dovuto medicarsi il palmo alla bell'e meglio – il sinistro, per sua fortuna, che si era riempito di micro-tagli e rivoli rossi.

Non era mai stato così adirato con qualcuno. O forse sì. Con sua madre. Non ci aveva mai riflettuto prima, su quella rabbia; stava emergendo tutta insieme, adesso, da un terreno arido.

Non che sua madre, Richard e Verena non avessero i loro buoni motivi per odiarlo.

Non appena se ne ricordava l'ira si affievoliva fino a spegnersi sotto le braci.

Mentre stringeva la benda intorno alla mano, accanto al lavandino, gli tornò in mente la notte in cui aveva curato le scottature di Richard, la notte in cui l'aveva baciato per la prima volta. Le spalle presero a scuotere nel preludio di un pianto che tentò di arrestare a tutti i costi. La rabbia se n'era già andata, per quella sera. Riuscì a non scoppiare in lacrime per miracolo. Se ci pensava, in quei mesi non aveva mai pianto. Ecco di cosa era fatto il suo corpo, lacrime mai espulse, nere come l'inchiostro. Alla rabbia e alla tristezza sottostava un altro sentimento che gli impediva di sfogarsi a dovere: lo shock. Sonne sapeva che uno sconvolgimento violento può bloccare qualsiasi reazione somatica, compreso il pianto, l'aveva letto in qualche libro di psicanalisi, perché la componente dello stupore – uno stupore negativo, metafisico – è più forte. Solo che, stando ai manuali, sarebbe dovuto durare molto meno.

Sonne invece viveva in stato di shock da mesi, forse anche da prima del loro abbandono, da quando aveva scoperto di essere il loro creatore. Lo shock non era mai diventato qualcos'altro, non gli aveva mai permesso di passare a una fase successiva.

Gli sembrava di vivere in un mondo di spigoli acuminati di vetro. Ovunque urtasse si feriva, e a ogni impatto provava quello stesso stupore cosmico come se non avesse imparato da tutte le volte precedenti. Adesso la mano, un giorno la testa. Se anche gli fosse stata ghigliottinata, avrebbe lasciato il mondo provando nient'altro che stupore. Ancora? È questo che un uomo deve sopportare finché non muore? È fisicamente possibile? Non è mai troppo?

Senza sapere come, si ritrovò seduto al centro del divano a fissare la parete. Faceva un sacco di cose, negli ultimi mesi, senza sapere come. Era così immerso nelle sabbie mobili della sua mente che non si accorgeva di ciò che accadeva all'esterno di sé, se non per frammenti fugaci. Di solito era una fitta di dolore o il prurito a farlo ritornare alla realtà, talvolta il siero che gli restava sui polpastrelli dopo essersi grattato.

Quella volta fu un singulto estraneo a metà tra i timpani e il cervello, una specie di risucchio in un imbuto.

Di nuovo.

Sonne rizzò la schiena, in agitazione. Quando accadeva non era mai preparato, non sapeva mai cosa dire. Ma doveva tentare.

Liebe? Sei tu?

Nessuno rispose.

Si torse le mani tra loro, quella ferita formicolò nella stretta salda del bendaggio.

Com'è successo stavolta? Per quale motivo non stavate l'uno accanto all'altra?

Aveva sviluppato una sorta di sesto senso per le loro sparizioni. Aveva imparato a riconoscere quando uno dei due finiva nei suoi racconti e nella sua immaginazione, lo sentiva dentro di sé, sottoforma di suono. Per i primi tempi aveva creduto che fosse un'allucinazione, e aveva ignorato quel risucchio. Poi si era convinto che fosse legato alle sparizioni di Richard e Verena: aveva provato a parlargli, ancora e ancora, senza mai ricevere un riscontro, finché una notte lei non gli aveva detto: Devi lasciarci in pace. Sonne era scattato a sedere sul materasso, stordito dalla sua voce che gli viaggiava chiara e leggera nel corpo – non solo nella testa, ora la sentiva anche con le viscere, con i nervi, fino alle dita dei piedi. Se anche quella fosse stata un'allucinazione, era ciò che di più gradito potesse essergli donato. Non gli importava.

Non gli importava nemmeno che durante le sparizioni potessero finire in luoghi terribili o incontrare di nuovo il suo spietato alter-ego. Averli così, dentro di sé seppure in pericolo, era meglio che non averli. Era l'unico modo in cui potesse rientrare in contatto con loro. Erano più vicini. Si muovevano in un mondo a lui familiare. Nella realtà non aveva idea di dove fossero, ed era peggio, molto peggio. Non erano in pericolo anche lì, dopotutto? Quando sparivano, almeno poteva far sentire loro la sua voce, poteva ricordargli che se succedeva ancora era perché dipendevano da lui, sarebbero sempre stati legati a lui, e se fossero diventati sempre più evanescenti sarebbe stata colpa loro, perché si erano allontanati dalla sua orbita.

