XXXVII. Dein Wille geschehe

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N E B E L

XXXVII.

Dein Wille geschehe



«Mi dispiace.»

Il primo ad aprir bocca fu Richard, dopo mezz'ora che avevano trascorso a camminare in silenzio nelle strade deserte, sollecitati alle spalle dal vento di fine settembre. Lui non aveva neanche il cappotto e avanzava tutto teso, le membra smagrite accanto alle sue, due scheletri che avanzavano nella notte.

Verena rilasciò una densa nuvoletta di fumo dalla seconda sigaretta che si era accesa. «Cosa me ne faccio del tuo dispiacere?» disse, apatica.

«Quello che vuoi. Lo so che ti ho deluso.»

No, non era delusione. Non poteva essere delusa da qualcosa che aveva previsto. Aveva provato a evitarlo sino a questo momento, e stavolta non era riuscita a giocare d'anticipo, perché si era allontanata da lui. In parte era colpa sua. Era lei ad averlo messo in pericolo, lei ad averlo consegnato alle briglie di Sonne.

Il fatto che si fossero parlati era già segno di un declino imminente. Verena se ne sentiva gonfiare il petto come se dentro di sé stesse soffiando il respiro di qualcun altro: la fine arrivava così.

«Ma non ne sei pentito.»

«No.» Richard, in quell'istante, calciò una lattina di birra vuota ai suoi piedi. «In tutta onestà, lo rifarei. Avevo un bisogno di rivederlo che neanche immagini.»

«Neanche immagino? Lo dici a me?»

«Se sai cosa si prova, perché non hai mai provato a capirmi?» Si fermarono sotto a un ponte nei pressi della stazione. «Senti... hai detto che mi ami ancora. È la verità? O stavi solo provando a manipolarmi?»

Verena si appoggiò con la schiena al muro di cemento e scrollò la cenere dalla sigaretta, prima di fare un altro tiro. La quiete intorno a loro era abissale. Aveva la capacità di amplificare e rendere più grave ciò che si stavano dicendo.

«Che importa? Tanto sceglierai lui comunque.»

«A me importa. E poi non si è mai trattato di scegliere, Reni...»

«Adesso sì. Si tratta esattamente di prendere una posizione.»

Richard fece per accarezzarle una guancia, ma lei lo schivò e riprese a camminare.

Lo sentì sospirare forte dal naso. «Perché devi rendere tutto così difficile?»

Si girò di nuovo verso di lui, di scatto. «Perché non voglio più avere niente a che fare con Sonne! Ancora non è chiaro? Non voglio tornare strisciando da lui come stai facendo tu, da vero vigliacco!» Scosse la testa con sdegno. «Dovevamo cominciare a vivere davvero la nostra vita, a emanciparci, perché non possiamo sottostare a un legame in cui un'altra persona ha un potere spropositato su di noi... e per liberarcene c'era bisogno di tagliare del tutto i ponti con lui. Invece hai fallito su tutta la linea, hai fatto fallire entrambi, solo perché non riesci a sopportare la sua assenza! Povero Richard, gli manca il fidanzatino! Ma dov'è la tua dignità? Non ce l'hai, un po' di orgoglio?»

Richard prima si immobilizzò e la guardò con occhi sgranati, come se non riuscisse a concepire che lei lo stesse davvero insultando così, poi si fece scuro in volto e le disse freddamente: «Emanciparci? Credi che siamo emancipati, adesso? Non abbiamo anche ora un padrone che può fare di noi ciò che vuole?» Dopodiché la superò con una spallata e affrettò il passo.

Verena rimase spiazzata da quelle parole. Non ci aveva mai pensato in quei termini. Ma era ancora convinta che non fosse la stessa cosa. «Alla casa per la gioventù non avevamo padroni, eppure ti faceva schifo lo stesso!» Non ottenne risposta. Lo seguì solo per non rimanere indietro. Dopo qualche minuto arrivarono alla locanda, davanti alla quale il vento aveva depositato un tappeto di foglie e buste di plastica. L'insegna al neon era già spenta. Richard salì le scale, svelto, e si fiondò in camera con malcelata furia.

Non appena lei richiuse la porta sembrò pronto a darle un annuncio. «Ho deciso. Torno a vivere da lui.»

L'effetto fu quello di una coltellata alla gola, dritta alla giugulare. Senza rendersene conto, Verena indietreggiò verso un angolo della stanza, calpestando le lenzuola riversate per metà sul pavimento. Già accadeva, così in fretta...?

«Richard...»

«Non me ne frega più un cazzo. Mi sono rotto di essere sfruttato in questo buco di merda. Se tu vuoi restare, fa' pure.»

«Non puoi... non puoi farmi questo» gemette lei. «Io non me ne sono andata quando avrei potuto, con Karolin. L'ho fatto solo per te.»

«Hai detto che dovevo scegliere. Questa è la mia scelta. Evidentemente non ho il tuo stesso buon cuore, ma pazienza.»

Verena non ci vide più. Gli si avventò addosso spintonandolo. «Cosa ti ha detto?!» gridò. «Che razza di lavaggio del cervello ti ha fatto?»

