⁷⁰. 𝘋𝘰𝘱𝘱𝘪𝘰 𝘧𝘪𝘭𝘰

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Le sue dita stavano poggiate sul vetro a doppia faccia, appannandolo leggermente sul contorno. Eddie sapeva benissimo che la lastra era abbastanza spessa da non permettergli di sentire nulla, eppure una parte di lui avrebbe giurato di poter percepire il tepore del palmo di Eve contro il proprio, dall'altro lato della Stanza Bianca.

Le conversazioni con la ragazza includevano sempre un momento del genere. Che fosse all'inizio dei loro colloqui o alla fine, Eve a un certo punto posava la mano sulla superficie, aspettandosi che Eddie facesse lo stesso. E lui puntualmente la assecondava, stupito di quanto quel semplice contatto umano, seppur indiretto, fosse sufficiente a far sbocciare un sorriso tra i fragili lineamenti della ragazza.

Ormai si trovava nella Stanza Bianca da una settimana. Le sue chiacchierate faccia-a-faccia con Eve procedevano senza intoppi, al pari delle sue sessioni di fisioterapia. In una di esse, Saryu gli aveva dato altre informazioni su Ian. Quando lei gli aveva scritto sulla pelle come il suo co-abitante avesse tentato il suicidio, Eddie si era sentito crollare il mondo addosso. Gli erano subito tornate in mente alcune tra le prime parole che Iris, che Amélie, gli aveva rivolto: "lui crede che tu non sia mai esistito".

Probabilmente i membri del Progetto, con l'aiuto dei fondi della Chiesa, avevano provveduto a mettere su una farsa per nascondere il suo rapimento, giocando sulla condizione di Disallineato di Florian. Quel pensiero gli aveva arroventato le viscere, aggiungendo ulteriori strati di disprezzo per la dottoressa Svart. Mostro.

L'odio, però, non era più l'unico sentimento in grado di mantenerlo lucido. Sapere che Abramizde non avrebbe potuto utilizzare Florian per ricattarlo gli aveva tolto un grosso peso dal petto. Nonostante ciò, non poteva affatto rischiare di apparire più rilassato, o avrebbe messo Saryu in pericolo. No: doveva continuare a fingersi mansueto e rassegnato. Sapeva che senza poter camminare da solo, avrebbe potuto fare ben poco. Gli unici vantaggi concreti che era riuscito a ottenere erano le informazioni di Saryu e la maglia di ferro sottratta alla rete del materasso, che custodiva gelosamente a pochi centimetri dalla trabacca.

Pian piano, l'equazione impossibile che governava la sua fuga aveva iniziato a includere anche la variabile "Eve" al proprio interno. Avrebbe liberato la sorella di Florian, in qualche modo. Tuttavia, sapeva bene che la ragazza che gli stava di fronte era solo una pallida immagine di ciò che era stata Nadine.

Quell'idea si era ormai radicata in lui, nonostante si scambiassero sempre poche parole, girandosi attorno come fuochi fatui. Eve gli sembrava una superficie liscia, sulla quale nessun sentimento riusciva a fare appiglio. Era manchevole di qualcosa, priva di quella scintilla d'umanità prodotta dal vivere all'esterno, tra i mille disastri della vita quotidiana. I suoi occhi erano colmi di un vuoto abissale, che a differenza di quello di Ian non derivava dall'aver perso qualcosa, quanto piuttosto dal non averlo mai avuto.

– Che ne pensi? – gli chiese a un tratto Eve, col tono colorato di speranza.

La ragazza stava tenendo in mano un foglio, pinzandolo con le sue lunghe dita. Accanto a lei, per terra, riposava una pila di disegni sgangherati. Iris le aveva infine permesso di mostrarglieli, dopo le estenuanti richieste della ragazza stessa. Nonostante fosse cresciuta in una bolla, sfumata come un fantasma, c'era qualcosa in lei che premeva comunque per uscire all'esterno. La fierezza di saper fare qualcosa, di saper essere qualcosa.

