²⁹. 𝘙𝘦𝘴𝘱𝘪𝘳𝘰

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– Giuro che... ti ammazzo – disse Eddie, col fiato ancora corto.

Si lanciò a terra oltre la linea bianca del traguardo, cancellata da anni di scarpe da ginnastica che, calpestandola, l'avevano ridotta a una striscia tenue. Eddie posò la mano a terra, sentendo la ghiaia marrone della pista incastonarglisi nel palmo.

– Sei un... – continuò, annaspando per respirare.

Rein intanto se ne stava fresco e riposato in piedi accanto a lui, come se quella corsa a perdifiato non l'avesse minimamente affaticato. In faccia aveva il solito ghigno, reso ancora più superbo dalla vittoria che aveva appena strappato all'amico.

– Qual è il problema? – gli chiese, incrociando le braccia. – Sono più veloce di te, mi spiace. –

– Il problema è che ti ho visto partire in anticipo – rispose Eddie, imbronciato. Era finalmente riuscito a recuperare il controllo del proprio respiro.

– Non credo proprio. Ho solo sfruttato la spinta cinetica aiutandomi con le braccia. Il mio corpo è meno massiccio e fende meglio l'aria. È fisica. –

Eddie sorrise. Ancora non si era abituato ad avere accanto a sé una persona in grado di rispondergli a tono, citando le nozioni studiate in Accademia.

– Il tuo corpo magrolino non c'entra, e se mi parli un'altra volta di spinta cinetica e attrito radente giuro che ti ammazzo – gli ripeté ancora, alzandosi in piedi.

I polpacci gli dolevano, e per un breve istante rammentò la corsa che aveva fatto su Wilderness IV per fuggire da Rein trasformato in lupo, più di due mesi prima. Quel ricordo lo fece sorridere, ma si sforzò di continuare a tenere il muso all'amico, anche se sapeva che non ci sarebbe riuscito ancora per molto.

– Quante parole per non ammettere che ti ho battuto – rispose l'altro LaBo. – E poi mi hai stracciato in tutti gli sport, almeno in uno dovevi lasciarmi primeggiare. –

– Esatto, bravo. Ti ho chiaramente fatto vincere – disse Eddie sghignazzando, già dimentico dell'impressione offesa che avrebbe voluto dargli.

– Come no – rispose Rein, sorridendo a sua volta.

Eddie lo prese dalle spalle, allineando le loro altezze, e posò la fronte contro la sua fingendosi un ariete in procinto di scornarlo. Rein rise, e stettero a spintonarsi in quel modo, cercando di non perdere l'equilibrio sulla brecciolina della pista.

Nell'impianto sportivo sembrava non esserci molta gente, come al solito. Eddie non si recava lì da quando aveva iniziato a comprare attrezzi per fare esercizio fisico in casa, grazie al denaro guadagnato al ristorante.

Qualche anno prima aveva abbandonato la corsa campestre – che gli veniva fatta svolgere di continuo in Accademia – per dedicarsi al sollevamento pesi, un'attività decisamente più nelle sue corde.

Odiava il modo in cui, durante il suo periodo di studi, gli allenatori costringessero lui e i suoi camerati a correre attorno all'edificio di Agraria. L'unico ricordo decente che conservava di quelle levatacce era l'immagine delle serre che riflettevano i colori caldi dell'alba, scintillando come gocce di rugiada in mezzo ai campi disidratati.

Rein, al contrario, sembrava non aver preso a odio la corsa campestre quanto lui. Non solo era estremamente leggero e veloce, ma possedeva una certa grazia durante la corsa, come se sfiorasse il terreno senza calcarlo.

Guardarlo aveva sempre un effetto ipnotico, ed Eddie era consapevole come una parte della propria sconfitta fosse dipesa proprio dall'aver osservato l'amico librarsi leggero. Lui, al contrario, si sentiva pesante e disarmonico. Ogni tanto si fermava a riflettere su come le sue membra, cresciute troppo in fretta, gli sembrassero grottesche.

I due ragazzi smisero di spintonarsi quando Rein perse l'equilibrio, inclinandosi leggermente all'indietro. Eddie per un pelo non gli diede una sonora testata. Riuscì a dirottare il proprio viso verso l'orecchio dell'amico, e per un momento inalò il suo odore. Stranamente non era affatto sudato, nonostante avessero corso fino a quel momento.

Gli lasciò le spalle, sorridendogli. – Non ti sei neanche scomodato a sudare. Hai ancora un buon odore. –

Rein sgranò gli occhi, ed Eddie lo vide arrossire di colpo. – Non annusarmi – gli rispose, dandogli un pugno sul petto.

