⁸⁶. 𝘚𝘧𝘪𝘰𝘳𝘪𝘳𝘦

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I palazzi della zona A erano come li ricordava, freddi e impersonali e ricurvi su loro stessi, come vecchie stamberghe in procinto di collassare. Avevano abbandonato il furgone in una stradina secondaria, decidendo infine di proseguire a piedi, sgusciando tra un vicolo e l'altro.

Essendo entrambi dei fuggitivi, il cui mandato di cattura era già stato diramato, non potevano rischiare di farsi vedere nei dintorni della zona C, dove si trovavano sia lo studio di Nicholas che l'abitazione di Dianne. E così, esclusa la biblioteca nella zona B, l'unico luogo in cui avrebbero potuto trovare un volto amico rimaneva la casa di Florian, racchiusa tra i grattacieli malmessi della zona A.

L'aria del mattino le pungeva addosso, assieme allo sguardo dei pochi passanti che calcavano i marciapiedi di via XV ottobre. Dianne si forzò a mantenere gli occhi bassi, scansando la spazzatura addossata alle case e i gatti arruffati che si aggiravano senza una meta. Nicholas camminava come sempre dietro di lei, strascicando silenziosamente i propri passi stanchi.

Arrivarono quatti di fronte al palazzo, osservandolo nella sua imponenza. Al pari di quello in cui abitava lei, sembrava un grosso alveare, seppur avesse qualcosa di antico e signorile a decorarne la facciata. Dianne passò le dita su uno dei riccioli di ferro battuto, salendo le piccole scale che conducevano ai citofoni.

Trovò il nome di Ian senza difficoltà, e lo premette delicatamente. Le sembrava fosse passata una vita da quando compiva quello stesso gesto, nelle poche occasioni in cui era passata a prenderlo per recarsi in biblioteca. Una volta avevano persino cenato fuori, in una bettola da quattro soldi circondata dalla neve. Al ricordo dell'abbraccio di quella sera, il suo collo si imperlò di brividi, rammentandole malignamente la mancanza della sua matassa di capelli.

Nonostante l'attesa, dall'altoparlante non fuoriuscì alcuna voce. Dianne lanciò uno sguardo dubbioso a Nicholas, ricevendone uno identico in cambio. Schiacciò ancora il pulsante, notando tuttavia qualcosa di strano. Il biglietto recitava "F. Herward" nella sua parte superiore, ma non riportava più il nome del co-abitante di Ian, il ragazzo LaBo di cui lui le aveva parlato fino allo sfinimento.

Eddie. Dianne ricordò le volte in cui aveva canzonato Ian per i suoi atteggiamenti da papà premuroso, così come la proposta di cenare tutti assieme, cosa che si sarebbe volentieri risparmiata. "E. Mazur": il nome che aveva premuto molte volte assieme a quello di Florian, ogni qualvolta avesse bussato alla sua porta.

– C'è un problema – sussurrò a Nicholas, continuando a gettare occhiate veloci verso la strada. – Qui manca un nome. Quello del suo co-abitante.

Lo psichiatra si sporse verso di lei, osservando il citofono a sua volta. Corrugò la fronte per un istante, passando le dita sulla fredda placca d'acciaio. Senza che avesse il tempo di dire nulla, il portone si aprì verso l'interno, rivelando la figura di un anziano con dei capelli bianco neve, che gli ricoprivano la nuca a chiazze. Stringeva un bastone nodoso per aiutarsi a camminare, e indossava dei guanti di lana foderati, probabilmente per nascondere le piaghe del morbo di Met. Li squadrò da capo a piedi, con uno sguardo colmo di un cieco terrore. Dopodiché, fece dietrofront nell'androne, camminando il più speditamente possibile verso l'ascensore.

– Aspetti! – strillò Nicholas, mentre lei arrestava la chiusura del portone automatico. Si infilarono entrambi nell'ingresso, cercando di bloccare l'uomo.

– Andate via! – biascicò lui, rattrappendosi su se stesso. La sua voce sembrava carta vetrata. – Mi avevate promesso che non vi sareste fatti più vedere. Lasciatemi in pace!