Richard la spintonò a sua volta. «Mi ha chiesto di parlarti e ne avevo tutte le intenzioni, ma è impossibile ragionare con te! Me ne vado e basta. Se ci tieni a me, a noi, puoi seguirmi, altrimenti va' a farti fottere! Vattene dai tuoi amici, se ne è rimasto ancora qualcuno, e comincia la cazzo di vita che hai sempre sognato! Tanto sarà una merda ovunque.»

«Lo sai che non posso! Lo sai benissimo che mi costringi a seguirti! È un ricatto!»

Continuarono a urlare per un bel po' e a gettarsi in faccia l'avversione che covavano da mesi, facendo anche finta di non sentire un paio di colpi al muro picchiati da qualcuno nella camera adiacente, finché la diga che tratteneva la disperazione di Verena non si sbriciolò al suolo. Il suo pianto esplose dal nulla, non solo dagli occhi ma persino dai pori della pelle, da tutto il suo corpo che tremava. Si sedette sul letto perché non riusciva più a reggersi in piedi, né a parlare, né a respirare.

Richard venne investito da quei versi straziati, e se all'inizio provò a reagire con indifferenza, dopo poco fu evidente che si sentiva in colpa, come ogni volta che la vedeva piangere. Si sedette accanto a lei, ma senza toccarla, con le mani intrecciate.

Aspettò che si calmasse.

Ci volle del tempo. Il tempo necessario a espellere tutta la sofferenza che le abbracciava la carne, che pure si sarebbe rigenerata presto dal suo midollo.

Era quasi l'alba quando Richard le disse, in totale limpidezza: «Non capisco perché consideri tornare da Sonne una tragedia.»

Verena si ripulì il viso dalla bava e dalle lacrime, spolpata fino all'osso. Le sembrava di essere più leggera e più pesante al contempo, di potersi sollevare in aria come un palloncino e poi sprofondare a terra spaccando il pavimento. «L-la cosa che mi fa p-più male... è che non hai p-pensato neanche per un s-secondo a me... a q-quello che lui mi ha f-fatto...»

«Ancora li confondi? Il Sonne dell'altra parte non è lui. Me ne sono accorto anch'io prima quando l'ho incontrato, è così palese.»

Verena lo ignorò. «Al p-posto tuo io... io avrei p-preso una posizione contro q-questa v-violenza. Invece non te ne importa più n-niente. Io avrei rinunciato per p-principio a stare con una p-persona come lui sapendo... sapendo il male che è in g-grado di fare.»

Richard le prese il mento e la fece voltare verso di lui. «Lui non ci ha mai fatto del male. Mai.»

«Vedi? Non vuoi p-provarci neanche a m-metterti nei miei p-panni.»

«E tu? Tu ci provi a metterti nei miei?»

Verena scostò di colpo il volto e andò a stendersi mollemente sul lato del letto a ridosso del muro, quello che di solito era il posto di Richard. Gli diede le spalle, quasi attaccata alla parete, che sfiorava con la fronte. Le lacrime le avevano fatto appiccicare delle ciocche di capelli sulle tempie. Si avvolse il busto con le sue stesse braccia, immaginando che fossero quelle di un'altra, indefinita persona. Forse la madre che non aveva. Non aveva mai desiderato una madre con tanta intensità come in quel momento, qualcuno che la tenesse stretta come avrebbe fatto lei con Lili. Aveva sempre avuto soltanto dei padri.

Tirò su con il naso. «C-ci sono già, nei tuoi panni. T-tutto quello che devo sapere è che lo ami.»

«E non basta?»

«No.»

«Però almeno guardami...»

Non lo guardò.

Trascorsero almeno un altro paio d'ore in silenzio, mentre i primi raggi del sole – in un giorno che si prospettava senza nuvole – penetravano dalla finestrella in alto. Anche Richard si stese, a pancia in su e distante da lei. Finse di dormire, ma la verità era che stavano entrambi a rimuginare sulla propria incomunicabilità, immobili sul materasso e svuotati come due morti dopo un'autopsia. Il fatto che Richard non comprendesse il suo dolore la atterriva. Lui, che l'aveva sempre compresa.

«Hai ragione» disse l'altro all'improvviso, quasi non avessero mai interrotto il discorso. Non avevano nemmeno cambiato posizione, e le lenzuola erano aderite addosso come una pellicola di plastica. «Lui a me non ha mai fatto niente. Neanche l'altro Sonne.»

Verena, ancora, non sollevò la testa dal cuscino stropicciato.

«Ma tu l'hai avuto per più tempo... È questo, è questo che non ti fa immedesimare. Io avevo appena iniziato a godermi il suo amore, e mi è stato strappato via da un giorno all'altro. Per mesi sono dovuto scendere a patti con l'idea di essere nient'altro che il clone di una persona morta, di non avere una mia identità... e sai cosa mi ha detto, quando l'ho incontrato? Che mi sbaglio. Che ama la persona che sono io. Lui è l'unico che può tirarmi fuori dalla spirale in cui sono caduto, perciò ho bisogno di tornare.» Non ricevendo risposta, le si accostò piano e le sfiorò una spalla. Il suo respiro le si srotolò sulla nuca. «Ti prego, puoi capire questo? Non puoi essere più accomodante? Non sai quanto gli manchi... Me l'ha detto, e lo sai anche tu che muore dalla voglia di rivederti. Che male ti può fare? Contro cosa combatti

Lei serrò le labbra. Non aveva intenzione di rispondere più a nulla, anche perché ogni cosa che diceva Richard era peggiore della precedente: il mutismo era un candidato migliore delle parole a spiegare quanto fosse sbigottita, impotente, umiliata da quel discorso. Perché toccava a lei il fardello d'essere quella comprensiva? Perché doveva essere lei a rinunciare alla sua libertà, alla possibilità di decidere per se stessa?