– Perché? –

– Tu non farlo. –

Eddie sorrise dell'incapacità di Rein nel gestire qualsiasi tipo di complimento, cosa alla quale si era abituato da un po'. Aveva imparato a lasciare che l'amico gli si avvicinasse coi suoi tempi e le sue modalità. Lentamente, aveva anche compreso come alla base del suo atteggiamento schivo ci fosse il non aver avuto una figura "fraterna", come invece era accaduto a lui con Florian.

Alzò le mani per scusarsi, rigettandosi a terra sul selciato ruvido. Rein aveva ancora il viso rosso dall'imbarazzo, e per qualche motivo Eddie sentì un formicolio in fondo allo stomaco. Sto morendo di fame, pensò.

– Che fame – disse ad alta voce, stirando le mani verso l'esterno. Percepì un odore pungente provenire dalla sua maglietta nera, decorata col logo di una vecchia band. – Non vedo l'ora di farmi una doccia. –

– A che ora te ne vai? – gli chiese Rein, sedendosi a gambe incrociate di fronte a lui.

– Non lo so. L'auto ce l'ha Ian, e adesso è alla sua seduta settimanale. –

– Capisco. –

Rein non disse nulla, lanciandogli occhiate intrise di una certa compassione. Eddie gli aveva raccontato di quanto si sentisse in colpa per quegli incontri ai quali aveva obbligato il proprio co-abitante. Si sentì in dovere di rassicurarlo.

– Sta' tranquillo, sono sicuro che prima o poi andrà meglio anche per lui. Anzi, ultimamente mi sembra più felice. –

Rein continuò a stare in silenzio, tormentandosi i lacci della felpa leggera che indossava. Sfregò le mani tra loro per eliminare un po' di pietrisco, tanto per avere qualcosa da fare.

– Non mi hai mai raccontato perché lo hai denunciato – disse a un tratto, senza guardarlo in faccia.

Eddie fece vagare lo sguardo verso la fine della pista, dove leggeri mulinelli di foglie stavano danzando trasportati dal vento.

– Tu non avresti denunciato uno come lui? – rispose.

Rein sembrò pensarci su un attimo. – Sì, lo avrei fatto. È quello che la Legge prescrive. –

– Esatto – disse Eddie. – Ma non lo feci per quel motivo. Ci ho pensato tanto, in questi anni, e alla fine ho capito di essere andato in centrale più che altro perché avevo paura di lui. –

– Che intendi? – chiese Rein, piantandogli gli occhi in faccia.

Eddie sentì il formicolio acuirsi, ma non si sottrasse a quello sguardo scuro.

– Avevo una professoressa che ci aveva messi in guardia dai Disallineati. Come se, in qualche modo, avessero potuto contagiarci con le loro Malattie Mentali. – A quelle parole, abbassò leggermente la voce. – Florian era la persona più Disallineata che avessi mai visto. Era come se esalasse dalla sua pelle. Ma non era questo ciò che mi spaventava di lui; pensavo che avrei potuto gestirlo semplicemente ignorandolo, e di questo mi dispiace parecchio. –

Eddie si portò una mano a grattarsi il naso, imbarazzato, e Rein distolse gli occhi.

– Quello che davvero mi allarmava era il modo in cui la sua presenza mi faceva sentire. –

L'altro ragazzo sembrò inquieto. – In che modo? –

Eddie si nascose tra le ciocche dei propri capelli dorati, che scintillavano tenui sotto la luce di quella giornata grigia. Prese un forte respiro, tormentandosi le mani.

– Umano. –

***

Aveva tredici anni, e stava correndo su quello stesso tracciato di corsa campestre. Abitava nella sua nuova casa da tre settimane, e aveva deciso di dedicare allo sport quella domenica di pausa dagli studi.

Edin correva a perdifiato, sentendo l'aria riarsa estiva saldargli gli indumenti alla pelle. Qualche altro adulto si era recato a fare ginnastica come lui, e a fasi alterne il ragazzo notava gli sguardi truci che tutti sembravano riservargli. Cercava di ignorarli, proiettandosi in avanti per guadagnare quanto più terreno possibile.

Sentiva il proprio cuore battere fino a uscirgli dal petto, e le caviglie comprimersi su loro stesse. Era riuscito ad arrivare al traguardo per la decima volta senza stramazzare a terra. Non gli dispiaceva spingersi sino all'estremo, se ciò significava sentirsi soddisfatto. "La più grande forma di amore che possiamo dare a noi stessi è l'autodisciplina", aveva sentito dal suo allenatore in Accademia. Parole del Regime, confezionate su misura per i LaBo, ma nelle quali Edin credeva ciecamente.

Sorpassò la linea del traguardo, senza fermarsi. Di norma avrebbe compiuto dieci giri di pista completi, si sarebbe fatto la doccia negli spogliatoi e se ne sarebbe tornato a casa con la metro sospesa. Tuttavia, quel giorno aveva deciso di strafare.