Dovevano essere spariti altre decine di volte. Doveva essere arduo tenersi d'occhio tutto il giorno per non scivolare via, specialmente di notte, quando si stringevano in un letto – sperava che almeno avessero un letto, un tetto – e si ritrovavano, stremati, uno di fronte all'altra con i nasi che si sfioravano, a combattere contro il sonno. Ovunque abitassero ora, qualunque strategia avessero elaborato, in due non sarebbe stato mai abbastanza.

Pregava, nonostante tutto, che non stessero morendo di fame.

(Cosa avrebbe sentito se fossero morti, da questa parte o dall'altra? Un altro risucchio?)

Nel silenzio assoluto del salotto, riusciva quasi a sentire i bisbigli di Richard e Verena che comunicavano tra loro, come se fossero nella stanza accanto e stessero parlando a voce bassissima. Il sangue scorreva più caldo nelle sue vene al solo pensiero. Anche quello poteva essere frutto della sua immaginazione, ma non gli importava. Sonne aveva sempre vissuto d'immaginazione.

Se mi dite dove siete posso aiutarvi a venirne fuori, riprovò. So che adesso mi credete, che ormai avete accettato la vostra natura. Lasciatevi guidare, anche se non volete tornare da me...

Trascorse l'ora successiva a cercare di convincerli.

Però loro erano ostinati, e crudeli, lo fronteggiavano con il mutismo anche a costo di impazzire. Continuavano a rifiutare il suo amore divino; gli era andato bene solo quello umano, convinti che fosse più dignitoso, più equo e veritiero, ma si sbagliavano. Sacrileghi, disprezzavano un miracolo.

Dopo un po' non sentì più nulla. Si arrese reclinando la testa sullo schienale del divano. Precipitò in un dormiveglia svogliato, dove i volti di Richard e Verena cercavano di assemblarsi in una nebbiolina azzurra davanti a lui, ma senza formarsi del tutto, forse perché pian piano stava dimenticando i dettagli che li avevano resi reali. Rigirandosi in una posizione più comoda, giurò che non appena li avesse rivisti gli avrebbe scattato delle foto. Finché erano stati assieme non ci aveva mai pensato. Era stato uno stolto. Se l'avesse fatto, adesso avrebbe avuto qualcosa da commemorare – non poteva accontentarsi degli oggetti, no, il re degli osservatori! Ancora questa maledetta vista, rimuginò, come posso liberarmene? Ma si giustificò subito dicendosi che la sua memoria visiva, che già di norma sbiadisce in fretta, era affamata per natura.

Tra i confini labili del sogno, gli parve di sentire un rumore di passi, e poi quello della porta di casa che si richiudeva lentamente. Resuscitò di soprassalto. Rimase paralizzato, al buio e in ascolto. Quando aveva spento le luci? Il terrore gli scivolò fino agli stinchi.

«Chi c'è?» chiese, con un sudore gelido alla base del collo. Non parlava da così tanto tempo che la voce gli venne a galla rauca e tremolante, persino ridicola, come quella di un vecchio nei cartoni animati.

Solo dopo qualche minuto di immobilità gli tornò in mente una cosa a cui non aveva badato per troppo tempo: di solito, dopo le sparizioni, Richard e Verena comparivano nelle sue vicinanze. L'altro lato li risputava direttamente da lui.

Sonne si alzò scosso dai brividi.

Erano stati lì e non se n'era accorto?

Muovendosi a scatti, accese le luci nel salotto. Non c'era nessuno. Andò a controllare nelle loro stanze. Nessuno. Si rivolse, infine, alla porta di casa, che non aveva il coraggio di aprire. Indugiò. Non sapeva perché, ma era ancora più terrorizzato all'eventualità di rivederli.

Qualcuno risolse quell'impiccio per lui spalancando la porta dall'altro lato con un frastuono abominevole.

Sonne trasalì e si appiattì contro il muro, cercando il telefono con lo sguardo, pronto a chiamare la polizia. Ma poi vide che erano davvero loro. Sbarrò gli occhi e non riuscì a staccarsi dalla parete, né a pronunciare alcunché.

Richard e Verena, coperti da capo a piedi da abiti pesanti e rovinati, guanti bucati e cappello di lana, i capelli più lunghi e crespi come paglia, reggevano una spranga di ferro a testa. Lo puntarono – era scivolato a sedere a terra ancor prima che loro si avvicinassero – e subito si fiondarono su di lui per picchiarlo.

