⁵⁴. 𝘙𝘪𝘣𝘦𝘭𝘭𝘦

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Il cielo aveva assunto un colore rossastro, a tratti inquietante. Delle righe arancioni più chiare lo percorrevano nella sua interezza, imitando grottescamente un tramonto. La nebbia era scesa sin quasi al livello della strada, e avvolgeva gli alti piloni del circondario facendoli sembrare delle lastre fluttuanti nel vuoto.

Yae si strinse nel suo cappotto bombato, raccattato nella pila di vestiti smessi che i Risveglisti del Lethe lasciavano a disposizione di tutti. Aveva un odore stantio, ma perlomeno riusciva a tenerla al caldo, lì nella zona più esterna alla roccaforte dei ribelli.

Per l'ennesima volta quella sera, estrasse la carta ID anonima che nascondeva in tasca, componendo febbrilmente il numero di contatto di Hermes. Le sue dita rattrappite dal freddo si muovevano a scatti, e il fiato condensato le appannava la vista.

Il ricevitore emise un suono gutturale, per poi interrompersi del tutto. Yae sospirò sconfortata, rifugiando nuovamente le mani nelle tasche del cappotto. Ancora niente. Era il terzo giorno che cercava di contattare Hermes, recandosi all'esterno. Tuttavia, la sua carta ID finiva per illuminarsi a vuoto, e il cellulare del ragazzo sembrava privo di vita. Come se lo avesse gettato in fondo a un tombino.

La preoccupazione aveva iniziato a distorcerle i pensieri. I suoi timori nascevano dal dubbio di non aver compreso appieno le parole di Hermes all'interno di quell'unica, azzardata telefonata. La frase di lui, "ho già un'idea", aveva cominciato a farle presagire il peggio. Anche prima di provare a fuggire con Eve, Yae sapeva che la missione di Hermes sarebbe stata, prima o poi, quella di avvicinare il ragazzo fertile coinvolto nel Progetto, Edin Mazur. Iris lo monitorava da anni, e dopo l'Incidente del Quadrante probabilmente aveva cercato di accelerare gli eventi. E ciò significava che Hermes doveva già essere entrato in contatto con lui.

Yae ricordava lo sguardo di Hermes, quando le aveva confessato di essere attratto dai ragazzi. Quello, e il fatto che Edin fosse un LaBo come lui, le avevano fatto venire un amaro sospetto, tutto sommato plausibile. Inoltre, Hermes le aveva anche detto di essere stanco del Progetto. In fondo è stato lui a vendere sua madre al Presidente, due anni fa. Da quando Saryu l'aveva coinvolta, più di sei anni prima, una delle prime cose che Yae aveva notato era stata la disumanità con la quale Iris trattava il suo bambino adottivo, che all'epoca aveva solo undici anni.

All'inizio aveva cercato di non farci caso, convincendosi che, in quanto suo genitore, Iris fosse l'unica a sapere cosa sarebbe stato meglio per Hermes. Tuttavia, col tempo le sue azioni avevano iniziato a farle provare una profonda rabbia, come se si fosse fatta carico anche di quella che Hermes non esprimeva. Lo vedeva nei suoi occhi, lo percepiva nelle sue parole: quel bambino non aveva idea di cosa dovesse fare una madre per meritare tale nome.

E così aveva continuato a covare quell'astio, sin quando non era esplosa proprio di fronte alla dottoressa, il giorno in cui si era rifiutata di aiutare suo figlio in seguito a un attacco di panico. Quella volta era stata lei stessa a parlare con lui, mettendo da parte la paura che Hermes potesse carpire il suo odio per Iris. L'aveva sostenuto, ed erano riusciti a diventare amici. Lei e Saryu erano pian piano diventate dei fari per lui, anche se riuscire a fargli esternare un qualsiasi sentimento era difficile quanto cercare un ago in un pagliaio.

Spesso Hermes fuggiva per ore dal Laboratorio, rendendosi irrintracciabile. Una volta, preoccupata, Yae lo aveva pedinato sino alla zona abbandonata di Malthesia, in periferia. Lo aveva visto entrare in una casa derelitta, sgusciando oltre un grosso portone di legno. Quando ne era uscito, Yae si era intrufolata a sua volta in quel rifugio, rimanendo strabiliata. La quercia al centro della stanza aveva calamitato il suo sguardo per dieci minuti buoni, e il mare oltre le finestre sbeccate le aveva riempito il petto di meraviglia.

