⁸⁷. 𝘚𝘱𝘢𝘻𝘪𝘰

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Dall'interno della Stanza Bianca non gli giungevano rumori, attutiti com'erano dalle spesse pareti e dagli strati di vetro che la circondavano. Eppure, Eddie era certo di riuscire a cogliere la lieve trepidazione che stazionava nell'aria, e che gli faceva fremere la pelle di uno strisciante nervosismo.

"Devi cambiarti", aveva esordito Xander, entrando nella sua cella con un fagotto in mano. A quanto pareva, in occasione della visita del Presidente, gli avevano imposto di indossare degli abiti incredibilmente non tinti di bianco: un pantalone scuro, una camicia azzurra e una cravatta nera. Eddie non aveva avuto bisogno di controllare le taglie per sapere che quegli abiti gli calzavano a pennello. Li aveva guardati con disgusto, sentendosi come un animale tirato a lucido il giorno della macellazione. Tuttavia, seppur con riluttanza, non aveva potuto fare a meno di indossarli, sorvegliato dagli sguardi indecifrabili del chirurgo.

Qualche minuto dopo, il vetro opaco che lo separava da Eve si era schiarito, permettendogli di constatare come anche la ragazza si fosse cambiata. Indossava un vestito bianco, come di consueto, ma molto più ampio e vaporoso, simile a quello di una nobildonna d'altri tempi. I capelli le ricadevano sciolti sulle spalle, e si attorcigliavano in decine di spirali castane sino al pavimento. Qualcuno doveva averle truccato il viso, perché le sue guance apparivano più rosee, e i suoi occhi grigi spiccavano sotto all'ombretto come quarzi sulla parete di una grotta.

Eddie si trascinò sino al divisorio, ancora aiutato dalla sedia a rotelle. Fingere di non riuscire a rimanere in equilibrio gli risultava sempre più difficile, e spesso gli era capitato di ricevere delle occhiate dubbiose da parte di Xander, durante la fisioterapia. Tuttavia, se anche l'uomo avesse compreso la natura della sua recita, non l'aveva affatto dato a vedere.

Il vetro divenne del tutto trasparente, consentendogli di squadrare anche la propria figura intera, ora più nitida. Eddie si osservò la camicia, i capelli puliti, la cravatta. Guardò l'abito bianco di Eve, la sua pettinatura ordinata, il suo viso truccato, che finalmente dimostrava i suoi venticinque anni d'età.

La sua mente fu pugnalata da un pensiero, che per poco non lo fece scattare in piedi, inorridito.

Ci hanno vestiti da sposi.

Si allentò la cravatta, sentendola stringergli il collo sino a strangolarlo. Era così: Iris li aveva infiocchettati a suo piacimento, lustrandoli come delle bambole nuziali da mettere in cima a una torta. Un dolce che Abramizde avrebbe dilaniato in mille pezzi, offrendolo al resto dell'umanità in eterno.

Come chiamata in causa, la voce della dottoressa Svart risuonò nell'interfono, asettica come sempre.

– Il Presidente sarà qui tra poco – disse. – Non dimenticare i patti.

Eddie vide Eve continuare a disegnare imperterrita, segno che quella comunicazione aveva raggiunto solo lui.

– Non lo farò – rispose, senza alzare la testa.

I patti. Durante quel breve periodo di riallacciamento dei rapporti, Iris gli aveva promesso che, se si fosse comportato bene, gli avrebbe permesso di uscire più spesso dalla sua cella, rimuovendogli anche il dispositivo di conteggio dal braccio. Lui l'aveva ringraziata col cuore in mano, giurando e spergiurando che avrebbe fatto come promesso.

E così, aveva continuato a fare il bravo bambino per il resto della settimana. Aveva tenuto la testa bassa, reso la propria voce un sussurro spaventato, chiacchierato con Eve del più e del meno, mettendo su un sorriso gentile e accondiscendente. Aveva accettato di aver perso tutte le persone alle quali teneva, assieme alla sua preziosa libertà, un bene così a basso costo. E, anche quel giorno, aveva vestito i panni del prigioniero rassegnato, pronto a farsi mezzo della rinascita dell'umanità, sin quando non lo avrebbero considerato un vecchio giocattolo da riporre sotto al letto.

Eppure, Iris avrebbe dovuto saperlo che è proprio da lì che escono i mostri.

– Un minuto.

Eddie annuì, stringendosi le mani. Nonostante avesse tenuto in conto che, per quell'occasione, gli avrebbero portato dei vestiti diversi, non aveva affatto previsto che Xander sarebbe rimasto a sorvegliarlo mentre si cambiava. E così aveva finito per ferirsi su un fianco, lì dove aveva nascosto in precedenza la maglia tagliente del materasso. Per fortuna la camicia contribuiva a celare quella piccola presenza, che gli grattava dolorosamente addosso, ammaliandolo con la sua voce affilata.

