⁵⁹. 𝘖𝘴𝘢𝘳𝘦

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– Ciao.

– Ciao.

La ragazza con le iridi di Florian lo osservò, animata da uno scintillio di curiosità infantile. Il suo sguardo lo faceva sentire nudo, come una reliquia esposta in una teca, anche se tecnicamente avrebbe dovuto essere lei la persona in quello stato, esibita com'era da sempre. Eddie cercò di fermare il tremore delle proprie mani, stringendole fra loro. Eve continuò semplicemente a fissarlo, inclinando la testa da un lato.

Le parole sembravano essergli morte in bocca. Avrebbe voluto gettare lì qualcosa, qualsiasi cosa, una domanda o un riferimento utili a comprendere se la persona che la dottoressa Svart chiamava Eve potesse realmente essere Nadine. Eppure, la somiglianza con le foto era strabiliante. Il suo viso aveva dei tratti somatici più delicati rispetto a quelli di Ian, forse ereditati dalla loro madre. Ma lui sapeva che Nadine era morta, bruciando nell'incendio che aveva lasciato suo fratello ustionato sin dentro l'anima. Tuttavia, non poté fare a meno di lasciarsi colpire a ondate da quelle frasi: lei è qui. È di fronte a me.

Eddie percepì i propri pensieri viaggiare alla velocità della luce. Se lei è viva, allora anche Amélie lo è. Un amaro sospetto gli invase la mente, facendogliela pulsare in densi intervalli di dolore. Iris Svart ha un accento particolare, quando parla. Come se lo Standard non fosse la sua prima lingua. Lo avevi notato, ieri. E non si è mai lasciata vedere. Ti ha mandato altre persone, ti ha parlato tramite interfono. Sapeva che l'avresti riconosciuta. Probabilmente Iris aveva ritenuto di assomigliare ancora troppo alle foto della se stessa ragazza, e sperava non sarebbe stato lo stesso per Eve. Eddie ricordò la descrizione di Amélie fattagli tempo prima da Florian, e di come l'avesse definita fredda e priva di empatia. Proprio come la dottoressa Svart.

Si tastò la fronte, sentendola in procinto di scoppiare. Avrebbe voluto urlare ognuna di quelle cose; tuttavia, era consapevole che Iris, o Amélie che fosse, avrebbe interrotto immediatamente la conversazione con Eve, forse per non spaventarla. No, non avrebbe potuto farle quelle domande, non in quel momento.

Eve sembrò preoccuparsi dei suoi scatti ansiosi, perché la vide contrarre la mascella. Qualcosa in lei gli faceva provare un senso di tenerezza e familiarità, non avrebbe saputo dire se perché fossero entrambi in pessime condizioni, o perché la ragazza gli ricordasse suo fratello. Eddie cercò di appigliarsi a quel sentimento, sforzandosi di sorriderle. Rilassò le spalle, e le sentì emettere un suono secco.

– Ti conosco – disse Eve, spezzando il silenzio.

– Davvero? – le rispose, pentendosene subito. Ma è ovvio.

– Sì. Ti ho visto in olografia tante volte. Perché non hai più i capelli lunghi?

Eddie allungò una mano verso la testa, cercando inutilmente la propria chioma bionda, che gli avevano reciso per medicare la ferita al cervelletto. Sospirò piano, flettendo le dita. – Me li hanno tagliati per curare questa.

Lo sguardo di Eve sembrò farsi interrogativo, e di tutta risposta lui ruotò il busto, permettendole di osservare la garza che aveva attorno al cranio. La ragazza proruppe in un'espressione sconcertata, e a Eddie sovvennero le parole di Abramizde: "è stata privata di qualsiasi stimolo negativo." L'idea di averla sconvolta lo preoccupò leggermente, nonostante credesse che cercare di evitarle il dolore fosse alquanto insensato. Eddie ripensò a un paio di mesi prima, quando aveva testimoniato le rivolte con un'ingenuità che non aveva mai percepito di avere addosso. "Inconsapevole": era quello il modo in cui avrebbe descritto il se stesso di allora, ed era quella la parola stampata sulla fronte di Eve, adesso.

– Come te la sei fatta? – gli chiese la ragazza. Il suo modo di parlare era legnoso, quasi meccanico, e la faceva assomigliare a un'intelligenza artificiale a corto di conversazioni con gli umani.

Prima ancora che lui riuscisse a proferire parola, sentì un breve ronzio statico bucargli i timpani, e una voce ormai familiare riempire la stanza.

– Non dirle nulla del gesto di Hermes – disse Iris. Probabilmente doveva aver avviato una comunicazione monocanale per farsi udire solo da lui.