Dianne si immobilizzò, confusa. Nicholas, al contrario, fece un passo in avanti verso l'anziano, sollevando le mani in segno di resa. – Certo, l'avevamo promesso. Non ci faremo più vedere – gli resse il gioco. – Ma vorrei solo chiederle delle informazioni su un amico. Si chiama Florian. Abita al terzo piano di questo palazzo, assieme al suo co-abitante Eddie.

L'anziano sgranò gli occhi, fissandolo allibito. – È un test? Mi state facendo un test?

Nicholas fece un passo verso di lui, tenendo ancora le mani sospese a mezz'aria. – Nessun test, signore. Io e mia figlia vorremmo solo vedere i nostri amici. Potrebbe darci una mano?

L'uomo ingoiò un groppo d'ansia, facendo vibrare il suo collo di carta velina. – Florian non è in casa, e qui non abita nessun Eddie. Guardate il citofono, quel nome non c'è. Adesso andate via.

– Prima c'era – esordì Dianne, in disparte. L'odore di umido nell'ingresso le stava già dando alla testa, al pari di quella conversazione surreale. – Io me lo ricordo.

Quelle poche parole accesero qualcosa nell'anziano dai capelli candidi. Sembrò osservarli con più attenzione, adocchiando i loro vestiti della clinica con uno sguardo dubbioso.

– Voi non siete dei medici. Non siete loro.

Nicholas non ribatté nulla, e lei si strinse nelle spalle, senza capire. L'anziano diede uno sguardo al viale, riprendendo a parlare col suo tono ruvido.

– Venite con me. Qui non è sicuro.

***

L'appartamento del signor Tobias Soares si trovava al quinto piano di quello stesso palazzo. I mobili del salotto sembravano essere stati divorati dal tempo, e su di essi aleggiavano delle sottili particelle di polvere, illuminate dalle scie di luce che traspiravano dalle imposte. Tobias si accomodò su una poltrona, facendogli segno di sedersi su un divano ricolmo di cuscini. Loro non fecero tante cerimonie, e sprofondarono goffamente nel tessuto morbido. Dianne tirò un sospiro di sollievo: era il primo vero attimo di riposo da quando avevano lasciato la clinica.

– Vi faccio un caffè – disse l'anziano, smanettando con una pulsantiera al lato della sua poltrona. In men che non si dica, nella stanza spuntò un vecchio androide-cameriere, alto circa un metro e con delle braccia meccaniche incrostate di farina. Il robottino acquisì la comanda con un inchino, affrettandosi poi a sparire verso la cucina.

Stettero in silenzio per un po', osservandosi come pistoleri in un duello. Fu Tobias a prendere la parola per primo.

– Allora – gracchiò, – se non siete quei medici, allora chi siete? Sorveglianti? Membri della Chiesa?

– Nessuna delle due – rispose Nicholas, prontamente. – Anche se temo di non poterglielo dimostrare.

L'anziano ponderò quella risposta, pensieroso. – Va bene così. Sapevo che questo momento sarebbe arrivato.

L'androide tornò con tre tazze di porcellana, posandole con lentezza su un basso tavolino davanti a loro. Il calore del caffè si espanse in larghe spirali, assottigliandosi sinuoso verso il soffitto. Tobias prese la propria tazza, aspettando che loro facessero la stessa cosa. Dianne sentì lo stomaco brontolare, ma non ebbe bisogno di consultarsi con Nicholas per capire che non avrebbero toccato nulla.

– Ah, già. Dimentico sempre che la diffidenza è una strada a doppio senso – disse l'anziano, posando la propria tazza sul tavolino. La scambiò più volte con le loro, rendendole indistinguibili. – A vostra discrezione.

L'odore buono della bevanda aveva permeato tutta la stanza, solleticandole docilmente le narici. Senza dire nulla, Dianne raccolse una tazza fumante, ricevendo in cambio un sorriso gentile da parte di Tobias. Una delle sue guance era ormai priva di pelle, e poté vedere i muscoli contrarsi al suo interno. Nicholas la imitò, sospirando sconfitto.