Iris aveva posto a Eddie una sola condizione: non avrebbe dovuto dare alcun segno di riconoscere Florian nei ritratti. Non aveva potuto imporgli di smettere di parlare in francese, dal momento che Eve aveva continuato a ricordare sempre più parole della sua madrelingua. Eddie aveva tirato un sospiro di sollievo all'idea che, da quando Yae le aveva lasciato quella cicatrice, Iris non avesse più potuto cancellare la memoria della ragazza. A un certo livello, continuava a stupirsi anche solo del fatto che potesse parlare, nonostante i diciassette anni di elettroshock.

In un paio di occasioni l'aveva vista rabbuiarsi, ritraendosi dal vetro per borbottare qualcosa tra sé e sé. Saryu gli aveva spiegato come nella mente di Eve si trovasse una sorta di "Zona Oscura", un mondo fittizio popolato da entità sconosciute, che lei faceva interagire tra loro come marionette. Anche Iris glielo aveva accennato, esortandolo a non farci troppo caso. In quelle occasioni le loro conversazioni erano state interrotte, ed Eddie aveva visto calare il vetro opaco inesorabilmente.

Il foglio che la ragazza gli aveva parato davanti rappresentava ancora una volta Ian. Era il terzo disegno in cui ciò accadeva, su una ventina che gli aveva mostrato. Negli altri aveva raffigurato Iris, Saryu e qualche paesaggio naturale estratto dalle olografie che le scorrevano ininterrottamente nella Stanza. A Eddie era parso persino di scorgere un proprio ritratto, anche se Eve si era affrettata a nasconderlo tra gli altri fogli.

– È un bellissimo disegno – rispose cautamente, tornando presente a sé stesso. Aveva notato quanto lo stile di lei fosse diverso da quello di Rein: meno spigoloso e più preciso, a tratti talmente delicato da apparire trasparente. In qualche modo gli sembrò consono alla sua personalità.

– Questo qui è il ragazzo del sogno – disse lei, arrossendo un po'. – Compare quasi ogni sera.

Eddie immaginò la dottoressa Svart stringere i pugni, dall'altro lato del vetro. – E cosa fa?

– Esce da una porta. Io sto seduta a disegnare per terra, e lui mi dice qualcosa che non capisco. Ma a un certo punto se ne va, e poi non torna più.

La ragazza mise su uno sguardo abbattuto, provocandogli un'inaspettata tenerezza. Quell'espressione gli fece subito comprendere come Eve stesse in realtà sognando l'ultima volta in cui aveva visto Florian, prima che le loro strade si separassero per sempre, il Giorno dell'Espiazione. Prima che lui fosse forzato a soffrire, e lei a non soffrire.

Per un po' stette in silenzio, pensando a cosa dire. L'ambiente scarno rendeva la mancanza di parole nell'aria quasi insopportabile, facendogli rimbombare nei timpani il martellare del suo cuore.

– Come ti fa sentire? – decise di domandarle, cercando di comprimere sul palato una domanda relativa all'identità del ragazzo. Sapeva che fargliela avrebbe significato veder interrompere quella conversazione.

Eve oscillò leggermente, facendo guizzare gli elettrodi attaccati al suo cranio. – Strana.

– Capisco. – Eddie sentì la cicatrice sulla nuca pulsare, ormai priva delle sue ingombranti garze. – Sai, anch'io faccio un sogno ricorrente. Sogno un mondo in cui la natura non è stata distrutta, e le persone sono tutte felici. – Strozzò in gola il resto dei dettagli di quell'incubo, che terminava sempre con un Rein ricoperto di sangue.

Due giorni prima si era arrischiato a chiedere a Saryu della sorte del LaBo, dopo mille tentennamenti. Lei si era contratta in uno sguardo indecifrabile, e gli aveva risposto con quattro criptiche parole: "Rein non esiste più". Lui aveva registrato quella frase con indifferenza, sforzandosi di non mostrare alcuna reazione di fronte a Xander e alle telecamere. Solo una volta calata la sua notte artificiale, si era permesso di costellarla di lacrime.

Eddie scacciò dalla propria mente il ricordo di quella serata infernale, celandola come schiuma nella risacca. Eve sembrò non accorgersi di nulla, e continuò a parlargli con la sua voce sottile.

– È un sogno molto bello – disse, aprendosi in un sorriso. – Forse un giorno si avvererà. Tutto tornerà com'era... Se lo vorrai.