Dinanzi al muro che aveva innalzato, Richard si arrese. Lo sentì deporre le armi, tranciare definitivamente l'ultimo anello che li univa, un'estensione in cancrena.

Basta.

Non fece male solo perché aveva già fatto male tutto il resto.

Lui si alzò dal letto, lei ascoltò i suoi movimenti rapidi mentre si cambiava i vestiti. Aprì la porta, ma prima di uscire le disse, senza alcuna emozione: «Questo è l'ultimo giorno che lavoro qui. In mattinata chiamo Sonne per avvisarlo. Hai ancora un po' di tempo per pensarci. Poi, arrangiati.»

La lasciò sola, e fu un sollievo. Verena ritrovò un minimo di energie per sporgersi verso la mensola e afferrare la videocamera, dov'era già infilata l'unica cassetta vuota rimasta. La accese e se la puntò in faccia dal basso, tenendola in grembo tra le gambe incrociate. Un pallino rosso segnalava che la registrazione era iniziata. REC. Fissò l'obiettivo, ne picchiettò la lente con un'unghia.

«Tienimi qui ancora per un po'» mormorò.

Non era come essere guardata da Sonne. Qualsiasi sguardo, umano e non, non era comparabile al suo, non la faceva sentire altrettanto eletta alla vita. Verena non fingeva che separarsene non fosse stata un'amputazione improvvisa. Essere al centro degli occhi di un dio... Non ricordava dove avesse sentito quest'espressione che ora le frullava in testa. Rifiutare colui che era stato il suo dio aveva richiesto una forza interiore che, nelle prime settimane, si era convinta di non avere. Poi si era ricreduta.

Era fiera di se stessa. Fiera di essere riuscita ad andare avanti nonostante si sentisse persa nel caos del mondo in cui era ospite, in cui eppure, per scelta, rivendicava di appartenere. Era questione di decisioni, sempre. Di conquistarsi la propria autonomia. Di essere Verena e non Vera.

Era questo che Sonne non sopportava, quel lato che in Richard non era altrettanto sviluppato, anzi, che era di gran lunga più docile. Ecco perché l'altro Sonne non gli aveva fatto del male, perché aveva tentato di mettere in riga con la violenza soltanto lei: sfidava la sua divinità con il solo fatto di esistere.

In qualche modo, la sua presenza intralciava il loro idillio maschile.

In quel momento sollevò il bordo della maglia e sbottonò i jeans per controllare la cicatrice sul ventre. La videocamera la riprese, e riprese da vicino quella striscia dentellata di pelle rosea sopra il pube.

«Guarda» disse al nessuno che avrebbe visto la cassetta, invitandolo con l'indice a seguire la lunghezza della ferita. «Sono passati nove mesi, il tempo di una gravidanza. Vuoi sapere cosa ho raccontato a chi l'ha vista?»

Dalla strada giungeva il rumore dei primi tram del mattino. Nel corridoio, i passi appesantiti e familiari di Maria che andava a preparare la sala ristorante al piano di sotto.

Verena temporeggiò, sbadigliò, mortalmente stanca. La maglia le ricadde sgualcita sulla pancia. «L'idea mi è venuta quando una mia compagna di stanza alla casa per la gioventù – non Karolin – ha notato la cicatrice mentre mi stavo spogliando... Credo che qualcun altro ci avesse già fatto caso, ma era la prima volta che mi veniva chiesto cosa fosse successo. Così ho pensato di inventare una storia. Quella che desiderava sentire.»

Era una storia semplice, all'inizio. Si era arricchita di dettagli solo in seguito, nel flusso delle persone che incontrava. Dapprima aveva raccontato che era incinta, che aveva avuto un cesareo d'urgenza ed era stata costretta ad abbandonare la bambina, a cui nemmeno aveva dato un nome. «Gesù, ti hanno fatto un taglio orribile» aveva commentato la prima ragazza. «È Richard il padre?», «No.» Poi la bambina era diventata Lili. Con una zazzera elettrizzata di capelli biondi sul cranio da neonata (la immaginava, da grande, come la ragazza che aveva incontrato nella foresta in una delle prime sparizioni). L'aveva tenuta solo per qualche giorno, dopodiché l'aveva abbandonata in un cesto avvolta in una coperta all'interno del Duomo, perché non aveva il latte per lei né un luogo sicuro in cui farla crescere né i soldi per farla sopravvivere. Se non avesse rinunciato a lei sarebbe morta. Dopo mesi era venuta a sapere che era stata affidata a una giovane coppia di insegnanti, gli Hansen, e si era ripromessa che sarebbe andata a trovarla quando si sarebbe sistemata. «Tornerò dalla mia Lili» diceva sempre con un sorriso, la formula finale che chiudeva la narrazione. Di solito gli ascoltatori, commossi, le mostravano ammirazione per la straordinaria forza d'animo e si convincevano, insieme a lei, che in fondo fosse giusto nutrire un po' di speranza.

