Capitolo 4. Un pizzico al cuore

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"Ci innamoriamo ancora una volta e di nuovo si apre la spirale del cuore e dentro corrono melodie, risate, fiori e ali, e il mondo è come una festa e al centro c'è solo il nostro danzare."

Fabrizio Caramagna

Napoli, giugno 1946

Per Sarah i giorni passavano tutti uguali, nella monotonia di un lavoro diventato ripetitivo e senza grandi aspettative, nella solitudine alleviata soltanto da una vuota chiacchierata con la sua amica Hannah prima di andare a dormire, nel combattimento interiore per ricacciare la nostalgia dei momenti tristemente felici che furono con il suo Hermann. In questo tumulto di ricordi, aveva perso il sorriso e la gioia di vivere, limitandosi a sopravvivere e negando a se stessa anche le più piccole gioie quotidiane, come contemplare il mare al mattino. Aveva paura di incontrare di nuovo il giovane pescatore poiché, inspiegabilmente, già il solo pensiero di lui le rimandava alla mente il lato peggiore di Hermann. A volte si sentiva osservata, pedinata e sapeva che era Matteo che aspettava il momento opportuno per avvicinarla, conoscerla e, intanto, lei si preparava a chiudergli il cuore.

Finito il lavoro, Sarah si lasciò abbagliare dai colori rosso e arancio del tramonto e un'inaspettata sensazione di pace le attraversò il cuore, spingendola verso il luccichio dorato del mare. Si tolse le scarpe e la sabbia, ancora riscaldata dal sole della giornata, le fece raggiungere in fretta il bagnasciuga. Regalò a se stessa un lieve sorriso e iniziò a camminare verso il lato opposto alla banchina, con l'acqua, non troppo fredda, che le arrivava alle caviglie e le bagnava l'orlo della gonna. Era da tempo che non si sentiva così bene. Aveva superato di qualche passo il Miranapoli, un raffinato albergo a picco sul mare, quando iniziò ad avvertire di nuovo quella sgradevole sensazione di essere seguita e si volse, ritrovandosi di fronte il giovane pescatore, a piedi scalzi, con i pantaloni color marrone arrotolati al ginocchio, la camicia bianca, larga, un po' sbottonata alzata fino al gomito, i capelli più scarmigliati e gli occhi sempre sgranati in un'espressione di stupore.

"Quando smetterete di seguirmi?" gli domandò infastidita, quasi sprezzante per poi riprendere il suo cammino.

"Quando smetterete di fuggire da me?" ribatté Matteo con voce pacata, restando al proprio posto.

Di sottofondo le urla in dialetto delle mamme contro i loro figli che non volevano saperne di uscire dall'acqua.

Sarah si volse di nuovo e, con tono quasi di sfida, portando le mani ai fianchi, disse: "Che cosa volete, sentiamo?"

Matteo amò quel suo ostentato atteggiamento da smorfiosetta e desiderò sfiorarle le labbra, inarcate in un sorrisetto derisorio. Sapeva che qualcosa di speciale, di diverso si nascondeva dietro il suo modo di fare, di parlare e, al solo pensiero, ne era affascinato.

"Vorrei soltanto parlarvi... Dirvi quanto siete bella", le rispose palpitante di emozione ma Sarah alzò annoiata gli occhi al cielo che, intanto, iniziava a imbrunire.

"Chiedervi di incontrarci per un gelato o quello che volete", concluse Matteo mentre Sarah, con espressione seriosa, infilò le scarpe.

"Non ho tempo per queste cose", disse, lasciandolo nella delusione di una speranza malamente troncata.

Corse verso la strada con il peso del suo cuore accartocciato, indurito, spaventato, incapace di riaprirsi e accogliere il bene di un altro e con gli occhi inumiditi di tristezza e rimpianto per aver mostrato al giovane pescatore ciò che in realtà lei non era.

Si avvicinava la festa del Santo Patrono e la città era tutta in fermento. Di sera, la Cattedrale si gremiva e dai vicoli addobbati con fiori, luminarie e lenzuola alle finestre riecheggiava sempre il suono di tamburelli, chitarre e mandolini. Sul lungomare erano state allestite le giostre e le bancarelle di dolciumi e giocattoli e dappertutto si respirava un'aria di fremente gioia per la prima festa patronale dopo la fine della guerra. Una gioia che aveva il profumo di libertà, di nuove speranze e voglia di ricominciare e che tentava in ogni modo di contagiare Sarah. Il suo viso iniziò a distendersi in un'espressione più serena mentre Hermann tornava a essere un ricordo lontano. Matteo aveva smesso di seguirla e, se guardava nelle profondità di se stessa, si sorprendeva a sentirne la mancanza.

Uscita dal Gran Cafè, insieme alla sua amica Hannah, Sarah fu travolta dalla musica di tamburelli, fisarmoniche e triccheballacche. Sulla spiaggia, un gran numero di persone avevano improvvisato una danza a ritmo di pizzica-tarantella, scandita da una voce che cantava in dialetto antico.

Due ragazzine, ridendo a squarciagola, le sfrecciarono davanti dirette verso la spiaggia mentre Hannah, afferrandola per un polso, esclamò entusiasta: "Andiamo anche noi!"

