Capitolo 66. I fantasmi del passato

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"Perderti è come perdere la speranza

ed io ti ho perduto

non una ma un milione di volte

e ritrovarti è come sorgere dall'eterno peccato

per vedere le falle della vita."

Alda Merini, Amore

Qualcuno gli si fece vicino e, tra le palpebre socchiuse, intravide al suo fianco la sagoma scura del prete, figura sfocata la cui voce giunse alle sue orecchie ovattata, mentre gli chiedeva con tono apprensivo: "Va tutto bene?"

Hermann sollevò penosamente il capo, girando verso di lui lo sguardo e puranche le proprie parole le udì come lontane e ovattate.

"Sì, sì, tutto bene", gli rispose, quasi sbadigliando e avvalorandone così la bugia, mentre suoni e immagini tornavano alla normalità nell'eco di un boato interiore, "sono solo un po' stanco per il viaggio."

Con gesto sicuro, don Carmine pose una mano sul banco innanzi e si chinò leggermente per parlargli sottovoce per rispetto al silenzio del luogo, rivelando un qualcosa ch'egli non avrebbe potuto intuire: "Quasi dimenticavo di dirvi che, qualche mese dopo l'arrivo della lettera di Sarah, qualcun altro prima di voi è venuto qui a cercarla."

Nella testa di Hermann s'arrestò la corsa dei pensieri per affollarsi del trambusto silenzioso di mille interrogativi a cui solo in parte ricevette risposta.

"Ho dimenticato il suo nome, ma ricordo perfettamente che disse di averla conosciuta a Fossoli", dichiarò il giovane prete, in un crescendo di malinconia, "pover'uomo, era reduce da Auschwitz."

Fra i tanti uomini passati dal campo di transito, nessun volto riuscì a balenargli nella mente e si disorientò al pensiero che Sarah avesse intessuto rapporti così significativi con altri che non fossero lui tanto da farsi ricercare.

Tuttavia, nel contempo, convenne con la parte di sé rimasta lucida che v'era una priorità nelle sue preoccupazioni rappresentata dall'imminente e inevitabile soggiorno a casa dei genitori di Agnese che or ora lo attendevano, guardando da lontano alla scena.

Ebbe come la sensazione di esser stato scoperto e, per comprovare la sua farsa, volgendo a loro lo sguardo e la lettera a don Carmine, a quest'ultimo disse: "Tenetela sempre voi, nel caso gli zii dovessero ritornare."

E il sorriso che s'era imposto non riuscì a schiudersi sulla sua bocca.

Dirigendosi verso casa, i coniugi s'accorsero simultaneamente di non essersi presentati. A lui era stato sufficiente comprendere di chi fossero genitori.

Prima di fermarsi, guardandosi l'un l'altra con aria quasi stupita, poi volgendosi indietro con sorriso e mano protesa, marito e moglie gli facevano strada, portando Massimiliano la sua valigia, dopo non poca insistenza, e facendo sfoggio Vittorina di una chioma identica a quella della figlia.

Tutto gli sembrava così irreale, distante, sfocato, come un incubo a occhi aperti, mentre, al di fuori di se stesso, guardava il comandante del campo di Fossoli entrare in casa di coloro la cui figlioletta aveva condannato ad Auschwitz.

Modesto, accogliente e profumato di pulito, l'appartamento, situato all'ultimo piano di un edificio che portava i segni dei bombardamenti, non distava molto dalla chiesa.

"La casa dove abitavamo prima era più grande di questa e avevamo una stanza riservata agli ospiti." La voce della donna fuoriuscì malinconica fra le labbra sorridenti, mentre s'accingeva ad aprire una porta. "Questa è la stanza che abbiamo adibito a cameretta per la nostra Agnese, così al suo ritorno troverà tutto in ordine."

Hermann riuscì a intercettare lo sguardo dell'uomo, mentre abbassava la testa come segno inconscio di rassegnazione, prima ch'entrasse nella stanza per posargli sul letto la valigia.

"Il letto è un po' piccolo", proseguì Vittorina, giungendo le mani nell'atto di chiedere scusa, "ma per una notte penso che vada bene."

Ed egli mentì, con un sorriso appena accennato, consapevole di quali fantasmi lo avrebbero tenuto sveglio, dicendo: "Sì, andrà benissimo."