Lili era la sua speranza.

Ci si era affezionata. Si era impegnata a tal punto nel costruire quel racconto, quella vita alternativa, giorno dopo giorno, che aveva quasi iniziato a credere di avere davvero una figlia immaginaria da riabbracciare, da qualche parte. E pensava che forse, credendoci con tutta la dedizione possibile, anche lei sarebbe diventata reale. Aveva trascritto ogni cosa su un quadernetto piena di ardore creativo, fremendo di dire a Sonne: Vedi? Anch'io sono brava a inventare storie.

Ma si era presto resa conto di non avere il suo stesso dono, quello di portare in vita ciò che scriveva. Era stata sciocca anche solo a prenderlo in considerazione. Sonne le aveva tolto il potere di creazione. Il senso era diventato lampante: era un potere che voleva tutto per sé. Non era stato necessario ucciderla per toglierglielo. Era bastato rimuovere un singolo pezzo.

L'unica a cui aveva detto la verità era Karolin. Stavano strette sulla branda superiore di uno dei letti a castello, un pomeriggio, dopo aver fatto un salto alla mensa cittadina dove Juditha e altre donne lavoravano come volontarie. Verena stava giocando con i suoi liscissimi capelli color cioccolato, che odoravano sempre di buono. Si era appena tagliata la frangetta da sola con delle forbici da cucina, così il suo viso dai tipici tratti turchi pareva avere una forma nuova, tutta da riscoprire. D'un tratto Karolin le aveva accarezzato senza malizia l'estremità della cicatrice che spuntava da sotto il maglione. I suoi polpastrelli le avevano causato un brivido piacevole. «Ti manca?» aveva chiesto, con voce di melassa.

«Lili non esiste, Karo. Ho solo avuto un'isterectomia.» Le era venuto naturale dirglielo, con quella esatta schiettezza, e poi le aveva più o meno spiegato perché avesse bisogno di raccontare quella storia. «Non dirlo a nessuno, per favore.»

Karolin, come si aspettava, non aveva fatto una piega. Aveva solo arricciato quel nasino a patata, e infine le aveva posato un velocissimo bacio sul lembo di pelle scoperto, con una casualità così sconcertante che le aveva fatto venire il dubbio di poter effettivamente provare ancora del desiderio per qualcuno. Sapeva che sarebbe stata ricambiata; Karolin stravedeva per lei, come solo una diciottenne avrebbe potuto per una ragazza più grande. Senza contare che si impicciava di rado nei problemi altrui, per questo non aveva mai indagato sui suoi litigi continui con Richard, o sul perché lui diventasse così ostile quando le vedeva insieme. Si godeva la presenza delle persone intorno a sé e basta, senza preoccuparsi dei segreti che nascondevano, delle menzogne che gli riempivano la bocca. In un certo senso, si trattava di una deformazione professionale. Da aspirante attrice di teatro, le importava poco delle sovrapposizioni tra finzione e realtà. Il suo modo di vivere, alla giornata e in totale cooperazione e fiducia nel mondo, aveva colpito Verena sin da quando era arrivata alla casa per la gioventù, qualche settimana dopo di lei, in fuga dai genitori alcolizzati.

Le uniche altre due domande che ricordava esserle state poste da Karolin non riguardavano la bambina. Una sera le aveva chiesto: «Chi è il lui di cui parlate sempre?»; e un'altra, una delle ultime volte che si erano viste: «Perché non vieni a Berlino con me? Lì ci sono molte più opportunità per entrambe.»

Opportunità. Quanto ne avrebbe avuto bisogno. Quanto avrebbe voluto dire di sì. Forse a Berlino c'era una Lili fatta della materia dei sogni e della felicità che l'aspettava.

Ma non l'avrebbe mai incontrata.

Verena aveva scelto Richard, e adesso pagava le conseguenze di quella scelta. A parti inverse, lui non aveva esitato a lasciarla indietro.

Aveva capito in fretta perché odiasse Karolin così tanto, perché aveva fatto una scenata quando aveva scorto per caso il loro unico bacio sulle labbra in poco più di due mesi: non sopportava l'idea che lei, a differenza sua, potesse essere felice senza Sonne.

Era diventato il suo secondino.

Concluse il racconto di Lili davanti all'obiettivo, prosciugata persino della tristezza. Questa volta, proprio ora che Lili cominciava a sfumare, l'aveva ampliato ancora di più, aggiungendo dettagli a cui non aveva mai pensato prima, come la tutina con i koala che la bimba aveva indosso quando l'aveva abbandonata, il sonaglio con il nome che le aveva lasciato nel cesto, il suono del suo respiro quando dormiva.

Pensò, per qualche motivo, che le sarebbe piaciuto rivedere quella cassetta parlata, quella testimonianza cruda che stava dando di se stessa nel suo momento di maggiore debolezza. Sentiva anche che doveva reagire, anche se avrebbe voluto cadere all'indietro e perdere i sensi, ma doveva mostrare a quell'occhio potente che credeva di aver registrato tutto che c'era ancora qualcosa di inafferrabile e indomabile in lei.

Senza una pausa, senza logica, appoggiò la videocamera sul materasso e si posizionò a quattro zampe di fronte ad essa.