Ma erano stati i disegni a farla rimanere di stucco. Decine e decine di disegni sparsi per terra, incastonati tra le grosse radici che avevano spaccato il pavimento. Yae non ne aveva toccato nemmeno uno, e si era aggirata tra essi in punta di piedi, come una ballerina. Erano privi di colori, e rappresentavano tutti la medesima cosa: una gabbia.

A volte a essere in trappola era una rondine, a volte un viso umano dietro delle sbarre di tralci, o vi erano piccole figure al centro di una stanza, con delle minacciose pareti dispiegate attorno a esse. Yae aveva sentito il proprio corpo pietrificarsi, ma si era comunque costretta a osservare quelli che, molto probabilmente, non erano altro che autoritratti.

Quando era tornata al Laboratorio, quella sera, aveva valutato l'idea di parlarne con Saryu. Era l'unica che avrebbe potuto capirla, e l'unica della quale si fidasse davvero. La dottoressa Kumar, d'altronde, le aveva per prima donato la propria fiducia, quando l'aveva coinvolta nel Progetto.

Yae l'aveva conosciuta a un incontro organizzato all'Università, quando il professore di Psicanalisi aveva deciso di coinvolgere alcuni medici a contatto coi Disallineati, per far comprendere meglio agli studenti a cosa sarebbero andati incontro. Nonostante i Pre-5 come lei fossero molto richiesti per svolgere mestieri "fisici", Yae aveva deciso comunque di frequentare l'Università, puntando a diventare una psicologa. Sin da piccola, osservando suo nonno cadere nel baratro della demenza senile, aveva sviluppato una forte sensibilità per le Malattie Mentali. Si sarebbe votata a calarsi nella mente delle persone, aiutandole a tornare intere. E in Saryu Kumar aveva trovato il mentore di cui aveva bisogno.

Tra i dieci studenti del corso, alla fine Saryu aveva scelto proprio lei come propria tirocinante. L'aveva portata con sé all'ospedale civile, facendole conoscere qualcuno dei suoi pazienti. A volte si trattava di persone tranquille, altre volte di individui difficili, disillusi dalla vita e ricolmi di rabbia repressa. Alla fine delle sedute, Saryu le chiedeva sempre un parere, ascoltandola attentamente. Ed era stata proprio una di quelle conversazioni a spingere la dottoressa a coinvolgerla nel Progetto.

"Quella donna sembra non volerne sapere", le aveva detto Yae, guidando placidamente in mezzo a una tormenta.

"Perché dici questo?" le aveva chiesto Saryu, accasciata sul sedile del passeggero.

Yae aveva guardato dritto di fronte a sé, cercando le parole giuste per risponderle. La pioggia aveva rivelato a tratti l'immagine di uno dei Quadranti, appeso sin troppo precariamente al lato di un semaforo.

"A volte ho l'impressione che alcune persone siano irrecuperabili. Come se non potessi mai arrivare a sfiorarle. Lei non lo trova frustrante, dottoressa Kumar?"

Saryu si era accesa una stecca Joy, espirando il vapore verso l'esterno. Yae era rimasta stupita quando aveva scoperto che la donna ne facesse uso, ma alla fine si era abituata a vederla sbuffare endorfine di tanto in tanto.

"Certo", le aveva risposto. "Ma ormai ho capito che non tutte le persone vogliono essere salvate. E per quanto sia frustrante, non bisogna forzare nessuno. Possiamo solo tender loro la mano, e aspettare che la stringano: a volte basta fargli capire che la loro sofferenza è legittima, per spingerle a decidere di guarire."

Yae aveva ascoltato quelle parole in silenzio, soppesandole. "Ha ragione", aveva risposto, "ma realizzarlo è diverso dall'accettarlo. Quando vedo una persona gettarsi via, il mio primo istinto è quello di aiutarla. Vorrei infilarmi nella sua testa, eliminare tutto ciò che non le permette di vivere normalmente."

Saryu si era girata verso di lei con uno sguardo incuriosito, che Yae aveva notato con la coda dell'occhio. "Infilarti nella sua testa, hai detto."

"Sì. Sarebbe il sogno proibito di ogni psicologo, suppongo." Yae aveva sorriso leggermente, ma Saryu aveva continuato a mantenere un'espressione di marmo.

"Interessante. Sai cosa? Sarebbe bello riuscire ad anticipare le insorgenze delle Malattie Mentali. Battere il dolore sul tempo, ancor prima che si manifesti."

