⁴. 𝘍𝘶𝘨𝘢

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– Un risvolto inaspettato – sogghignò Florian, sistemandosi sul sedile del passeggero. Mentre puliva gli occhiali con un lembo del suo maglione, notò che Eddie era arrossito lievemente. – Non sei felice che qualcuno spenda delle belle parole per te?

– Quella signora puzzava di silicone anti-età – lo ignorò Eddie, infilando la sua carta ID nel cruscotto.

– E tu dove avresti sentito un odore del genere?

– Durante l'anno Fisico-Chimico in Accademia. È stato un team di LaBo a sintetizzarlo, ce ne mandarono un campione per imparare a riprodurlo per noi stessi. Alla fine dell'anno avevo già dimenticato la sua composizione.

Florian pensò a tutta la conoscenza che Eddie aveva dovuto ingurgitare nei dieci anni di studio in Accademia. – E come hai fatto a superare l'esame di fine corso? – gli chiese.

– Sino a quel giorno avevo imparato a sintetizzare il silicone. Dopo quel giorno, l'ho rimosso – sorrise. – So già che non avrò alcun interesse a utilizzarlo in futuro.

Eddie diceva sempre che il cervello elimina in automatico le informazioni che ritiene inutili, ma lui aveva imparato a farlo di sua spontanea volontà. Florian era sempre stato affascinato da quella capacità.

L'auto si fermò al semaforo con uno scatto quasi brusco, dovuto alla guida semi-automatica che aveva impostato Eddie. Florian ne approfittò per accendersi una stecca Joy.

– Spegni quella roba, sto guidando... – disse il ragazzo.

– Io guido sempre mentre fumo queste. Non fanno nulla.

– E invece sì, c'è scritto nelle controindicazioni che le endorfine sintetiche inibiscono l'attenzione del 45%. Spegnila. Il vapore passivo fa male anche a me.

– Sai sempre troppe cose, tu... – rispose Ian. Aveva una scorta abbastanza limitata di quegli antidepressivi, quindi non voleva cedere.

– Senti, apro il finestrino e basta. Non ti preoccupare, nessuno mi farà domande. Sanno della mia condizione.

Florian abbassò il vetro oscurato e si sporse verso la strada. I suoi capelli ricci si gonfiarono ulteriormente a contatto con l'umidità.

Eddie non ribatté, probabilmente comprendendo il bisogno che si celava sotto alle sue parole. Florian lo vide fissare il tabellone sul semaforo con il numero tinto di verde, con un leggero senso d'angoscia che iniziò a inquinargli lo sguardo. Si soffermò anche lui a osservare le familiari cifre. 2.180.221.947. Non passò molto che distolse gli occhi, grattandosi il mento.

– Secondo te quando toglieranno questi quadranti? Sono solo uno spreco di elettricità pubblica, e sono angoscianti come quelle tue vecchie clessifre piene di sabbia – disse Eddie.

– Clessidre – lo corresse Florian. Come una falena attirata dalla luce, si rimise a fissare il tabellone verde, sfocato dalla pioggia che stava ricominciando a cadere debolmente.

2.180.221.948. Due-miliardi-cento-ottanta-milioni-duecento-ventunomila-novecento-quarantotto. Florian girò il viso, sbuffando un po' di fumo fuori dal finestrino.

2.180.221.948. Otto. Numero otto. Ovale e con una rientranza al centro.

Florian strizzò gli occhi, lasciando cadere la stecca Joy sul tappetino.

– Vuoi prendere fuoco? – iniziò Eddie, raccogliendo la sigaretta e spegnendola tra i polpastrelli. Ian gli prese la testa tra le mani torcendogliela verso il Quadrante, nell'esatto momento in cui l'otto sfumò e tornò a essere un sette.

Eddie sbarrò gli occhi. – Non è possibile.

***

– Ancora un momento di pazienza, per favore – disse Yae all'uomo dietro la porta.

– Sbrigatevi – rispose lui, impassibile e lapidario come sempre.

Yae non sapeva molto di quell'uomo, ma non si sarebbe stupita di scoprire che avesse un passato come buttafuori o come guardia del corpo. Se le persone fossero oggetti, lui sarebbe un armadio, si trovò a pensare. E io sarei la maniglia scarna che non riesce ad aprire le ante.

