⁵³. 𝘉𝘳𝘢𝘯𝘤𝘰

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L'aveva trovata come sempre intenta a premere forsennatamente sui tasti del computer, senza emettere alcun suono. "Vorrei parlarti", le aveva detto, sentendo l'ansia irrorargli le vene. E lei gli aveva risposto nel solito modo: "ho da fare." Ma quella volta lui non aveva intenzione di arrendersi.

L'aveva osservata in silenzio, schiacciandosi sullo stipite della porta dell'ufficio. La figura di Iris, dietro alla scrivania, si muoveva impercettibilmente seguendo il ritmo del suo digitare.

Hermes aveva iniziato a saggiarla con uno sguardo clinico, esaminandola come se avesse voluto farle un ritratto. Non c'era alcun dubbio: era la stessa persona. I capelli erano uguali, lisci e neri, e sia la forma del viso che quella degli occhi combaciavano. In quei diciassette anni si erano aggiunte solo un paio di rughe ai lati della bocca, e delle spesse occhiaie, simbolo delle notti insonni che doveva aver passato dedicandosi al Progetto.

Iris aveva alzato gli occhi su di lui, osservandolo di traverso. "Sei ancora qui?" gli aveva chiesto. Lui aveva sentito il suo sguardo trapassarlo; tuttavia non si era mosso, cercando invece di ostentare una postura più tranquilla. Il linguaggio del corpo era fondamentale, nella comunicazione non verbale: glielo aveva insegnato proprio lei.

"Ho visto una tua foto", era riuscito a dirle, prima di pentirsene. "Con Eve."

Iris aveva ricominciato a digitare. "E allora? L'avrà scattata Jonas", gli aveva risposto.

Hermes aveva dovuto richiamare a sé tutta la propria forza. "No. L'ho vista a casa di Edin. Sul comodino del suo co-abitante."

Per un momento aveva ricordato quella sera di una settimana prima, il giorno dopo l'Incidente del Quadrante. Aveva trovato quella foto in camera di Florian, ed era riuscito a tenerla in mano solo per pochi secondi, prima che scivolasse via dalle sue mani tremanti, frantumandosi per terra. Edin, anzi, Eddie, per fortuna non si era accorto di nulla. Quella sera non era riuscito a chiudere occhio, e aveva continuato a studiare quell'immagine sotto la flebile luce di una torcia. Con la sola costellazione dello Scorpione a fargli da testimone, dipinta sul soffitto della stanza di Florian.

Nei giorni seguenti era riuscito a legare abbastanza con Eddie, al punto da fargli spifferare tutta la sua vita e anche quella del suo co-abitante. Spingerlo a raccontare qualcosa era tremendamente facile, ed Hermes aveva compreso da subito quali fossero i tasti giusti da premere. Altruismo, senso di colpa, ingenuità: erano quelli i principali punti deboli del ragazzo. Informazioni che confluivano diligentemente nei rapporti che consegnava a Iris ogni mattina.

Tuttavia, c'era ancora qualcosa che impediva a Hermes di avere un quadro completo di quella storia. E le risposte, ne era convinto, si trovavano in quella fotografia di sua madre assieme a Eve. Assieme a Nadine.

Iris non gli aveva detto nulla per un bel po'. Dopo un tempo interminabile, gli aveva rivolto una risposta secca, quanto fasulla: "ti sarai sbagliato."

Hermes aveva iniziato a stringere i pugni, irritato. Aveva ricordato il racconto di Eddie, su come Florian si fosse procurato le cicatrici che aveva sul viso per salvare sua sorella e la sua ragazza da un'auto in fiamme, durante il Giorno dell'Espiazione. Per salvare quelle stesse persone che Hermes vedeva da una vita all'interno del Laboratorio. Non era solo Iris a essere identica alla ragazza della foto: anche Eve assomigliava alla bambina, seppur i tratti del suo viso col tempo si fossero affilati. Per non parlare degli occhi. Sembrava che Eve li avesse scippati dal viso di Florian per incastonarseli nelle orbite.