– Adesso la parete si solleverà un po' per volta – disse Iris, tradendo un filo di tensione. – Non muoverti finché non si blocca.

Lui non rispose nulla, limitandosi ad assentire col capo. Serrò le dita sui braccioli della sedia, sperando che il fianco non gli stesse sanguinando abbastanza da sporcargli la camicia. Gli sembrò quasi di aver smesso di provare dolore in quel punto, e che il suo corpo si fosse tramutato in un rigido blocco di marmo.

Vide il vetro fuoriuscire a fatica dalla guida nel pavimento, sollevandosi gradualmente davanti a lui. Prima ancora che si fosse issato del tutto, Eve si alzò dalla propria posizione di scatto, posando le mani sugli ultimi rimasugli della lastra, quasi a volerla trattenere con sé ancora un po'.

Eddie sentì l'intorpidimento abbandonarlo di colpo, lasciando lo spazio a un groviglio di emozioni tanto intense da lacerarlo. Gli occhi spaventati di Eve bastarono da soli a riattizzare il fuoco del suo odio per Iris. Sentì il cuore stringersi in una morsa, e serrò i denti sull'interno della guancia per calmarsi.

La ragazza stette immobile di fronte a lui, fissandolo con intensità. Nonostante l'avessero vestita e truccata di tutto punto, il suo sguardo rivelava comunque la sua natura di bambina sperduta.

– Puoi avvicinarti, se vuoi – provò a dirle lui, infondendo nel suo tono la maggiore dolcezza possibile. Nonostante ciò che aveva intenzione di fare, teneva comunque a lei come a una sorella.

Eve non si mosse, e si portò invece le mani sul ventre, fasciato com'era dal suo abito bianco troppo vaporoso. Eddie contrasse il viso, al ricordo di quel dettaglio. Lasciò i propri occhi a indugiare sulle mani affusolate della ragazza, sotto alle quali si nascondeva il frutto della violenza imposta a entrambi.

Prima che l'odio lo trascinasse via con sé, allungò una mano verso di lei, facendole cenno di accostarsi.

– Vieni vicino a me – le disse, gentile. – Va tutto bene. Non sei più da sola.

Quelle poche parole parvero far breccia dentro di lei. La ragazza camminò lentamente, tremolando sul pavimento. Quando fu abbastanza vicina da sfiorarla, Eddie le prese delicatamente la mano, stringendola tra le proprie come un piccolo cuore palpitante.

– Ciao – sussurrò, sbirciando i suoi occhi cinerei.

La mano di Eve rabbrividì, ma non si ritrasse. – Ciao.

Eddie soffocò una smorfia, cercando di tenere a bada la compassione.

– Posso abbracciarti? – domandò la ragazza. Glielo chiese come un segreto, come se tra le labbra avesse avuto ancora il sapore di un frutto proibito.

Lui non rispose nulla, e si limitò ad allargare le braccia. Eve si abbassò verso di lui, lasciandosi stringere un sussurro mozzato alla volta. La sentì tremare d'emozione, come un uccellino ferito con le ali ancora battenti. Le sue ossa acuminate gli si impressero sulla pelle, e percepì la sua carne sottile opporgli poca resistenza, un flebile strato di cartapesta che avrebbe potuto strappare con estrema facilità.

Eddie sentì le lacrime appannargli gli occhi, e iniziò a respirare e a contare per scacciarle. Non ora. Non ora, dannazione. Aveva lavorato molto sull'autocontrollo, in quell'ultima settimana. Lo aveva fatto principalmente per evitare di lasciarsi sopraffare dai sentimenti, una volta giunto il momento. Eppure, nessuna riflessione a monte avrebbe mai potuto prepararlo alla tempesta che lo attendeva a valle.

Ogni secondo che passava, sentiva la piccola arma sotto alla camicia bucargli la pelle, bucargli i pensieri. Ruotò il busto per impedire che Eve la toccasse, e la strinse dolcemente sino a farla accucciare su di lui. Per istinto, le posò un bacio sui capelli, vedendola arrossire leggermente. Quella semplice visione bastò a provocargli un moto di disgusto per se stesso. Pensò a Rein, a come si era comportato pochi minuti prima di tradirlo, piangendo e accusandosi di essere una persona meschina. Allora è così che ci si sente.

– Bellissimi – disse una voce maschile nell'interfono, riportandoli crudelmente alla realtà. – Davvero teneri. Sapevo che avreste formato una coppia stupenda.