Lui ebbe un tuffo al cuore. – Se lo vorrò?

– Sì. – La ragazza si mosse irrequieta sul posto, evitando di guardarlo. – Se mi aiuterai... Se riusciremo...

Eve smise di parlare, piantando gli occhi sui propri disegni. Eddie continuò a osservarla, cogliendo solo allora le implicazioni di quelle frasi frammentate. È terrorizzata. Nonostante sapesse che la fecondazione sarebbe stata artificiale e non si sarebbero sfiorati con un dito, nonostante l'avessero preparata da sempre a essere una madre, qualcosa in lei tremava al solo pensiero. Un barlume di consapevolezza, una voce che continuava a cantilenarle la nuda verità: ogni nuova vita che cullerai sarà una violenza sul tuo corpo.

Eddie rabbrividì, sperando che lei non percepisse quella frase trasparire dal suo sguardo preoccupato. La compassione gli annebbiò gli occhi, già velati dalla rabbia. Avrebbe voluto urlare contro Iris sino a farsi sanguinare la gola, sino a romperle la testa. Come fai a non vedere? Tuttavia, non ci mise molto a correggersi. Lei vede, si disse. Lei vede, e sceglie di ignorare.

– Il Tempo – disse Eve. – Ha ripreso a scorrere.

Lui alzò gli occhi su di lei, coi battiti in gola. La ragazza aveva iniziato a fissarlo dritto in viso, ma il suo sguardo sembrava attraversarlo con indifferenza. Il suo tono di voce si era fatto monocorde, assumendo colorazioni artificiali. Eddie l'aveva già vista comportarsi in quel modo, e non ebbe bisogno di chiedere conferme per comprendere che si era disallineata nella Zona Oscura. Il suo meccanismo di difesa.

– Tutto quello che esiste si posa su tutto quello che scorre. La Vita e il Tempo vanno di pari passo.

Eddie ascoltò attentamente, rapito. Era la prima volta che udiva nettamente le parole di Eve in quello stato, la prima volta in cui non le sentiva assottigliarsi in flebili borbottii.

– Quando c'è solo lo Spazio, la Vita è un guscio vuoto. Ma adesso è diverso.

Lui si sporse contro il vetro, come un serpente a sonagli attirato da una sinfonia. – Perché? – si trovò a chiederle, ancor prima di averci riflettuto. – Perché è diverso?

– È inutile, Edin – lo riscosse la voce di Iris, trapanandogli i timpani. – Per oggi conviene chiuderla qui.

Eddie strizzò gli occhi, bruciato da quelle parole. – Aspetta! – disse, alzando il tono. – Per favore, fammi provare. Fammi provare a capirla.

Le sue nocche si annerirono, a contatto col vetro. Non ricordava neanche di aver picchiato un pugno sulla lastra. Sentì un'altra voce mischiarsi a quella di Iris, sussurrando concitatamente in un groviglio di parole. Qualche istante dopo, fu Saryu a parlare. – Va bene – disse. – Ma sii prudente.

Eddie la ringraziò silenziosamente, tornando a volgere i propri occhi color zaffiro verso i quarzi di Eve. Si sentì leggermente spaesato, quasi come se la sicurezza provata sino a quel momento fosse scoppiata come una bolla di sapone a contatto con la parete.

Nascose le unghie nei palmi, cercando di riacquisire una scintilla di fiducia nel rivolgersi a Eve.

– Perché il Tempo ha ripreso a scorrere? – provò a dirle, titubante.

Lei lo mise a fuoco un po' meglio di prima, dandogli la lieve impressione di starlo guardando per davvero. Lui schiacciò la mano sul vetro che li separava, come se avesse voluto sfondarlo. – Va tutto bene, sono qui apposta. Voglio solo capire.

La ragazza gli fissò le dita, mormorando sommessamente. Qualcosa si affacciò nel suo sguardo: una traccia di Nadine, verso la quale, in qualche modo, era riuscito a fare breccia. Come se sino a quel momento avessero sì vissuto insieme, ma attaccate l'una alla schiena dell'altra, in modo da non potersi mai guardare in viso.

– Perché ci sei tu –, disse.