"Tu es une menteuse, Amélie." Sei una bugiarda, Amélie. Le parole gli erano uscite senza pensarci. Hermes aveva imparato il francese in Accademia, come seconda lingua dell'Unione Latina. Mai avrebbe pensato che gli sarebbe tornato utile in quel modo.

Lo sguardo che gli aveva rivolto sua madre non gli aveva lasciato alcun dubbio: aveva compreso le sue parole. Come in un film al rallentatore, l'aveva vista cambiare espressione, passando da una facciata di ostentata stizza a una debole rassegnazione. Gli aveva chiesto di sedersi di fronte a lui, incredibilmente senza ordinarglielo. Quella volta avevano parlato per un paio d'ore, ed Hermes aveva ascoltato con estrema attenzione turbato non tanto dal racconto, quanto dall'atteggiamento umano di sua madre. Un qualcosa che stonava terribilmente con l'immagine che aveva sempre avuto di lei.

Iris gli aveva raccontato del proprio rapporto con Florian, dei prodromi della sua idea riguardo la Stanza Bianca, dei discorsi fatti coi suoi colleghi dell'Università, Jonas e Saryu. Del Giorno dell'Espiazione, e del folle piano per sparire dal mondo assieme a Nadine. Delle difficoltà per nascondersi dai Quadranti, una volta scoperto che i chip impiantati nelle braccia di tutti erano nominativi, e andavano a confluire nelle banche dati dei Sorveglianti. Iris aveva risolto la situazione per sé stessa facendosi estrarre il chip da Jonas, ma non poteva fare la stessa cosa con Eve, dal momento che, per la buona riuscita del Progetto, necessitavano che il suo contatto col dolore fosse ridotto al minimo. E così l'avevano schermata dal mondo, con tutti i problemi che ne conseguivano.

Gli aveva raccontato di aver cambiato nome, e di essersi infiltrata come infermiera all'ospedale civile di Reinario, dove aveva avvicinato una donna per poterle sottrarre il bambino fertile che avrebbe partorito. Il resto della storia Hermes lo conosceva, grazie a Saryu, anche se Iris non poteva saperlo.

Sua madre aveva terminato il proprio racconto affermando che solo Jonas sapeva di Florian, e che Eve fosse in realtà sua sorella Nadine. Aveva poi aggiunto che la convivenza di Edin e Ian era stata solo una tragica coincidenza. Non avrebbe mai voluto coinvolgere ulteriormente quell'uomo nel Progetto, e a Hermes era sembrata sinceramente dispiaciuta.

Tuttavia, a quel punto aveva quasi smesso di ascoltarla, turbato da un solo pensiero: era stata sua madre a distruggere Florian. E, allo stesso modo, sarebbe stata lei a distruggere Eddie. Col tuo aiuto, gli aveva sussurrato la sua coscienza.

Una volta uscito dall'ufficio di Iris si era serrato in camera, gettandosi sul letto a faccia in giù. I pensieri avevano iniziato a trapanargli il cranio, scavandosi una trincea di dubbi e false certezze. E così, come era stato per Amélie decine di anni prima, la sua mente non aveva potuto far altro che cadere un pezzo alla volta.

***

Li vedeva aleggiare nei corridoi, strisciare negli uffici, aggirarsi nella sala di controllo. I dubbi. I ripensamenti. Da quando Yae era fuggita, era come se all'interno del Laboratorio ci fosse stato uno strappo netto. Come Messaggero, per lui non era stato affatto difficile capirlo: la tentata liberazione di Eve, ormai più di due mesi prima, sembrava aver scosso tutti nel profondo.

Nonostante tutti considerassero Yae una traditrice, Hermes aveva iniziato solamente ad ammirarla, nel buio della propria coscienza. Perché lei aveva avuto il coraggio di ribellarsi del tutto a Iris. Certo, anche lui aveva provato a sottrarsi al controllo di sua madre, svelando il Progetto alla Chiesa. Ma la differenza stava nel fatto che lei avesse messo a repentaglio la propria vita per Eve, mentre lui aveva fatto la spia solo per sé stesso.