Avanzò circospetta, con gli arti che a stento la reggevano, le mani verso l'interno e i gomiti a formare due angoli di novanta gradi, finché non ebbe l'obiettivo a qualche centimetro dalle mascelle; allora ringhiò forte contro lo spettatore mostrando i denti, sino a perdere il fiato.




Le ore della mattina furono lunghe e angoscianti.

Verena rivide Richard direttamente nella cucina del ristorante, chino sul lavandino. Era con la testa altrove; forse stava già programmando quello che doveva dire a Bruno per licenziarsi in grande stile. Ecco un'altra cosa a cui non aveva pensato: se Richard avesse smesso di lavorare lì, di sicuro Bruno avrebbe cacciato anche lei. Non gli conveniva tenere una camera occupata per una sola persona. E non sarebbe stato difficile sostituirli con altri lavapiatti.

Si era messa a strofinare mestamente le tazze e i piattini della colazione. Ogni tanto Richard la osservava di sottecchi, e lei osservava di sottecchi lui, ma non avevano mai incrociato gli sguardi.

Prima di pranzo le venne voglia di accendersi una sigaretta. Non ricordava più nemmeno quando avesse cominciato a fumare, di preciso. Ma Richard si era ripreso il pacchetto e non le andava di chiederglielo di nuovo. Uscì comunque all'aperto tra i numerosi passanti, per sedersi a uno dei tavolini esterni, senza togliersi il grembiule. I minuti si susseguivano pigri in quella gradevole giornata assolata. Verena alzò il volto verso i raggi per godersi un po' di calore sulla pelle, e per un attimo le parve che il sole avesse una forma di falce.

Nonostante le venisse il rigetto al solo pensiero, doveva prendere una decisione. Considerò tre opzioni. Convincere Bruno a farla restare (ma chi l'avrebbe coperta con lo sguardo ogni minuto per non farla sparire?); cercare un altro posto in cui stabilirsi, anche in un'altra città, un altro paese (ma c'era il problema che dopo una sparizione sarebbe sempre rispuntata a Brema, vicino a Sonne); tornare da Sonne insieme a Richard, in catene.

Più rimuginava, più la rabbia le ribolliva nello stomaco. L'ultima soluzione era senza dubbio la più ragionevole.

Maledì ancora la stupidità di Richard, il suo stupido ideale d'amore, la sua debolezza, la sua immaturità, la sua ingenuità. Un misero assaggio del mondo esterno, del mondo extra-Sonne, gli aveva subito fatto venire voglia di tornare da lui, nel feudo di cui era il signore.

Lo capiva, che il patrocinio era preferibile allo sfruttamento, ma Richard non riusciva a vedere che la sua esistenza poteva essere molto più di quello, o che esistevano altre vie, e che non aveva bisogno dell'approvazione del creatore per poter essere un individuo completo. Lei era arrivata a quella conclusione con immensa gioia. Era il suo atto di volontà più grande, vivere oltre Sonne. Richard invece stava scegliendo una forma di vita più parassitaria, dov'era Sonne il parassita, a cui era ben felice di offrire la propria linfa.

L'amore non doveva essere annullamento.

Verena era consapevole che il loro legame fosse una schiavitù, gliel'aveva detto lei stessa, ma credeva anche che bisognasse lottare strenuamente per autodeterminarsi. Per questo tornare da Sonne sarebbe stata una disfatta, oltre che una vergogna. Non sarebbe tornata. Non lei. Anche se era la soluzione più ragionevole. Anche se Sonne le mancava. Era naturale che le mancasse, non poteva che essere così per un sentimento complesso e contraddittorio come quello che li univa, ma non era abbastanza perché si fiondasse di nuovo tra le sue braccia. Per due volte era fuggita di casa: prima dai suoi fratelli, poi da Sonne. Pur amandoli con tutto il cuore, non accettava di vivere con persone che le facevano del male. Era sempre stata incline al perdono; ma certe cose non potevano essere perdonate. Il suo dio non poteva essere perdonato.

Perdonare e donare: si ricordò così di quel concetto che la affascinava tanto – le era stato inculcato con la penna e l'inchiostro, o era venuto dopo che era nata in questo mondo, come tante altre sue convinzioni? Se negava il perdono, avrebbe dovuto negare anche il dono che Sonne le aveva fatto.

L'amatissima vita in cui nuotava.

Un dono per cui c'era solo una fuga possibile, e che non avrebbe mai intrapreso. Dunque per vivere doveva perdonare? Annullarsi per qualcun altro, rassegnarsi?

Si prese la testa tra le mani e, a vederla in preda allo sconforto, una passante con un labrador al passeggio le lanciò uno sguardo di pietà.

Rientrò nella sala vuota, dove Bruno stava parlando con Richard insieme agli altri ragazzi della cucina e Maria stava mormorando una preghiera con il rosario intrecciato alle dita, seduta a uno dei tavoli. Era una scena a cui si era abituata: Maria pregava decine di volte al giorno, in qualsiasi posto si trovasse. Verena le si avvicinò, attirata da quella cantilena familiare, e capì che stava recitando il Padre Nostro. Venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. Dein Reich komme, dein Wille geschehe, wie in Himmel so auf Erden.