Yae aveva aggrottato la fronte, pensierosa. "Certo, sarebbe bello. Ma noi siamo come la civetta che vola al calar della sera, quando il Sole è già tramontato. Arriviamo solo quando i nostri pazienti ce lo chiedono, quando il dolore è già insorto. Non possiamo anticipare nulla."

Saryu si era sporta dal finestrino, raccogliendo un paio di gocce di pioggia tra le dita. I suoi capelli candidi si erano arricciati un po' sulle punte, subendo l'umidità. Era rimasta per molto tempo in silenzio, e Yae aveva pensato che il discorso si fosse chiuso lì. Almeno sin quando Saryu non aveva ricominciato a parlare.

"Vivere senza conoscere il dolore. Chissà se sarebbe davvero possibile."

Quella volta si era limitata ad annuire, pensierosa. Da quel giorno, non c'era voluto molto prima che Saryu la portasse pienamente a conoscenza del Progetto Stanza Bianca. Yae aveva conosciuto Iris e Jonas, ed era stata scandagliata dall'occhio vigile di Hermes. Ma la vera attrazione, il vero fulcro era senz'altro Eve. Una ragazzina al centro di una camera vuota, collegata a degli elettrodi e plasmata da quelle persone come fosse stata una tabula rasa. Yae era rimasta sconvolta, e aveva impiegato diverse settimane per abituarsi a quella prospettiva.

Saryu le aveva spiegato che la dottoressa Svart aveva acconsentito al suo coinvolgimento nel Progetto soprattutto per dare a Eve una coetanea con la quale confrontarsi. E così erano passati i mesi, e poi gli anni. Yae aveva iniziato ad affezionarsi a Eve come a una sorella, e la stessa cosa era accaduta con Hermes. Tuttavia, anche quando la mente della ragazza aveva iniziato a dare segnali di cedimento, Iris aveva continuato a effettuare cicli di RA su di lei. Di conseguenza, la psiche di Eve si era frammentata, andando ad alimentare quella che Saryu aveva denominato "la Zona Oscura". Sembrava essere l'unica a comprenderci qualcosa, a riuscire a svelare cosa si celasse sotto gli pseudonimi del Tempo, dello Spazio e della Vita. Iris pareva non interessarsi affatto di quelle parti più buie della mente di Eve. Yae, una volta, si era chiesta se la dottoressa non si stesse tenendo lontano da quel pozzo per la paura di trovarvi il proprio riflesso sul fondo.

Raggiunta la soglia dei quindici anni passati nella Stanza Bianca, Eve sembrava più che stremata. Aveva iniziato a perdere peso, sia perché stressata da quei trattamenti, sia per via del suo fisico debilitato dalla mancanza di attività motoria. Si chiudeva sempre più spesso a disegnare, a parlare da sola, a disallinearsi. E Yae ogni volta la teneva stretta tra le braccia, finendo ingarbugliata tra i suoi lunghi capelli, che la ragazza quasi rifiutava di farsi tagliare.

In un paio d'occasioni, sotto le insistenze di Jonas, Iris aveva acconsentito a interrompere i cicli di RA per un massimo di due settimane. I risultati erano stati prevedibili: in Eve avevano iniziato ad affiorare memorie di un'infanzia lontana, fuori dal Laboratorio. Yae sapeva che la ragazza aveva avuto un'altra vita prima di finire lì: Saryu le aveva detto che il Progetto andava avanti da diciassette anni, ma Eve non era affatto una LaBo come Hermes. E la dottoressa Svart avrebbe fatto qualsiasi cosa per non far fuoriuscire la bambina che Eve era stata.

Col tempo, ognuno di quei dolori si era incastonato nel cuore di Yae come uno spillo. La sofferenza di Hermes, quella di Eve: il prezzo per resettare l'umanità stava diventando troppo alto. Lentamente, un granello di coscienza alla volta, aveva preso la decisione di non volerlo più pagare.

"Sacrificheresti una sola persona per salvare l'umanità?", le aveva chiesto una volta Iris, poco dopo averla reclutata. "", le aveva risposto Yae, animata da una fierezza giovane e inesperta quanto lo era lei.

A distanza di anni, tuttavia, la domanda che Yae aveva iniziato a porsi era diventata un'altra. La sentiva rimbombare nei corridoi, tormentarle la carne, dilaniarle il petto.

"Sacrificheresti l'umanità per salvare una sola persona?"


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