Il volto di Karl Abramizde comparve dietro una delle pareti più lunghe, assieme a quello di un'altra decina di persone. Eddie riconobbe Iris, Jonas, Xander e, con sua grande sorpresa, Saryu. La psicologa se ne stava in disparte rispetto agli altri, con i capelli raccolti nella sua solita treccia candida. Lui sentì il cuore mancare un battito, ma si sforzò di non far trasparire nulla. Sei viva. Il sollievo per quel piccolo barlume di luce lo colpì come uno schiaffo. La psicologa gli lanciò uno sguardo mortificato, facendolo poi guizzare subito altrove.

Oltre ai medici, Eddie contò anche una decina di Sorveglianti in divisa, sprovvisti dei tipici caschi rossi che così tante volte aveva scorto durante le sommosse. I loro visi non gli dissero nulla, e ne registrò la presenza con un sorriso amaro. Una parte di lui aveva sperato che i membri della scorta del Presidente privi di rilevatore nel braccio fossero di meno. Eppure, a quanto pareva, Abramizde aveva deciso di mettere sin troppa gente al corrente del Progetto Stanza Bianca, pur di continuare a proteggersi.

– Sono contento di vedervi così affiatati – disse la voce del Presidente, attutita dal vetro a doppia faccia. – Iris ha fatto davvero un ottimo lavoro. Aspettavo da tempo il momento in cui vi avrei incontrati insieme.

Eddie spiò la sua espressione soddisfatta, e sentì un rivolo di rabbia infiammargli il petto. Bastardo. Crede di essere allo zoo. Gli occhi color ghiaccio di Abramizde sembrarono registrare il suo disprezzo; tuttavia, l'uomo continuò a sorridere con indifferenza.

– Finalmente potrò fare due chiacchiere anche con la nostra Eve – continuò, gesticolando. – Sperando che i problemi di cui ero venuto a conoscenza siano stati risolti.

Iris assentì, chinando ossequiosamente il capo. – Ma certo. Le abbiamo fatto una RA proprio stamattina; ormai non c'è più alcuna traccia della Zona Oscura.

Eddie si sentì mancare. A un tratto, ogni cosa gli fu chiara: il lieve odore di bruciato che emanavano i capelli di Eve, e che qualcuno aveva tentato di nascondere con un profumo scadente. Il trucco che le avevano impiastricciato sul viso, per impedirgli di scorgere i segni lasciati dal pianto. La luce spenta che ogni tanto le velava gli occhi, come fossero stati delle mere decorazioni di vetro. E, infine, l'espressione affranta che Saryu gli aveva rivolto poco prima, bucando la parete col suo dolore.

Strinse Eve più forte tra le braccia, come a volerla inglobare dentro di sé. Iris era venuta meno ai suoi stessi principi scientifici, effettuando un ultimo elettroshock sulla ragazza. Probabilmente, l'aveva fatto nel tentativo di salvare il colloquio col Presidente, che di certo non avrebbe voluto sentirla blaterare del Tempo, che lei aveva incarnato in Eddie stesso, dello Spazio, ovvero della cella rappresentata da Iris, e della Vita, che simboleggiava lei e il suo compito di "madre". Abramizde avrebbe dovuto assistere solo alla purezza di quella piccola cavia, vuota e scattante come il topo di laboratorio che Iris aveva sempre sperato che fosse.

Dilaniato da quell'idea, affondò le dita nella fragile carne della ragazza, allentando subito la presa per evitare di ferirla. Eve, dal canto suo, continuò a stazionare paralizzata tra le sue braccia, ignara di ogni cosa. Probabilmente, già la sola vista di tutte quelle persone era bastata a metterla in allarme.

Eddie prese un grosso respiro, preparandosi a rispondere al Presidente. Tuttavia, prima che potesse aprir bocca, vide uno dei sottoposti dell'uomo avvicinarglisi con fare circospetto, richiamando la sua attenzione.

Abramizde si voltò verso il Sorvegliante, contrariato. – Cosa c'è? – sbuffò. – Non mi sembra il momento adatto.

Il Casco Rosso spiegò lo schermò di un olo-tablet, mostrandoglielo preoccupato. – Mi scusi il disturbo, Presidente – mugolò. – Abbiamo ricevuto una richiesta di soccorso sul canale privato. Sembra che ci sia un'emergenza.

Abramizde parve irrigidirsi, e inforcò gli occhiali che riposavano sulla sua camicia immacolata.

– Mostrami l'ID del richiedente –, rispose.

Un altro paio di Sorveglianti si sporsero a osservare l'olo-tablet, coi visi leggermente corrucciati.

– Strano – mormorò il Presidente, dubbioso. – Ma non possiamo correre alcun rischio. Ho già perso la mia piccola Levatrice, non posso permettermi altri rapimenti. Mandategli i dieci della squadra B.