– Cosa intendeva, prima? – esordì, sorseggiando il caffè. – Quale momento "sarebbe arrivato"?

L'uomo gettò lo sguardo sul pavimento, contraendosi in una smorfia. – Il momento in cui qualcuno di esterno mi avrebbe chiesto di loro. Anzi, di lui. Di Eddie.

Dianne strinse le mani attorno alla porcellana calda. – "Di esterno"?

– Di esterno alla loro farsa – disse l'uomo, incupendosi. – Alla menzogna dei membri di quel Laboratorio.

L'uomo seguitò a raccontargli di ciò che era accaduto in quel palazzo qualche settimana prima. Di come delle persone vestite di bianco si fossero presentate a lui e ai suoi vicini di casa, obbligandoli a fingere che il ragazzo di nome Eddie non fosse mai esistito. Di come gli avessero promesso del denaro e delle buone cure, se avessero mantenuto il silenzio. Infine di come, di fronte alle sue remore nel mentire a Florian, che con lui si era sempre comportato bene, un medico dagli occhiali sottili lo avesse minacciato di far capitare un "incidente" a suo figlio ventisettenne, impiegato come operaio edile nelle Città.

– Mi disse che Alexander sarebbe anche potuto "scivolare" da qualche impalcatura – mormorò Tobias, con le lacrime agli occhi. – E che avrei dovuto solo accettare quel denaro e ingoiare il rospo. Tutto qui. I soldi mi sarebbero arrivati direttamente sul conto, come dono da parte di un'associazione. E così accettai, Dio mi perdoni. Accettai.

Dianne scoccò un'occhiata verso Nicholas, stupita. In fondo, da quando la Chiesa aveva imposto il culto del Reset, a nessuno era più permesso di accennare ad altre religioni.

– Mi dissero che avrebbero fatto la stessa cosa con tutte le altre persone che conoscevano Eddie, e che si sarebbero impegnati personalmente a cancellarne ogni traccia anche dall'appartamento. Non mi vollero dire il perché. Un paio di giorni dopo incontrai Florian per strada, ovviamente sotto shock. Mi chiese di lui, del ragazzo, e io gli dissi... Gli dissi che abitava da solo.

L'anziano iniziò a singhiozzare, sconquassato dai tremori. Il bastone gli cadde per terra, mentre Dianne continuò a osservarlo colma d'orrore, stringendo la tazza sin quasi a distruggerla.

– Il ragazzo lo avevo incontrato tre o quattro giorni prima dell'arrivo dei medici. Mi aveva intercettato giù in strada, e sembrava allegro e spensierato come al solito. Mi chiese dei consigli per un primo appuntamento con una donna, specificando che si trattava di una richiesta "da parte di un amico". Capii subito che si trattava di Florian. Lo trattai con sufficienza; volevo levarmelo dai piedi. Gli dissi di comprare dei fiori. Veri, però, non quelle porcherie sintetiche. Lui mi ringraziò e mi aiutò a portare le buste della spesa fino al portone – sussurrò, piangendo. – Era così forte. Così gentile. Dopo quel giorno, non lo vidi più.

Anche gli occhi di Nicholas si erano imperlati leggermente. Dianne ascoltò coi nervi a fior di pelle, e schiarì la voce per fare una domanda.

– E Ian? – chiese, inquieta. – Quand'è stata l'ultima volta che l'hai visto?

Tobias si passò un braccio sul volto, e un ciuffo di capelli gli cadde in grembo. – Il giorno della farsa –, mormorò. – Dopo avergli detto che abitava da solo, lo vidi tornare a casa, sconvolto. Qualche ora dopo lo venne a prendere un'ambulanza, forse chiamata da qualche vicino. Aveva le braccia distrutte. Un inferno rosso che lo avvolgeva come un sudario. – Le lacrime gli si riversarono nell'incavo delle guance, mischiandosi alla carne esposta dalla malattia. – Non è più tornato qui, a casa... Credo... Credo che per lui non ci fosse più nulla da fare.