Eddie si sentì vacillare, non solo per l'interruzione inaspettata, quanto per il desiderio viscerale di scoprire cosa sarebbe accaduto se avesse riportato a Eve ogni cosa per filo e per segno. Gli sembrò di avere di fronte a sé una bomba a orologeria pronta a esplodere, nascosta sotto la facciata di un debole castello di vetro.

Decise di seguire le indicazioni, annuendo alla telecamera. Eve, intanto, continuava a osservarlo con vigore, trapassando il vetro tra loro.

– Mi sono fatto male – le disse. La dottoressa Svart non obiettò nulla, ed Eddie tirò un sospiro di sollievo.

Attese con pazienza una qualsiasi reazione da parte della ragazza, quando la vide sollevare la manica destra dell'abito che indossava, mostrandogli l'interno del proprio avambraccio. La sua pelle era color ambra come quella di Florian, e la vide sporcata dalla stessa rozza cicatrice che aveva scorto il giorno prima.

– Abbiamo una cosa in comune.

Eddie ammutolì. Non era autorizzato a parlare di dolore e sangue, era vero; ma cosa sarebbe accaduto se fosse stata Eve stessa ad accennarvi? Un pensiero gli provocò un sorriso dell'anima: la ragazza, probabilmente, si stava comportando in una maniera che Iris non aveva affatto previsto. La ferita infertale nella sua tentata fuga equivaleva a una sorta di "bug" all'interno della gabbia priva di sangue, di dolore, di morte – di umanità – che le era stata stretta attorno.

La curiosità di Eve gli fornì un'inaspettata dose di adrenalina. La sentì saldarsi all'astio per la dottoressa Svart, che aveva osato recludere quella ragazza per diciassette anni. Lentamente, Eddie iniziò a provare lo spasmodico bisogno di spingersi oltre. Di dimostrare a Iris che si sbagliava, che il suo progetto era fallace. Che sotto quegli elettrodi e quel biancore non si celava una cavia, ma un essere umano, con le sue paure, i suoi sogni, la sua viscerale sete di conoscenza. Un essere umano che lei, dall'alto della propria asettica razionalità, non sarebbe mai riuscita a controllare, né a comprendere.

Gioca bene le tue carte, sentì suggerirgli la voce di Rein. Eddie sorrise leggermente. Se Rein fosse stato al suo posto, si sarebbe di certo fatto strada con la propria irriverenza, una dote che in diverse occasioni gli aveva invidiato. Gli sembrò quasi di vederselo davanti, col suo sorriso spavaldo, come sempre intento a spronarlo per cercare la verità. Avanti, provaci.

Eddie indicò un punto dietro alla ragazza, verso il muro opposto al proprio. In quella zona il pavimento era lastricato di fogli: i disegni che le aveva visto produrre instancabilmente, da quando era arrivato lì.

– Ti piace molto disegnare?

Eve si guardò alle spalle, seguendo l'indice di lui come ipnotizzata. La vide annuire leggermente.

– Sai, conosco un'altra persona a cui piace. I suoi disegni sono bellissimi – continuò lui.

Eddie stette in silenzio, attendendo una risposta. Gli sembrò quasi di poter percepire il furente rimprovero della dottoressa Svart, al di là del vetro. Quel pensiero, tuttavia, non lo intimorì: non avrebbe fatto il nome di Rein, non ancora. Non era quello il suo obiettivo.

– Mi piacerebbe vederli. Secondo me sei molto brava.

La risposta di Eve fu immediata, quanto prevedibile. – Iris dice che solo Saryu e gli altri dottori possono vederli.

Nella sua voce notò una certa sfumatura di rammarico. Ancora una volta, il pensiero di quanti pochi contatti umani e genuini le avessero permesso di avere lo riempì di ostilità. Una parte di lui avrebbe voluto alzarsi in piedi e sfasciare ogni cosa, urlare al vuoto la disperazione per la propria condizione e per quella di Eve. Ma anche solo il semplice alzarsi in piedi sarebbe stato problematico, visto il suo stato fisico. No, si disse. Puoi solo scavare, puoi solo ragionare. Cosa farebbe Rein, al tuo posto?

– È un peccato. Magari potrei chiedere il permesso a loro.

A quelle parole, Eve sembrò illuminarsi. Il suo volto si aprì in un sorriso timido, e per un istante la vide tornare bambina. – Sì.

Eddie inspirò a fondo per impedirsi di crollare. Si sentì intrappolato in una densa angoscia, soffocando come un insetto nella resina. Posò i polpastrelli sul vetro, utilizzando il freddo della superficie per tornare presente a se stesso.

– C'è qualcos'altro che ti piace fare?

La ragazza ci pensò su un momento. – Mi piace osservare la natura.

Eddie sorrise, tamburellando lievemente con l'indice. – Abbiamo una cosa in comune – disse, ricalcando le parole di lei.