In quel momento era esattamente quella la sensazione che provava: bloccata. Il sudore le ricadeva a fiotti dalla cima della fronte sino al mento appuntito, e i pochi capelli che aveva, per via del suo taglio a spazzola, grondavano anch'essi, bagnandole il colletto alto del camice da laboratorio.

Accanto a lei stava la ragazza che la dottoressa Iris chiamava "Eve". Ogni giorno, da non ricordava più quanti anni ormai, Yae era incaricata di sorvegliarla mentre utilizzava i servizi igienici, data la sua scarsa forma fisica. Non lo considerava un compito ingrato, tutt'altro: le dava l'occasione di starle accanto in un modo diverso rispetto a quello che sperimentava di solito.

Eve le era sempre sembrata una sorta di animaletto spaventato, e forse ancor prima che per giustizia, Yae era stata portata a compiere la propria missione per compassione. Tuttavia, pochi attimi prima, si era resa dolorosamente conto di non aver tenuto in considerazione una cosa: la ragazza non aveva mai visto un coltello.

Quando glielo aveva affondato nel braccio, seppur con delicatezza, Eve si era spostata di riflesso con uno scatto felino. Yae le aveva così lacerato per sbaglio una vena esposta, con un taglio di almeno sei centimetri.

Inizialmente il sangue le aveva imperlato l'interno del polso a piccole sfere, ma la ferita frastagliata non aveva tardato ad aprirsi del tutto, riversando liquido rosso sulla porcellana del pavimento e sui sanitari immacolati. Se non fosse stata quella la situazione, sarebbe stata una visione ipnotica.

Eve aveva soffocato un lamento, seguitando a osservare quel corpo estraneo che le usciva dal braccio come fosse stata unicamente posseduta da una sana curiosità scientifica.

"È come una volta al mese", aveva detto a Yae, e quest'ultima non era riuscita a spiegarle la differenza, né a dirle che quella ferita avrebbe in realtà potuto ucciderla. Il torpore del dissanguamento probabilmente non era una sensazione fisica abbastanza intensa da causare allarme alla ragazza. La sua reazione in qualche modo facilitò la medicazione di Yae, che percepiva invece il panico morderle lo stomaco.

La persona che le aspettava all'esterno della recinzione le aveva dato una finestra temporale di circa un'ora, dopodiché anche il loro passaggio sarebbe sfumato. Yae aveva messo a punto diversi sistemi per arrivare fin lì, compreso l'uso del taser illegale che le sarebbe servito per tramortire l'uomo dietro alla porta. Tuttavia, i passi successivi della sua missione sembravano essere svaniti nell'esatto istante in cui il coltello aveva lacerato la carne di Eve.

Le due erano chiuse in bagno già da una decina di minuti, e il sangue non accennava a fermarsi. Yae si sentì improvvisamente stanca, ma stringere il polso sottile di Eve le ridiede forza, ricordandole quanto la ragazza fosse fragile, e quanto la sua missione fosse importante.

Yae prese un lungo respiro, maturando una decisione: si sarebbe comportata come un computer in grado di gestire un solo processo alla volta. Smise di immaginare la fuga della persona che le attendeva, così come smise di pensare agli allarmi che sarebbero suonati, o all'uomo fuori dalla porta che le avrebbe braccate. Scelse il singolo processo da avviare per salvarsi: non avrebbe cercato ulteriormente di rimuovere il dispositivo che Eve aveva nel braccio. Lo decise per mancanza di tempo, ma anche per evitare di ucciderla. In quel momento nessuna delle conseguenze possibili le sfiorò la mente.

Strinse ancora le bende, piantando uno sguardo deciso negli occhi grigi e curiosi di Eve. Dopodiché prese il taser dalla tasca, e aprì lentamente la maniglia della porta.

***

La dottoressa Iris Svart si trovava come sempre dall'altro lato del vetro, a osservare. Erano passati trenta minuti da quando era suonato l'allarme.

I suoi colleghi l'avevano osservata aspettandosi una reazione di qualche genere, ma lei non gli aveva permesso di ottenere alcun fremito da parte sua. I suoi successivi ordini erano stati eseguiti con precisione, come di consueto.

Nelle poche volte della sua vita in cui aveva dovuto affrontare situazioni d'emergenza, la dottoressa Iris aveva adottato l'approccio volto a ricercare il massimo risultato nel minor tempo possibile. In quel caso si era trattato di concentrare tutti gli sforzi per recuperare e curare Eve, nonostante questo avesse significato lasciar fuggire l'altra ragazza, e probabilmente anche chi l'attendeva per aiutarla.