Ancora altri due giri, si disse. Se non faccio altri due giri sono un perdente.

Continuò a macinare falcate come un toro, coi capelli corti e biondi che ondeggiavano al vento. Trascinava in avanti il suo fisico leggero, ignorando i muscoli irrigiditi e il sudore che colava a fiotti.

Dietro la sua mente aveva iniziato a tormentarlo una consapevolezza: non ce la faceva più. L'odore ferroso del sangue, che aveva iniziato a pervadergli le narici, ne era la prova. Ma battere il proprio record era diventata una questione di principio.

Almeno altri due, o sono un fallito. Ce la posso fare. Ottocento metri...

Il suo flusso di pensieri fu interrotto da una figura che si affacciò nella sua vista periferica. Un uomo dai capelli ricci gli corse accanto, apparentemente meno sfinito di lui. Edin riconobbe il suo co-abitante, che gli sorrise aggiustandosi gli occhiali traballanti sul naso. Non poté credere ai propri occhi.

– Ottima giornata per correre, vero? – gli chiese Florian, continuando a sorridergli.

Edin sentì un certo fastidio. Proprio quando stavo per battere il mio record. Tuttavia, una parte di lui fu felice di aver ottenuto una scusa per abbassare il proprio ritmo.

– Che ci fai qui? – gli chiese, senza guardarlo.

Ignoralo, si disse. Non durerà due secondi.

– La stessa cosa che ci fai tu – rispose Florian.

Edin dovette ammettere che non era male a correre, anche se la sua andatura risultava discontinua e stava chiaramente mettendo più peso sulla gamba sinistra. Indossava una maglia leggera a maniche lunghe (d'estate...) e dei pantaloncini larghi che gli lasciavano scoperte le gambe. Sul ginocchio destro notò una lunga cicatrice frastagliata, che assomigliava a quelle che l'uomo aveva sul volto.

Edin sapeva che Florian avrebbe voluto legare con lui. Ci aveva già provato diverse volte, facendogli domande inutili sulla sua persona o su come si svolgessero le giornate in Accademia. Lui si era sempre sottratto a quei tentativi di avvicinarlo, rispondendo che, a parte la cortesia di rito, non erano affatto obbligati a socializzare. Quella stanza gli serviva unicamente come appoggio, e a sedici anni, finiti gli studi, se ne sarebbe andato per trovarsi un appartamento indipendente.

Nonostante avesse ribadito quelle cose al suo co-abitante più e più volte, Florian non aveva mai fatto dietrofront. Al contrario, aveva iniziato a pressarlo ancora di più.

Edin era esasperato. Non capiva quell'uomo. La sua stanza piena di cianfrusaglie, la sua aria affranta ma gentile, le strane cicatrici che aveva in faccia. E poi c'era stata la volta in cui lo aveva sorpreso a parlare da solo. Quella era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.

È pazzo, aveva continuato a ripetersi, camminando verso la centrale dei Sorveglianti. Edin aveva attraversato la soglia armato solo di quella consapevolezza, e quando il Sorvegliante di piantone gli aveva chiesto cosa volesse un ragazzino LaBo da loro, aveva fatto solamente il nome e il cognome del suo co-abitante. Non era riuscito a dire altro, con una sensazione che gli stava consumando lo stomaco, e che dopo tanto tempo avrebbe identificato come un bruciante senso di colpa.

Si era girato su sé stesso, uscendo di corsa dall'edificio, senza curarsi delle urla del Sorvegliante ancora piantato dietro la propria scrivania. Era corso via, lontano, continuando a dirsi "è pazzo, è pazzo, è pazzo", urlandolo nella propria mente. Allora perché non lo hai denunciato?

Il giorno dopo i Sorveglianti si erano presentati alla loro porta alle sette di mattina. Edin stava posando l'olo-tablet nello zaino, col biglietto della metro sospesa già pronto. Florian era andato ad aprire la porta, col sonno negli occhi e un'arancia in mano.

"È una vera arancia?" gli aveva chiesto Edin qualche minuto prima, cercando di nascondere la propria meraviglia. Non ne aveva mai vista una, e sapeva che costavano sin troppo.

"Verissima al 100%. Fai tanto sport, no? Per una volta avrai delle vitamine non in polvere".

Quando aveva visto i Caschi Rossi sulla soglia della propria porta, Florian aveva inconsapevolmente fatto cadere il frutto, che era rotolato sino ai piedi del ragazzo. Edin non si era chinato a raccoglierlo, pietrificandosi alla vista dei due uomini. Lo porteranno via, pensò. Per colpa mia.

– Florian Herward? – aveva chiesto uno dei due Sorveglianti.