Quando ebbe finito, si voltò e agguantò una grossa ciotola di patate crude che aveva appoggiato sul tavolo dietro. Iniziò a sbucciarle con il coltello, e sempre con gli occhi puntati in basso, sulla tovaglia di carta a quadretti. Dovevano essere pronte per preparare la specialità del giorno, un piatto di pasta tipico della sua regione.

«Ti serve una mano?» le chiese Verena.

Maria alzò finalmente il mento e la squadrò con un'espressione interrogativa, come se non avesse capito la domanda, quasi sospettosa. Poi annuì e le fece cenno di sedersi di fronte a lei.

Verena la osservò in silenzio per qualche minuto mentre scartavano le bucce, entrambe con grande dimestichezza. Aveva un volto dai tratti torvi e ruvidi, e antichi in qualche modo, nonostante non fosse così vecchia. I capelli erano già d'un grigio metallico, ma le sopracciglia le erano rimaste nere, folte. Il rosario le ondeggiava sul seno abbondante.

«Stavi pregando per Antonio?» le chiese ancora, piano, perché afferrasse la frase.

Le rughe le si distesero dalla sorpresa, ma non volle darlo troppo a vedere. Aveva capito. Le era bastato il nome, a cui il suo corpo si metteva sull'attenti di riflesso. Non sollevò lo sguardo dalla patata che aveva in mano, però s'interruppe per un istante.

«Sì. Sempre.»

«Cosa gli è successo?»

Maria tossì, forse a disagio. Probabilmente non aveva ancora fatto il callo al vizio dei tedeschi di andare dritti al punto. Probabilmente non ne avrebbe voluto parlare e basta, tantomeno con lei. Ma aveva altre persone con cui parlare, oltre al marito? Chi la ascoltava, chi la confortava lontana da casa? Restia, sfregò il pollice indurito sulla parte non tagliente della lama. «Incidente fabbrica, gli è...», ma non seppe tradurre il resto.

Verena annuì comprensiva. «Mi dispiace. Anch'io avevo una figlia.»

Solo allora Maria si fermò, si immobilizzò. Le sue pupille la perforarono. Non se lo aspettava, immaginò Verena. Non si aspettava di avere qualcosa in comune con la ragazza che faceva lavorare e vivere a nero sotto il suo stesso tetto e di cui non aveva mai saputo nulla, di cui neanche ricordava il nome, che a quanto pareva si era fatta mettere incinta prima del matrimonio come una poco di buono. Ma Verena voleva darle qualcuno che empatizzasse con il suo dolore in quella terra estranea, in quella lingua estranea. E aveva il disperato bisogno di qualcuno che empatizzasse con lei, anche a costo di ripescare un'altra volta quella bugia.

Richard passò accanto al tavolo e alzò gli occhi al cielo, come a voler dire: ancora con questa storia. Le aveva sentite. Verena sfregò d'istinto il pollice sulla parte tagliente della lama. Richard aveva sempre saputo che andava raccontando storie fasulle sulla cicatrice, ma non gli era mai interessato sul perché lo facesse né aveva ascoltato il racconto completo; neppure Verena aveva mai condiviso spontaneamente con lui i dettagli che ideava man mano, perché era una cosa che doveva appartenere a lei e basta – anzi, a lei e alle persone a cui sceglieva di raccontarla.

Lo vide andare dietro il bancone della cassa, dove era appoggiato il telefono. Doveva aver chiesto a Bruno il permesso per fare una chiamata. L'ansia la strozzò d'improvviso. Cercò di deglutire, e stavolta fu lei a piantare lo sguardo in basso.

«Verena... così giovane...» balbettò Maria. «Doveva fare attenzione...»

Allora il nome se lo ricorda. Per qualche motivo, quel particolare la rincuorò. «È successo l'anno scorso.»

«Come si... come si chiamava?»

Richard compose il numero dell'appartamento.

«Lili. Aveva delle manine così piccole e paffute, che già volevano toccare tutto... e i capelli elettrizzati come se avesse preso la scossa.»

«Pure Antonio, quando... piccolo. Le mani se le... mettere... sempre in bocca. E poi?» si sbilanciò Maria, sforzandosi di comprendere correttamente ogni parola. Si era persino rivestita di un'aria d'orgoglio, da donna vissuta che detiene tutta la conoscenza possibile in materia. Bruno le urlò qualcosa in italiano dall'altra parte della sala, forse che doveva sbrigarsi a sbucciare quelle dannate patate, ma lei lo ignorò.

Verena si voltò verso Richard: stava aspettando che Sonne alzasse la cornetta, con il telefono accostato all'orecchio e un pugno sul fianco, e la stava fissando in una vaga vena di sfida.

Cosa devo fare?

Cosa devo fare, Maria? Cosa devo fare, Karolin? Cosa devo fare, madre?

Accadde l'inevitabile. «Pronto?» disse Richard, illuminandosi di un sorriso paragonabile solo a quelli di un tempo, di un'altra vita.

Verena non poté sottrarsi al gelo che scivolò in lei. Era segno che la storia della sua speranza doveva finire con quella telefonata. Maria stava ancora attendendo il resto del racconto. Allora non le rispose "l'ho abbandonata" come aveva sempre fatto. Rispose soltanto, riuscendo a non far vibrare troppo la voce: «È morta dopo qualche giorno.»




Verena camminava accanto a Richard.

Quante volte avevano percorso insieme quella strada, quelle tracce? Quante volte la direzione era stata lui?