Dianne scattò in piedi, lasciando cadere la tazza a terra. Il suono dell'impatto non le giunse alle orecchie, così come non le giunsero le urla di Nicholas, mentre cercava di tirarla via da Tobias.

– Bugiardo! Chi ti ha pagato per dirci questo? Eh? – strillò, scuotendolo dalle spalle. – Lui non l'avrebbe mai fatto!

Il suo sguardo incrociò quello di Nicholas, in cerca di una conferma. Lo psichiatra, tuttavia, abbassò il viso sulle mattonelle, affranto. Smise pian piano di strattonarla, sembrando nient'altro che un involucro vuoto.

Certo, sembrarono dirle i suoi occhi spenti. Certo che l'avrebbe fatto.

Dianne si accasciò a terra di colpo, incontrando i cocci della tazza. Non sentì alcun dolore trafiggerle la pelle all'esterno: solo degli spilli acuminati bucarle il cuore dall'interno, affilando i suoi ricordi una scheggia alla volta.

"Vivere e lasciarsi esistere. Ho deciso di voler vivere."

"Non ti farò mai del male. Non lascerò che tu svanisca."

Due promesse, una per ognuno. Due patti, entrambi scivolati via dalle loro mani. Lentamente, un granello dopo l'altro, simili al sangue che fuoriesce da un corpo umano. Come il sangue che l'uomo che amava aveva versato, senza che lei fosse lì a ricacciarglielo dentro, goccia dopo goccia.

Iniziò a piangere come non faceva da tempo, bassa e roca e con le mani ad afferrare i cocci, piena di rabbia e tristezza assieme, come se avesse perso la capacità di districare le due cose. Nicholas si abbassò accanto a lei, stringendola delicatamente dalle spalle, anche lui senza curarsi delle schegge taglienti. Come da dentro un sogno, sentì Tobias mormorare una frase a mezza voce, scosso dai singhiozzi.

– Eri tu, allora. Quei fiori... Erano per te.

Dopodiché non percepì più alcun suono, odore o calore. Si risvegliò diverso tempo dopo, avviluppata in una coperta di lana e sdraiata sul divano. Le sue guance erano ghiacciate, solcate dal fantasma delle lacrime evaporate via. Vide Nicholas inginocchiato davanti a lei, con gli occhi ancora un po' lucidi e una mano ad accarezzarle i capelli corti.

– Dianne – la svegliò, cauto. – Devo dirti una cosa.

Lei richiuse le palpebre, sentendo gli insetti del dolore tornare a divorarla dalle ciglia alle iridi.

– No, Nick... – sussurrò, incapace di aggiungere altro. Lasciami dormire, cazzo. Lasciami sfiorire.

– Lo so. Ma c'è una cosa che devi vedere.

Dianne socchiuse gli occhi, trascinandosi a fatica nel mondo della veglia. Non aveva idea di quanto tempo fosse passato. Notò che lo psichiatra si era lavato e aveva cambiato i vestiti, forse prestatigli da Tobias. Aveva un olo-tablet in mano, e le stava mostrando la schermata di un bonifico in entrata.

Puntellò un gomito nel tessuto, cercando la forza di sollevarsi sul divano. Le coperte le ricaddero di lato, facendola rabbrividire. Tobias, di nuovo sulla sua poltrona, la osservò con compassione.

– Qui – indicò Nicholas, facendo scorrere un dito sull'ologramma. Lei strizzò gli occhi, cercando di leggere meglio. Il bonifico era stato emesso da una società di beneficienza di nome "Restiamo uomini insieme", una di quelle associazioni che fingevano di avere a cuore i malati di morbo di Met. La cifra ammontava a diecimila expia, e Tobias non ne aveva toccato neanche un centesimo. Tuttavia, non fu quel dettaglio a colpirla, quanto invece il nome dell'ordinante, che compariva in basso accanto a quello del beneficiario.

– Davis, Mauryce J. – sussurrò, con un filo di voce.

– Già – disse Nicholas, sorridendo mestamente. – Credo che sia arrivato il momento di fare una visita al nostro Ministro dell'Interno.









Angolino

Povera Didi.

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