Da quando aveva iniziato a conoscere Eddie da vicino, aveva cominciato a comprendere meglio anche Yae, e il suo sconfinato altruismo. Lo stesso che aveva visto addosso a Eddie, non di rado scambiandolo per ingenuità. Entrambi avrebbero messo da parte tutto ciò che erano per il bene di qualcun altro. Iris, invece, gli aveva sempre insegnato a sfruttare il prossimo, senza curarsene troppo. Per ottenere informazioni, per raggiungere degli scopi. Ma quell'involucro di "Messaggero" ormai gli stava stretto, come dei vestiti smessi che non avrebbe più voluto indossare.

Sempre più spesso si ritrovava a fissare i fogli dei rapporti da consegnare a Iris senza sapere bene cosa scrivervi. Il viso di Eddie gli sovveniva in mente come una stilettata, e ogni volta sentiva il cuore uscirgli dal petto. "Umile", aveva scritto, il giorno in cui aveva provato a fare un ritratto al ragazzo, salvo poi doversi interrompere per via del disagio che Eddie stava provando. "Altruista", era invece la parola che compariva più spesso nei fascicoli. Per far sembrare più asettici i report, Hermes finiva per aggiungere a posteriori alcuni termini dispregiativi. "Inutilmente altruista". "Sin troppo umile". Ma neanche in quel modo riusciva a nascondere a sé stesso i suoi sentimenti per Eddie.

A volte si convinceva davvero di essere Rein, un semplice adolescente intento a cercare la verità sul Quadrante. Aveva scelto quel nome, inserendolo anche sui documenti falsi che avrebbe portato con sé in presenza di Eddie, immaginando che fosse il nome che gli avrebbero dato se fosse stato davvero abbandonato all'ospedale di Reinario. E sempre più spesso si ritrovava a inventare una vita in cui Iris Svart – Amélie – non l'aveva mai preso con sé. Iris gli aveva detto che i suoi veri genitori erano morti, ma lui non le aveva mai creduto del tutto. Nonostante ciò, non si era affatto impegnato attivamente per cercarli. Gli bastava alienarsi in quella fantasia, forzandosi a diventare Rein. Voleva diventarlo. Avrebbe dato qualsiasi cosa al mondo per svegliarsi ed essere Rein. Ma nulla era così semplice.

Abramizde aveva intimato a Iris di accelerare il Progetto, e da lì a poco sarebbero passati alla Seconda Fase, quella che prevedeva il coinvolgimento diretto di Eddie. Presto sarebbe stato incaricato di portarlo lì, al Laboratorio. Aveva già preparato il terreno, fingendo l'esistenza di una LaBo di nome Emma, con la quale avrebbero dovuto incontrarsi. Aveva in programma di far dire a Saryu, incaricata di impersonare la LaBo per via telematica, di essere la stessa ragazza che Eddie aveva incontrato anni prima a una maratona, in modo da farlo fidare di lei. E invece, era stato Eddie stesso a fare a "Emma" quella domanda. In quel momento, Hermes si era chiesto sino a che punto fosse giunto a comprendere il ragazzo, prevedendone le mosse.

La sera in cui Iris aveva comunicato a tutti loro del prossimo passaggio alla Fase Due, Hermes era definitivamente crollato. Aveva raccontato a Saryu di essersi innamorato di Eddie, e le aveva mostrato il ritratto che aveva fatto di lui. Le labbra curvate in un sorriso, sulle quali soffermava lo sguardo sin troppo spesso, i capelli arruffati nei quali avrebbe voluto affondare le dita, la linea indurita della mascella. E, non ultimo, lo sguardo pieno di confidenza e affetto che gli riservava ogni volta. Come se stesse davvero guardando un amico, una persona buona. Era quella la cosa che gli faceva più male: sapere di non meritare affatto quello sguardo.