Eddie macinò quelle parole, cercando il puzzle al quale unirle. Perché ci sono io. Gli sovvenne il ricordo di una delle poche volte in cui Florian gli aveva parlato di sua sorella, una bambina dotata di una fervida immaginazione. "Inventava mondi fantastici, facendo collegamenti che persino io faticavo a comprendere. Se dava un nome a qualcosa, puoi star certo che intendeva tutt'altro".

– Il Tempo scorre perché ci sono io – pronunciò, tra sé e sé. – Anzi – si corresse, – io sono il Tempo. E tu sei la Vita.

Ripensò alle parole che Eve aveva detto poco prima, lasciandole ad aleggiare tra loro. All'improvviso, ogni cosa gli fu chiara. Senza una persona a interagire davvero con lei, senza una persona a farle da Tempo, lei si sente come se la sua Vita non scorresse affatto. Come se non avesse motivo di esistere. Quel pensiero gli fece bruciare gli occhi.

– Da quand'è che non scorreva, il Tempo? – le domandò. Da quando non ti sentivi viva?

– Da quando se n'é andata mia sorella –, rispose Eve. Eddie sapeva che era quello l'appellativo che la ragazza aveva dato alla fuggitiva Yae.

– E lo Spazio? – le chiese ancora, incapace di arrestarsi. – Cos'è lo Spazio? Chi è?

Un movimento lo distrasse, impercettibile quanto dirompente. Una lacrima che falciò il viso della sorella di Florian in due, infrangendosi a pochi centimetri dal suo abito bianco. Eve sembrò quasi non accorgersene, e mosse un dito per indicare il vetro a doppia faccia alla sua destra.

– Lei.

Eddie iniziò a tremare, folgorato dalla chiarezza di quel pronome. Iris è lo Spazio. Lo Spazio della Stanza Bianca, chiuso attorno a lei da diciassette anni. Iris e la cella fuse insieme, come se la dottoressa avesse incarnato le stesse quattro pareti che nascondevano Eve al mondo, impedendole di vivere. A quel punto, sentì un argine scoppiare dentro di lui.

– Tu lo sai. Lo sai che non sei sempre stata qui.

Lei non rispose, continuando a far scorrere le proprie lacrime. Il suo modo di piangere assomigliava a quello di Rein, silenzioso quanto lacerante. Dopo un tempo che gli parve interminabile, la vide annuire.

– Sai anche... Che questa è una prigione. E che il ragazzo del sogno... – Era tuo fratello, si impedì di dirle.

– Adesso basta – disse Iris, pungente. Entrambi la ignorarono.

– Lui... Lui mi chiama con un altro nome, nel sogno. Prima di uscire dalla porta. – Eve sembrò tremolare come una fiamma nel vento. Eddie strinse la mano sul vetro, crollando un pezzo alla volta.

– Quel nome – le disse. – Te lo ricordi?

– Chiudi, Jonas – sentì dire a Iris, dimentica di aver lasciato il microfono acceso. – La pagherà per questa bravata.

Eddie si riscosse dal proprio torpore, notando il vetro farsi progressivamente più opaco. Le luci della sua stanza iniziarono ad affievolirsi, sino a spegnersi del tutto.

– No! No! – urlò al vuoto, sentendo le lacrime pizzicargli le ciglia. – Maledetta bastarda!

Ricacciò un conato nelle proprie viscere, conseguenza dell'aver provato a sollevarsi in piedi dalla sedia a rotelle, in un impeto di rabbia. Prima che il vetro potesse calare completamente tra loro, un anfratto della sua coscienza riuscì a percepire cosa la ragazza stesse facendo dall'altro lato.

Eve aveva iniziato a tempestare la parete di pugni, sino a sbucciarsi la pelle. La sua bocca si era schiusa in un urlo muto, che per colpa di Iris non stava riuscendo a raggiungerlo. Si era alzata in piedi, e alcuni degli elettrodi che le fasciavano la testa si erano staccati ricadendo a terra, ramoscelli fluorescenti ormai privi di vita.

La vide intingere l'indice nel sangue che le imperlava le nocche, col viso ridotto a una maschera di lacrime trasparenti.

Eddie trattenne il fiato, stringendo gli occhi per osservare nel buio.

Una lettera alla volta, Eve scrisse "NADINE".

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