– Sì. –

– Lei è stato segnalato. La preghiamo di venire con noi. –

Florian aveva stretto un pugno, in un gesto che i Sorveglianti non avevano potuto scorgere, a differenza di Edin. Si era girato verso di lui, sorridendo malinconicamente. In un istante era parso comprendere come fosse stato il ragazzo stesso a segnalarlo, ma nonostante ciò il suo sguardo non era sembrato accusatorio.

Florian si era avvicinato a lui, raccogliendo l'arancia da terra per porgergliela. Edin l'aveva afferrata, ancora imbambolato.

– Non scordarti di mangiarla –, gli aveva detto. Dopodiché era sparito con i due uomini, lasciandolo da solo.

Ora, nel presente, fissandolo mentre si affannava per stargli dietro, Edin sentì sulla propria pelle quello stesso martellante senso di colpa che aveva provato qualche giorno prima.

– Non sembri stare molto bene – sentì dire a Florian, che aveva messo su uno sguardo preoccupato. – Che ne diresti di fermarti un po'? –

– Sto benissimo – gli rispose tagliente, cercando di attenuare il fiatone. – E non mi fermerò. La clausola sull'Autodeterminazione dei LaBo dice che... –

– Era un consiglio, non una richiesta – gli rispose il suo co-abitante, alzando le mani in segno di resa. – Potremmo riposare, parlare un po'... –

Edin alzò gli occhi al cielo. Da quando le loro decisioni erano diventate collettive?

– Non voglio riposare, e poi riesco a parlare benissimo anche così. – Non era affatto vero, e lo sapeva. Sentiva le parole smorzarglisi in bocca, e la linea del traguardo era ancora tremendamente lontana.

Florian sorrise. – Ma certo. Allora, qual è il tuo colore preferito? –

Gli scoccò un'occhiata acida. – Che domanda... Sarebbe? – Edin lasciò che il fiato corto gli spezzasse la frase. Porca miseria.

– Una domanda importante. –

Il ragazzo non fece in tempo a ribattere, che si sentì cadere per terra come una marionetta, scavandosi le ginocchia con la graniglia della pista gommata. Realizzò ciò che era appena successo solo quando urtò effettivamente il terreno. Percepì la testa farsi pesante, e per istinto si protesse il viso serrando le braccia di fronte a esso. "Bella guardia", avrebbe detto il suo allenatore. Bella guardia...

Quando si risvegliò, Florian stava seduto accanto a lui, e gli stava premendo un fazzoletto ghiacciato sulla fronte. Edin si ritrasse come se lo avessero sfiorato dei tizzoni ardenti, registrando solo superficialmente lo sguardo del suo co-abitante. Si aspettava di trovarvi scherno, sufficienza, paternalismo. Guarda questo ragazzino che non riesce neanche a fare altri due giri. D'altronde, era quello lo sguardo che lui avrebbe rivolto a sé stesso.

Tuttavia, si accorse che gli occhi di Florian gli restituivano solo uno sguardo ferito. Edin si sentì confuso, e poi si osservò le gambe, che aveva puntato verso l'alto quasi per calciarlo via, respingendo il suo aiuto.

Quel bruciante senso di colpa lo invase nuovamente, scavandogli un solco dentro allo stomaco. Vide Florian alzarsi in piedi, facendo vagare il suo sguardo acquoso sulla pista spazzata dal vento caldo. Lo osservò strizzare gli occhi per cercare di sopprimere qualcosa, ritornando subito a sorridere. Una delle sue mani si allungò verso il vuoto, aperta. Nei suoi occhi aleggiava una richiesta, forse una speranza.

Edin rimase un momento a guardare sia lui che la mano che gli stava porgendo. Per un momento riuscì a rinchiudere il proprio orgoglio ferito in un angolo, ignorandolo come non gli era mai successo di fare.

Quell'uomo così strano, indecifrabile, esasperante. Ma anche così gentile, sensibile, interessante. Un uomo che non lo aveva mai recriminato per averlo fatto Attenzionare, e che la sera dopo i primi estenuanti test psicologici gli aveva semplicemente chiesto se, alla fine, avesse mangiato quell'arancia.

Edin stese il proprio braccio molle, lasciandosi tirare su dal suo co-abitante. Si rimise in piedi, affiancandolo. Girò il viso verso il traguardo che non aveva raggiunto, ma di cui non gliene importava più nulla. Tenne stretta la mano di Florian ancora un po', e poi la lasciò a ciondolare fra loro, sentendo ancora la presa forte e sicura delle sue dita.

– Verde – disse a mezza voce, aprendo impercettibilmente le labbra.

Florian lo guardò incuriosito. – Cos'hai detto? –

Edin sospirò, parlando normalmente. – Il mio colore preferito è il verde. –

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