Anche in quel momento, Hermes aveva tirato fuori il ritratto, convenientemente nascosto da una pila di cartacce. E, come aveva fatto altre volte, aveva sentito gli occhi appannarsi, seguendo le linee che aveva tratteggiato a matita, con la sola memoria a fargli da guida.

***

Dalla camera proveniva una flebile musica, più tranquilla rispetto a quella che Hermes ascoltava di solito assieme a Eddie. Il ragazzo aveva attraversato il corridoio verso la stanza di Florian, evidentemente con un passo sin troppo leggero, tanto da non permettere all'uomo di accorgersi della sua presenza. Ed era stata proprio la sua furtività nel muoversi a fargli vedere ciò che non avrebbe mai voluto vedere.

Da uno spicchio aperto della porta di Florian, aveva potuto osservare le sue braccia ricoperte di cicatrici, nell'istante prima che le celasse con un pesante maglione di lana. Quando Ian si era girato verso la porta, era bastato lo sguardo allibito di Hermes a comunicargli ciò che aveva notato.

Florian aveva stretto le labbra amaramente, e lo aveva invitato a entrare. "Eddie mi ha detto di chiederti dove siano gli spaghetti di riso. Vorrebbe mangiarli a pranzo", si era precipitato a dire Hermes, al colmo dell'imbarazzo.

L'uomo si era passato una mano tra i folti capelli ricci, sorridendo. "Gli avevo chiesto di ricomprarli. Di' ad Alzheimer che li ha finiti lui due giorni fa". Aveva poi sospirato, passando a cercare la propria ID tra le sue cianfrusaglie. "Fra poco andrò a fare la spesa, magari chiedigli se ha bisogno di qualcos'altro."

Hermes aveva annuito in fretta, ancora scosso dall'immagine delle sue braccia. Aveva messo un piede fuori dalla porta, salvo poi sentire la mano di Florian posarsi sulla sua spalla, trattenendolo. "Aspetta, Rein. Rimani un momento, per favore."

E così si era seduto sul suo letto, osservando di sbieco la fotografia di Iris ed Eve che era ricomparsa sul comodino, in una nuova cornice dai vetri integri. Hermes si era sentito terribilmente irrequieto, mentre Florian aveva finto di allineare i rettangolini di plastica addossati allo stereo, e che Eddie tempo prima gli aveva spiegato fossero "cassette" piene di vecchie canzoni. Probabilmente una di esse era stata messa a girare nella grossa radio, perché la musica non si era interrotta.

"Mi dispiace per quello che hai visto", aveva esordito Ian. "Non dirlo a Eddie."

Hermes non si era aspettato affatto quella richiesta, ma non aveva dubbi che Eddie se ne fosse già accorto da solo, e anche da parecchio tempo. Le cicatrici di Ian erano tante, e molto spesse; sembravano le ferite inferte da una bestia feroce. Ma probabilmente la bestia di Florian non era che l'uomo che vedeva ogni giorno allo specchio.

Non aveva potuto far altro che promettergli di tacere. E così erano rimasti ancora un po' in silenzio, legati da quel segreto che continuava a tenerlo incollato al letto, nonostante solo pochi minuti prima avesse cercato di fuggire dalla stanza.

Avrebbe voluto fargli mille domande, ma temeva che dietro quelle ferite potesse esserci, ancora una volta, lo spettro di sua madre, come lo era nelle cicatrici da ustione che Florian aveva sul viso.

La musica aveva finito per riempire lo spazio lasciato vuoto dalle loro parole. Hermes, per distrarsi, aveva iniziato a concentrarsi sul testo.

Mother will never understand why you had to leave
But the answers you seek will never be found at home
The love that you need will never be found at home
Run away, turn away, run away, turn away, run away

Senza neanche accorgersene, Hermes aveva iniziato a piangere. Quelle parole si erano scavate una strada dentro di lui, colpendo la sua coscienza come la raffica di un fucile. La voglia di fuggire che aveva sempre provato, l'inquietudine che lo attorniava come uno spesso muro. I dubbi, il bisogno di affetto. Ognuno di quei sentimenti si era riversato su di lui, sovraccaricandolo sino a far scollare i labili contorni delle sue maschere.