Il sentimento che l'aveva tormentata di più, nell'ultima mezz'ora, non riguardava tuttavia ciò che la temporanea uscita di Eve dal campo di controllo avesse causato all'esterno, né ciò che la tentata fuga le avrebbe potuto causare a livello mentale. Di quello si sarebbero occupati successivamente. Ciò che Iris non riusciva a mandare giù era la facilità con la quale una sottoposta qualsiasi si fosse sottratta al suo controllo.

I dieci membri del Progetto le avevano mostrato, negli anni, un'assoluta fede nella visione futura che lei gli aveva prospettato. La ragazza di nome Yae Levin, dalla fedina penale più che pulita e dall'Allineamento Mentale più che sicuro, non avrebbe dovuto sottrarsi all'equazione.

Considerata la sua giovane età e la sua scarsa competenza medica, Iris aveva deciso di assegnarle pochi semplici compiti: ogni giorno vestiva e nutriva Eve, la accompagnava al bagno, le attaccava gli elettrodi al cranio e archiviava le schede di screening della sua attività cerebrale. All'interno del Laboratorio era la meno alta in grado, persino al di sotto di Hermes. La dottoressa, tuttavia, le aveva permesso di interagire occasionalmente con Eve per via della simile età anagrafica.

Prima di farle attraversare il vetro l'aveva sottoposta a molti test psicologici, per saggiare la sua morale. Eve avrebbe potuto assorbire qualsiasi idea come una spugna, quindi in quella fase Iris aveva deciso di essere molto cauta.

Sapeva che era da tempo giunto il momento di far interagire Eve con altri esseri umani che non fossero medici. Aveva persino sorvolato sulla frase che aveva sentito pronunciare a Yae una volta, origliando dall'interfono una sessione di Comunicazione Tra Pari. "Io e te siamo come due sorelle", le aveva detto.

Iris quella volta non aveva annullato la sessione, ma quando Yae aveva di nuovo attraversato il vetro l'aveva rimproverata aspramente. Ricordava che il suo collega Jonas, sistemando i sui occhiali sottili, le aveva invece spiegato con voce calma che familiarizzare con i concetti che descrivevano dei legami importanti avrebbe fatto del bene a Eve.

Iris non aveva saputo come considerare l'affermazione del collega: se un semplice modo per calmarla in quel momento o un genuino parere scientifico. Dunque, aveva infine soprasseduto a quella pericolosa affermazione, considerandola un lapsus, un'interferenza trascurabile nel rapporto tra le due coetanee.

Eppure, in quel momento, mentre guardava Eve fissare il vuoto col polso fasciato, non poté fare a meno di pensare di essere stata sciocca a fidarsi così tanto di qualcun altro. Opinioni scientifiche a parte, era lei a dover avere l'ultima parola sulla ragazza. Ciò che stavano facendo era troppo importante, e per via di un'illusa e giovane sentimentalista rischiavano di perdere anni di progressi.

Con quei pensieri che le macinavano in testa, la dottoressa staccò per un momento gli occhi da Eve. Poco prima era entrata a posizionarle personalmente gli elettrodi al posto giusto, un lavoro che d'ora in poi avrebbe dovuto fare da sola. Siamo di nuovo io e te, si era detta.

Si girò a destra e incontrò lo sguardo di Jonas, con gli occhiali calati sul naso che riflettevano l'interno della Stanza Bianca. Lui notò il suo sguardo con la coda dell'occhio e si girò a sua volta annuendo leggermente, un segno di assenso che si erano scambiati centinaia di volte.

– Riforma Avanzata leggera. 7.4 – disse lui ad alta voce, per toglierle ogni dubbio su ciò che il suo assenso potesse significare.

Nella Stanza, gli occhi grigi di Eve erano ancora fissi sul pavimento, ma Iris notò che tremolavano leggermente, come il calore che esala dall'asfalto in estate. La sua impassibilità la sorprese, ma in quel momento si disse che quell'immobilismo avrebbe reso più semplice il provvedimento.

Con un sospiro sconfortato spinse un pulsante sul tabellone dei comandi, e un istante dopo vide la ragazza accasciarsi a terra dall'altro lato del vetro.

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