"Per cena avrei preparato un'insalata di puntarelle con acciughe", riprese la donna, mentre Hermann già pensava a come poter fuggire da tal momento di convivialità, condivisione ed eventuali scomode domande e fu forse frainteso il suo sguardo pensoso.

La battuta di Massimiliano avrebbe potuto introdurre una scenetta quasi divertente, se il contesto non fosse stato così tragico.

"Sarebbero i germogli della cicoria", era intervenuto, abbozzando una risata, "mia moglie dà per scontato che conosciate la cucina romana."

In effetti, Hermann non sapeva cosa fossero le puntarelle, ma il cibo non era neanche lontanamente nei suoi pensieri.

"Ma, se avete altre preferenze, vado un attimo dal pizzicagnolo sotto casa", aveva incalzato Vittorina, con una viva apprensione verso l'ospite, senza tener conto dell'intervento del marito.

Pensando che fosse quello il momento giusto per defilarsi, Hermann sorrise ancora e rispose una mezza verità: "Vi ringrazio per la premura, ma ho viaggiato un'intera giornata e sono così stanco che mi si è chiuso lo stomaco." Ad esso avvicinò una mano per enfatizzare col gesto la parola. "Desidero soltanto riposare", aggiunse e li persuase.

Sdraiato sul letto, fissava il soffitto con occhi sbarrati, giacché chiuderli avrebbe significato vedere più nitidamente i fantasmi del passato, mentre Agnese, dalla fotografia nella cornice sul comodino, con indosso l'abito della Prima Comunione, la folta chioma acconciata con una coroncina di fiori e le mani giunte in preghiera, pareva guardarlo.

Ricordava di aver rimproverato Sarah, lasciandole intendere che fosse a conoscenza del suo gesto di solidarietà verso la bambina. Quel cioccolato, molto probabilmente, era stato l'ultimo pasto di Agnese che, adesso, avrebbe avuto la stessa età del più giovane tra i fucilati al Poligono di Cibeno.

La sensazione di disagio nel trovarsi nella sua stanza, la vergogna e il senso di colpa per l'immeritata accoglienza dei suoi genitori, dato il male commesso, sembravano togliergli il respiro e, senza pensarci troppo, s'alzò dal letto per uscire fuori al balcone.

Tra antiche rovine e macerie belliche, nell'oscurità diradata da fioche luci in strada, a ridosso dei binari del treno che l'indomani avrebbe dovuto prendere, da lì, Hermann poteva vedere tutta la città.

Più forte della paura d'esser stato da Sarah dimenticato, lo tormentava la possibilità di un suo rifiuto, ch'ella, come Else gli aveva prefigurato e com'era già accaduto dopo l'Eccidio di Cibeno, lo avrebbe respinto, dandogli dell'assassino – e magari anche sputandogli in faccia, come preannunciato sempre da Else.

Nella nuvola di fumo della sigaretta appena accesa, ricacciò il timore di perderla e, intanto, le porte di un'altra stanza che dava sul balcone s'aprirono.

"Non è uno spettacolo Roma vista da qui? E dovreste vedere al tramonto!" Il padre di Agnese aveva esordito, col volto stanco ma sorridente, accendendosi anch'egli una sigaretta.

"Sì, un vero spettacolo", rispose Hermann e, nell'espirare, nascondendo dietro la nuvoletta di fumo occhi velati di sonno e malinconia, emise un sospiro.

"Magari potreste ritornare con Sarah e visitare insieme i luoghi più belli e romantici della città", riprese Massimiliano e distolse lo sguardo, scostandosi un po' verso il parapetto, alla ricerca di un qualcosa in cui spegnere la sigaretta, poi d'un tratto il suo tono divenne serioso, "caro Ermanno, è inutile che continuiate a nasconderlo, perché io ho capito fin da subito chi siete."

Hermann impallidì.

"Le mie gambe oramai sono stanche e vorrei

dare un po' di sonno agli occhi miei.

Scende l'oscurità, c'è una casa più in là,

il mio viaggio adesso finirà.

È per lei io vedo quella ferrovia

e fra i sassi la mia via

nel passato e nel presente corre già.

E vanno indietro gli anni miei

e si fermano con lei

che la mente mia non ha lasciato mai."

Nomadi, Tutto a posto

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