Florian, ovviamente, lo aveva notato. Hermes aveva iniziato a singhiozzare, completamente incapace di arrestarsi. Le lacrime erano cadute a una a una sui suoi jeans chiari, senza neanche avere il tempo di scorrergli sul viso. Ian si era seduto accanto a lui sul letto, mettendogli gentilmente una mano sulla spalla. Quando si era accorto di non stare ricevendo alcuna reazione, si era allungato ad abbracciarlo. Hermes era rimasto rigido come un lampione, assorbendo il calore di quel contatto sino all'ultimo respiro. Aveva sentito il proprio corpo sfarfallare, racchiuso dalle braccia di quell'uomo sin troppo simile al padre che non aveva mai avuto.

Si era trattenuto ancora un po' in quel modo, con le narici solleticate dall'odore dello shampoo che permeava i riccioli castani di Florian. Gli stessi di Eve. Alla fine aveva dovuto staccarsi, più per asciugarsi il viso che per altro. Aveva visto Ian rivolgergli uno sguardo compassionevole, da dietro i propri occhi acquosi.

"Qualcuno ti ha fatto del male?" gli aveva chiesto. Hermes, in quel momento, aveva sentito uno spillo conficcarglisi nel cuore.

Sono io ad aver fatto del male, avrebbe voluto rispondergli. Sarò io a fare del male.

Gli aveva risposto di non preoccuparsi, e di aver semplicemente litigato con la propria madre adottiva. Florian non gli era sembrato particolarmente convinto, ma non aveva fatto ulteriori domande. "Non dirlo a Eddie", aveva infine detto Hermes, proprio come aveva fatto Ian.

Poco prima che potesse congedarsi definitivamente, Florian gli aveva rivolto un'ultima frase. "Prenditi cura di lui, Rein. È più fragile di quello che sembra."

Hermes aveva assentito con forza, chiudendosi la porta alle spalle. Aveva stretto la maniglia di freddo metallo, che gli aveva riportato alla mente l'altro freddo metallo che aveva tenuto in mano di recente: quello della pistola di Xander, trafugata un paio di giorni prima.

Era stato come calcolare un'equazione, tenendo conto di tutte le sue variabili. Eddie aveva in corpo un geolocalizzatore: non avrebbe potuto farlo allontanare senza che lo seguissero. Se anche avesse trovato il modo di estrarglielo, non avrebbe saputo dove portarlo. Il rifugio dei reietti, il Lethe, non era sicuro come pensava. La conversazione avuta al telefono con Yae non lasciava spazio ad alcun dubbio: "qui non abbiamo 'recinti' per accoglierlo. Dovrai trovare un'altra soluzione." Probabilmente lei stessa aveva dovuto celare l'esistenza del Progetto, temendo quello che avrebbero potuto architettare i Risveglisti una volta scoperto di avere una coppia di persone fertili tra le mani.

Aveva le mani legate: non era riuscito a trovare alcun modo per liberare Eddie dal suo destino di cavia dell'umanità. Hermes si era trovato senza volerlo di fronte a un burrone, che lo aveva sfidato con le sue scure propaggini.

Ma aveva capito che a volte, di fronte a un precipizio, l'unica soluzione è saltare.

Mi prenderò cura di lui, Florian. Presto saremo entrambi liberi.





- Angolino -

E così finiscono anche i quattro capitoli dedicati ai flashback. Ora forse molte cose risultano più chiare, anche se la tristezza non ci abbandona, soprattutto leggendo i pensieri di Rein / Hermes. Sono curiosa: che ne pensate di lui come personaggio, della sua psicologia? Scrivetemelo in un commento, se vi va. Alla prossima (e non vogliatemene troppo per il dolore provato. O almeno avvisatemi, così inizio a fuggire).


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