Pensava, mettendo un piede avanti all'altro: dovevamo essere destinati alla gente, al mondo qui fuori, e invece siamo nati solo e soltanto per il suo godimento. Forse era così geloso di noi che non ha mai dato una conclusione alle nostre storie per questo, per non dover assistere mai alla nostra fine e non permettere ad altri di appropriarsene.

La sua storia, in realtà, una conclusione ce l'aveva. Impersonando Dio, Sonne le aveva concesso di essere libera e di poter fuggire dalla foresta. Quale finale migliore? In lei c'erano dei buchi, certo, ma non era come con Richard, che si era interrotto bruscamente ed era rimasto a brancolare nella sua Amburgo immaginata prima di apparire in carne e ossa al suo creatore.

Ma anch'io sono stata spinta verso di lui.

Galatea, l'aveva appellata nelle ultime righe del racconto. Le aveva spiegato Karolin chi fosse: il mito di una statua che prende vita alle preghiere dello scultore, che se n'era perdutamente innamorato dopo averla modellata secondo le proprie fantasie.

Ma io non sono mai stata una statua.

Le era tornato in mente il libro di Christa Wolf che aveva letto. Anche lei attraverso la mitologia raccontava qualcos'altro, questioni attuali e universali. Pensava che un giorno le sarebbe piaciuto incontrarla. Dove abitava? Sarebbe mai passata a Brema per una presentazione, un seminario? Sarebbe stata una delle cose che avrebbe proposto a Sonne in futuro, si disse. Fammi conoscere Christa Wolf. Era ingiusto che conoscesse soltanto uno scrittore. Voleva incontrarne altri, incontrare delle scrittrici. Fare loro decine di domande e ascoltare punti di vista differenti sulla scrittura. Che rapporto avevano con i loro personaggi? Se Cassandra si fosse presentata in carne e ossa da Christa anche lei l'avrebbe imprigionata a sé? Le sembrava così assurdo.

Eppure, Verena stava tornando da lui.

Il sole, basso nel cielo brillante di quel pomeriggio, le pareva ancora falciforme e piuttosto appuntito.

«C'è un'eclissi?» chiese sottovoce a Richard, mentre scorgevano il campanile del Duomo da sopra i tetti dei palazzi.

«Mh?»

«Niente.»

Camminavano meccanicamente, con lo sguardo dritto. Richard era molto più rilassato di lei, lo intuiva dalla leggerezza nelle sue spalle, come se avesse dovuto trasportare un'incudine sulla schiena per mesi e solo adesso se ne fosse liberato. Era addirittura disabituato a quella leggerezza – no, ne era ubriaco. Quando si erano fatti la doccia insieme, prima di uscire, uno di fronte all'altra ma senza toccarsi, era rimasto per così tanto tempo sotto il getto dell'acqua, assente e appagato e pieno di un nuovo vigore nella sua nudità, che Verena aveva dovuto pregarlo di tornare in stanza. Per fortuna non c'era nessuno degli ospiti della locanda in fila per il bagno. Lui l'aveva ignorata, ma poi si era convinto. O almeno sembrava. Nei fatti, aveva perso ancora altro tempo a specchiarsi e tastarsi il corpo, pettinarsi, improfumarsi, scegliersi i vestiti, mettersi la matita nera sugli occhi, o meglio, quel moncherino di matita che gli restava e che non aveva più utilizzato da quando, l'anno prima, avevano cominciato a non uscire più di casa. Per un attimo anche lei aveva riflettuto su come presentarsi, però subito dopo non ci aveva più badato. Aveva osservato Richard per tutta la durata di quel rituale di preparazione, dapprima nel vapore del bagno e poi seduta sul letto, senza capire se ammirarlo, compatirlo o disprezzarlo.

Non stavano neanche ancora lasciando la Gasthaus. Non si erano portati le valigie appresso, né si erano ancora licenziati. Era stata l'unica condizione di Verena, a cui lui aveva inaspettatamente acconsentito. «Prima di decidere, voglio vederlo e parlarci almeno una volta.»

Richard gli aveva già anticipato il motivo della loro visita a telefono, ovviamente, ma almeno avevano rallentato e non si stavano già trasferendo.

Anche Sonne forse si stava preparando per quell'incontro. Quell'armistizio che era a tutti gli effetti un appuntamento più di diplomazia che d'amore.

Verena sentiva crescere l'angoscia mentre si avvicinavano al 124 di Violenstraße. Avrebbe voluto essere coinvolta dalla leggerezza di Richard. Avrebbe voluto essere arrendevole come lui e accettare la propria natura con la stessa ebbrezza. E dire che lei aveva sempre creduto nell'esistenza di un dio. Perché lo trovava più difficile di Richard, accettare?

Delle parole non sue le attraversarono i pensieri proprio in quel momento, proprio una citazione di Kassandra che ricordava di aver sottolineato sul libro di Sonne: Perché non voglio consentirmi questa caduta nella condizione di creatura? Che cosa mi trattiene. Chi mi vede.

Anche lei aveva disobbedito a un dio del sole e a un padre sovrano.

Il palazzo si stagliò davanti a loro nel suo colore originario, in quella luce, un crema che andava verso il giallo, con le finestre dalle cornici bianche. Richard suonò al citofono e Sonne gli aprì senza neanche rispondere.