Il primo colpo secco glielo sferrò Richard, dopo aver fatto roteare la sbarra con un movimento brutale ed elegante allo stesso tempo, sulla clavicola; ne seguì uno di Verena, tra il petto e il fianco. Senza fiato, inorridito, Sonne allungò una mano verso di loro per dirgli di fermarsi, ma non gli uscirono le parole, il che aumentò la loro foga. Non gli diedero nemmeno il tempo di riprendersi tra una sprangata e l'altra. Si rannicchiò sul pavimento coprendosi la testa, nascondendo il volto, senza riuscire a urlare a ogni esplosione di dolore, solo a emettere versi animaleschi, da bestia sulla via del macello.

La testa no... la testa no..., pensava soltanto, mentre anche l'incredulità spariva tra i tonfi sulle sue ossa. Verena gli assestò un calcio nello stomaco ringhiando, Richard gli spezzò le vertebre a furia di sprangate, reggendo l'arma con entrambe le mani, e Sonne cominciò a credere che fosse giusto, che se lo meritava. Finalmente qualcuno che non fosse lui se la prendeva con il suo corpo, lo liberava scomponendolo, lo rimodellava per rimpicciolirlo, trasformarlo in poltiglia. Basta cure e basta compassione. Basta illusioni d'amore dove l'amore non poteva prosperare. Doveva essere annientato. Un senso di pace lo riscaldò nel profondo mentre iniziava a sputare sangue. Adesso le sue creature erano i giganti e lui il minuscolo, insignificante essere al loro cospetto.

Quando si risvegliò davvero, accucciato sul divano nella stessa posizione fetale, con il palmo fasciato premuto tra guancia e orecchio e il segno della garza che gli sarebbe rimasto stampato nella pelle per qualche ora, quasi si pentì che non fosse successo realmente. Ammesso che anche i sogni non fossero un'altra dimensione del reale a cui si aveva solo parzialmente accesso.

Si accorse di aver bagnato i pantaloni, come certi bambini quando per la prima volta non dormono nel letto con i genitori e si svegliano spaventati nel cuore della notte.

Andò in bagno a cambiarsi, indeciso se provare vergogna o meno. In effetti non aveva idea da quanto non si fosse tolto quel pigiama slargato di dosso.

Si mise a letto, ripromettendosi che l'indomani avrebbe lavato il divano, il pavimento, un po' tutto in quel salotto, non poteva sopportare che vivesse così, nel sudiciume, o forse sì? In fin dei conti, anche in quel momento non era che un lombrico semitrasparente raggomitolato su se stesso; qualsiasi pelle indossasse, avrebbe sempre rivelato il marcio che c'era sotto.

Quella notte sentì di aver capito un'altra importante verità che finora si era negato.

Richard e Verena erano la punizione per ciò che aveva fatto a suo padre.

Come Sonne con Gregor, avevano iniziato a odiarlo per qualcosa che non dipendeva da lui, e l'avevano abbandonato per questo. Adesso il suo odio di figlio gli si ritorceva contro. Adesso poteva guardare tutto da un'altra prospettiva.

Era vero, quella punizione se la meritava.

Lui aveva punito suo padre per averlo messo al mondo.

Richard e Verena punivano Sonne per lo stesso motivo. L'assenza di una madre gli aveva dato modo di dirigere tutto il loro odio verso un'unica persona, un dio simile a Zeus che li aveva generati come Atena, dalla sua fronte, da solo, per partenogenesi. Era stata una creazione non sessuale, ma pur sempre erotica, come qualsiasi atto di creazione: ma non meno violenta per questo. Immettere qualcuno alla vita non è, alla fine, una violenza?

Questo era ciò di cui Sonne era venuto a capo.






Note d'autrice:

Sono tornata ♥ Sono tornati anche i capitoli cervellotici di Sonne. Vi erano mancati? 💀 Scherzi a parte, come già sapete le sue parti introspettive sono una delle componenti più importanti di Nebel, soprattutto rispetto alle chiavi di lettura che si possono dare. Tra l'altro nella stesura sono stata molto influenzata da un libro di mille pagine che sto leggendo (Solenoide di Mircea Cartarescu) e che è tutto così, zeppo di riflessioni caleidoscopiche di uno scrittore. Pane per i miei denti. A tal proposito, alla fine della storia pensavo di creare una sorta di "playlist" di libri affini a Nebel che vi consiglio... cosa ne pensate?

Parlando ancora del capitolo, devo dire che Sonne qui mi ha fatto davvero tanta pena... ma è solo l'inizio, se penso a quello che accadrà in questa parte. Possiamo stare sereni, insomma.
Il titolo, Strafe, significa punizione.

Nel prossimo vedremo meglio cos'è successo a Richard e Verena in questi mesi. Secondo voi cos'hanno fatto? Sono riusciti a superare l'allontanamento da Sonne? Come si incontreranno di nuovo?

Cercherò di essere più costante con gli aggiornamenti (anche se devo alternare la scrittura con la tesi), perché non vedo l'ora di portare a termine la storia, perciò, se vi va, fatemi compagnia ♥

A presto!

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