– Ma la sicurezza dell'edificio... – iniziò un altro.

– Basterete voi della squadra A, Meir. Sai che siete gli unici senza rilevatore. Le riserve all'esterno sono il plotone più vicino tra quelli riservati alla cerchia ristretta, e possono anche assentarsi per un po'. Al contrario di ciò che pensa il Concilio, non mi serve tutto questo fiato sul collo.

L'uomo chiamato Meir si fece silenziosamente da parte, uscendo dalla sala trasparente per effettuare la sua comunicazione. Eddie seguì quello scambio con attenzione, rimuginandoci brevemente sopra.

– Bene. Dove eravamo rimasti? – disse il Presidente, rivolgendosi di nuovo a loro. – Eve, cara, hai già scelto che nome dare al vostro bambino? – continuò, affabile. – Se posso permettermi, credo che "Adam" sarebbe più che appropriato.

Eve si riscosse dal proprio torpore, osservando Abramizde di sbieco, come un gatto selvatico di fronte a una vedova nera. Non di rado Eddie aveva visto gli olo-schermi nella sua stanza restituirle il suo viso grinzoso, accompagnandolo con didascalie che le spiegavano come quell'uomo fosse una specie di divinità terrena. Naturale che ne fosse intimorita.

La ragazza si ostinò a non rispondere nulla, ed Eddie percepì il guizzo di una buona occasione. Con una calma irreale, rivolse lo sguardo verso l'uomo oltre il vetro, muovendo il primo dei suoi passi verso il baratro.

– In realtà, pensavamo a qualcosa di meno classico – disse, stirando le labbra. – Qualcosa che richiamasse la provenienza francese di Eve. "Florian", per esempio.

Eddie vide Iris sbiancare, e Jonas agitarsi accanto a lei. Eve, al contrario, si pietrificò tra le sue braccia, come se il nome perduto di suo fratello fosse stato la sua Medusa.

– Non male – disse Abramizde, ignaro di ciò che quella singola parola potesse rappresentare per lei. – Ma sono sicuro che il nome di un Disallineato morto non sia l'ideale per celebrare una nuova vita.

Eddie non mosse un muscolo, sforzandosi per impedire al pensiero che Ian fosse stato ucciso di attecchirgli addosso.

– Sarà – rispose, alzandosi in piedi di scatto. Sentì qualche respiro mozzarsi dalla sorpresa. Trattenne Eve in braccio, posandola poi delicatamente per terra.

– Però, Presidente, credo che non ci sia nulla da festeggiare.

Con un guizzo fulmineo, estrasse il fil di ferro da sotto la camicia. L'abbraccio nel quale aveva stretto Eve sino a quel momento mutò forma, diventando una stretta violenta e disperata. Sentì la schiena di lei comprimersi sul suo petto, mentre con una mano iniziò a puntarle l'arma alla gola di cartapesta.

Iris schiacciò le mani sul vetro, allibita. Nessun altro si mosse nella stanza, come se la scena alla quale stavano assistendo facesse parte di un copione.

– Non fate un solo passo – tuonò Eddie. Odiò quella tonalità autoritaria, così simile a quella di Iris. Odiò ogni fibra del proprio essere. Guardò Eve con la coda dell'occhio, vedendola scivolare come previsto nella sua Zona Oscura, l'unico modo che aveva per sottrarsi al dolore della realtà. Quella parte di lei che era riuscito a decifrare un pezzo alla volta, e che nessun elettroshock avrebbe mai potuto cancellare. Quella parte di lei che lui aveva deciso ancora una volta di scoperchiare, per dimostrare a Iris che non avrebbe potuto controllarla, che Eve non era un algoritmo, e che era tutto sbagliato, sbagliato, sbagliato.

La dottoressa Svart sgranò i suoi occhi color pece, accostando i pugni al vetro. – Non lo faresti mai – sussurrò, col panico ad arcuarle la voce. – Non faresti del male a una mosca.

Eddie sospirò, allentando la presa sul fil di ferro. Un lembo della sua camicia trasudò un po' di sangue, sporcando di colore il candore della Stanza Bianca.

– Hai ragione –, rispose. – Non lo farò.

Alzò le mani in alto, e, come ipnotizzato, racchiuse le dita di Eve tra le proprie, stringendole attorno alla piccola arma ricurva. Lei si appigliò a essa all'istante, come un neonato aggrappato alle dita della madre.

Eddie si abbassò a sussurrarle qualcosa nell'orecchio, scostandole i capelli dal viso con delicatezza.

– Sono io lo Spazio, Nadine. È colpa mia se sei rinchiusa qui dentro.

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