Salirono le scale fianco a fianco. Si ritrovarono al terzo piano, davanti alla porta dell'appartamento, fianco a fianco.

Verena ripeté tra sé le cose che voleva dirgli, in una sorta di elenco, una lista da spuntare. A interromperla di colpo fu il volto di Sonne che comparve sulla soglia.

Alzò gli occhi su di lui come aveva fatto la prima volta che l'aveva incontrato.

Ricordava con precisione ciò che aveva provato allora: la meraviglia e il calore di aver appena guardato in faccia l'origine della propria vita. Ma capiva soltanto adesso quel sentimento che in passato non si era riuscita a spiegare. Adesso provava una sensazione spaventosamente simile, che non avrebbe dovuto esistere, non ora che era stata costretta ad andare da lui.

La sua mancanza venne colmata in una frazione di secondo. Dio le mostrava di nuovo il suo sorriso. E si sentiva uno schifo nel rendersi conto che le stava mozzando il respiro una gioia viscerale e primitiva, indipendente da tutti e tre.

Sonne spostò lo sguardo da lei a Richard, emozionato. Non disse nulla per qualche istante, poi solo: «Venite, entrate...», con le braccia larghe per accoglierli. La casa non era solo l'appartamento. La casa era lui.

Richard entrò e gli strinse una mano; Verena lo superò senza toccarlo, per ritrovarsi nel salotto. Era stata lì soltanto qualche sera prima, quando era ricomparsa dopo l'ultima sparizione. Eppure tutto le sembrava diverso. Di sicuro Sonne doveva aver rassettato e ripulito le stanze solo per loro. I mobili erano lucidi e nell'aria non c'era più puzza di chiuso, solo un odore di spray per ambienti dozzinale.

Anche lui era un po' diverso. Le stava tendendo ancora l'altra mano, e Richard la stava fissando come per incitarla ad afferrarla. Ma lei puntava al suo viso. Si era rasato per loro, non solo sulle guance ma anche sulla nuca, e adesso sembrava molto più il Sonne di un tempo, anche con quei rossori sulla pelle e il collo gonfio. Quando l'aveva visto qualche sera prima, steso flaccidamente sul divano, animato da un sonno inquieto, le aveva suscitato un moto di ribrezzo. Chi è questo relitto? L'aveva osservato giusto un secondo, e poi era fuggita via con il terrore che si svegliasse da un momento all'altro. Si era complimentata con il proprio istinto per questo. Non aveva provato lo stesso senso di completezza, forse perché non l'aveva guardato negli occhi e lui non aveva potuto darle il suo riconoscimento.

Possibile che si fosse fatto più alto, oltre che più grasso?

«Verena... dimmi qualcosa.» Era felice, felicissimo, ma c'era una nota scocciata nel suo tono, persino di rimprovero. Non la stava supplicando come quando le parlava nella testa – e lei aveva sempre resistito, a differenza di Richard. Ora che erano tornati di propria spontanea volontà da lui, non c'era più bisogno di alcuna supplica. Ecco cosa aveva fatto Richard. Gli aveva ridonato la superbia, confermandogli di aver avuto ragione: un giorno si sarebbero pentiti di averlo abbandonato, perché il loro posto era lì con il loro creatore.

«Richard ti ha detto perché siamo qui.»

«Certo. Perché vorreste tornare a vivere con me.»

Non era così, per Verena. Non voleva. Non vivere con lui, al massimo in quella casa. Cercò di dirglielo, ma le parole non vennero a galla dalla sua gola. Cercò di ricapitolare i singoli punti di cui voleva parlargli, cercò di farsi forza, ma non servì a nulla, aveva dimenticato tutto.

In quel momento la avvolse, come forse ci si sente avvolgere solo dalla morte, la consapevolezza che era stato tutto inutile. Temporeggiare e illudersi di poter contrattare con Sonne era stato un mero diversivo prima dell'inesorabile sconfitta. Se lui era il dio, in che modo avrebbe mai potuto stare nell'esistenza sul suo stesso gradino? In che modo avrebbe potuto fingere che il suo ruolo, connaturato in lui, non fosse quello?

La sua espressione compiaciuta, di trionfo, la inchiodò al pavimento.

Alla fine era stata fatta la sua volontà.

«Sì» disse Verena in un soffio.







Note d'autrice:

I'm back ♥ Torno con questo capitolo un po' speculare a quello precedente e altrettanto sentito da parte mia: se prima abbiamo visto la versione degli eventi di Richard, qui affrontiamo quella di Verena, a mio avviso più delicata e complessa (mi è piaciuto tantissimo raccontare la questione di Lili, ad esempio, l'unico tentativo di scrittura, orale e non, di Verena). Adesso dovrebbero esservi chiari i comportamenti di entrambi, e potete decidere quali loro ragioni vi rispecchiano di più, o limitarvi a sospendere il giudizio.

Voi ci sareste tornati, dal vostro creatore?

Perché Verena continua a percepire questo senso di morte nel riavvicinarsi a Sonne?

Ci becchiamo al prossimo capitolo, che spero di pubblicare a fine mese ♥ Un abbraccio!


Ps: il titolo, Dein Wille geschehe, significa Sia fatta la tua volontà.

Pps: vorrei incontrare anch'io Christa Wolf, Reni :(

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