"No, Hannah, io sono un po' stanca. Voglio tornare a casa", fece Sarah con tono annoiato.

"Dai, Sarah, non fare la guastafeste, andiamo!" insisté Hannah, strattonandola un po' e Sarah si lasciò convincere dalla sua espressione quasi supplichevole.

"E va bene", disse con un sorriso di resa.

Correndo, raggiunsero l'allegra compagnia e iniziarono a ballare l'una di fronte all'altra. Il ritmo di quella danza ricordava tanto il saltarello romano e la mente di Sarah andò alle sagre di quartiere e alle feste di paese, a quando la presenza della sua famiglia era un qualcosa di scontato e la solitudine neanche un pensiero lontano. Ma non permise alla malinconia d'insinuarsi ancora nel suo cuore e decise di essere felice, almeno per quella sera.

Seduto sulla sabbia, insieme ai suoi amici, Matteo la vide e fu subito un colpo al cuore che spazzò via ogni traccia di orgoglio. Stralunato, la guardava muoversi in una danza di capelli che fluttuavano come alghe del mare, danza di sguardi e di sorrisi che scintillavano ai raggi della luna, di guance arrossate dal calore dei fuochi accesi sulla spiaggia, danza di forme che sussultavano a ogni salto e giravolta che ne scopriva le ginocchia. Incurante di un altro possibile rifiuto, si alzò e, come ipnotizzato dal suono dei tamburelli e dal ritmo delle sue movenze, si diresse verso di lei. Si antepose alla sua amica che subito capì e indietreggiò, scomparendo tra la folla danzante.

Sarah si ritrovò davanti il giovane pescatore. Si sorprese ma non ebbe paura, non spense il suo sorriso, non rattristì il suo sguardo e continuò la sua danza insieme a lui. Un filo di barba su un viso già abbronzato, i capelli più ricci che cadevano sulla fronte imperlata di sudore, un'espressione vispa in due occhi color marrone come la terra in cui disperdere la sua tristezza e le mani protese verso di lei pronte ad accogliere le sue. Sarah lo vide bello in quell'aspetto un po' rude e trasandato e, mentre il ritmo dei tamburelli diventava più incalzante, sentì un qualcosa mai provato prima, come un formicolio nello stomaco, la mente svuotarsi da ogni pensiero e ricordo di Hermann e il cuore battere più forte, fortissimo, fino ad abbattere il muro che impediva a Matteo di entrare. Gli permise di stringere le sue mani e ballarono insieme. Gli sguardi allegri e complici, i sorrisi più larghi, le mani intrecciate fra un saltello e una giravolta, entrambi ebbero la sensazione di ritrovarsi da soli, sotto un cielo stellato, davanti a un mare immenso, illuminati dalla luce dei falò. Finita la musica, Sarah corse verso la riva del mare, ridendo, felice come non mai, libera, viva, con la speranza che Matteo la inseguisse e così fu. Si fermò sulla sabbia bagnata e si volse indietro: il giovane teneva le mani poggiate sulle ginocchia e, piegato in due, tentava di regolare il respiro.

"Allora?" le domandò sorridente e ansimante. "Posso offrirvi un gelato?"

"No", rispose con il fiato corto, ostentando un'espressione seriosa e suscitandogli l'ennesima delusione.

"Zucchero filato!" esordì divertita, con la spensieratezza dei suoi vent'anni ritrovati e Matteo rise in un profondo sospiro di liberazione.

"Si turnata, si turnata

e je me so' perze ancora

dint' 'e capille tuoje,

je t'apparteng ohiné.

Te voglio bene,

je penz assaje cchiù 'e te

e te staje zitt ohiné."

Alunni del sole, Tarantè

***

Campo di concentramento di Sachsenhausen (Lager sovietico speciale n. 7), 9 giugno 1946

Prigioniero in uno dei campi che fino a pochi anni prima aspirava a comandare, Hermann era legato a una sedia in una stanza buia, tremante e sudando freddo. Smagrito e rasato, con il viso tumefatto da sangue e lacrime, qualche osso fratturato e cicatrice da ustione, e un solo pensiero che lo teneva ancora in vita: Sarah. Uno dei due soldati russi lo slegò dalla sedia, facendolo cadere esausto sul pavimento e gli assestò un calcio nello stomaco. Hermann si rannicchiò in posizione fetale e il russo lo finì con uno sputo in faccia.

"Sporco nazista!" esclamò disgustato.

Delirante per le torture, le percosse, la fame, la sete e le violenze psicologiche, Hermann guardò la sua mano violacea aggrapparsi al pavimento sudicio e di colpo si ritrovò tra le lenzuola bianche del suo letto a Fossoli, con le dita che viaggiavano lungo la schiena nuda di Sarah fino ad affondare nei suoi lunghi capelli. Intanto, dalla camera di un fascista giunsero le note della canzone "Lili Marleen" e lui iniziò a canticchiarla ripetendone le parole nel suo italiano stentato. Sarah si volse, sorridendogli con aria dolce e assonnata e il soldato russo lo zittì con un altro calcio.

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