Lo sguardo di Eve si fece ancora più interessato, ringiovanendola ogni secondo che passava. Nonostante sapesse benissimo di essere più piccolo di lei, considerando l'eventualità in cui si fosse trattato di Nadine, Eddie non poté fare a meno di pensare a quanto la reclusione l'avesse mantenuta in uno stato di infanzia forzata.

La ragazza rincorse per un attimo un pensiero, lasciando che il suo sguardo guizzasse sulla figura di lui. Lui si sentì scrutato, ma cercò di sostenere i suoi sferzanti occhi grigi.

– Hai altro che ti piace fare... Edin?

Il suo cuore mancò un battito. A differenza di Iris, il suo vero nome pronunciato da Eve aveva la stessa sfumatura delicata di quando ad articolarlo erano Florian, o Rein. Nel caso della ragazza, sembrava che vi aggiungesse una sorta di timore, come se avesse avuto paura di rovinarlo, proferendolo con più forza.

Cercò di concentrarsi sulla domanda, quella che sperava gli facesse, in qualche modo. Ci siamo, gli sussurrò Rein. Provaci.

– Mi piace ballare – mentì. Per un momento ebbe una visione del proprio corpo massiccio impegnato a danzare sgraziatamente, e la cosa lo divertì alquanto. Si riconcentrò su Eve, e notò che aveva sgranato gli occhi. Eddie conficcò le unghie nel palmo della mano, affrettandosi a continuare. – A te piace?

Eve non rispose, e prese a torcersi le mani convulsamente. Lui la esaminò con attenzione, registrando ognuna delle sue risposte fisiche. Nadine è morta uscendo dalla scuola di danza.

– Non lo so –, disse infine.

Eddie sentì una fitta di delusione pervaderlo, cancellando il suo breve senso di vittoria. Non fa niente. Prova ancora, disse Rein.

– Mi piace anche studiare le lingue – le disse, senza mentire. – Anche se sono ancora mediocre.

Eve smise di tormentarsi le mani, risvegliandosi. – Le capacità di ognuno non sono mediocri, sono solo diverse – disse. Quelle parole lo spiazzarono leggermente. Non fece in tempo a risponderle, che la sentì proseguire. – Che lingue conosci?

Eddie percepì la schiena imperlarsi di sudore. Attento, sentì dire alla propria coscienza, con una voce simile a quella di Florian, questa volta. Si sforzò di ignorarla, sporgendosi ancora un po' oltre il baratro.

Le franҫais, par exemple.

Gli sembrò quasi che il tempo si fosse fermato attorno a loro, permettendogli di incastonare quelle poche parole nell'assordante silenzio che li circondava. Le percepì riverberarsi nella sua cassa toracica, gonfiandola e comprimendola, come se il respiro della vita stessa si stesse dispiegando attraverso la sua voce. Adesso osserva bene, Iris.

– Hai capito cosa ho detto? – chiese alla ragazza, cercando di mantenere un'espressione impassibile.

Eve gli rispose con lo stesso sguardo smarrito di poco prima, e ricominciò a torcersi le mani.

– La stai mettendo a disagio – disse tagliente l'avvertimento della dottoressa Svart, attraverso l'interfono.

Lui sentì il suono dei propri battiti selvaggi rimbombargli nei timpani, espandendosi a dismisura sulle pareti della sua prigione bianca. Tuttavia, l'entrata in scena di Iris poteva significare solo una cosa: i suoi sospetti erano fondati. La donna temeva davvero che qualcuno dei ricordi di Eve potesse riaffiorare, per colpa di quella conversazione. Cercò di serrare il timore in un angolo della propria mente, continuando a parlare imperterrito.

– Et vous aimez le franҫais? C'est un langage trés musical.

Eve non rispose ancora una volta. I suoi occhi sembravano essere ricolmi di una marea agitata, che rischiava di trascinarlo con sé nell'abisso. La vide osservarsi le dita scarne, intrecciandole tra loro. Ogni suo movimento sembrava estremamente lento, eppure non mancava di attirargli lo sguardo come una calamita. Per un momento pensò di aver fatto un buco nell'acqua. E se mi fossi sbagliato? Se lei non fosse davvero Nadine?

– Direi che per oggi può bastare – sentì dire alla dottoressa Svart, con un tono più ovattato rispetto a quando si era rivolta a lui poco prima. Anche Eve alzò il capo, questa volta, segno che la comunicazione doveva essere stata trasmessa anche nella sua stanza. – Sarebbe meglio se riposaste entrambi, per il vostro bene.

Eddie si lasciò sfuggire uno sbuffo sarcastico, dimentico per un istante di avere ancora Eve di fronte a sé, oltre il muro trasparente. Vide il vetro perdere lucentezza, opacizzandosi. Quasi per riflesso vi posò i polpastrelli, sovrapponendoli alla figura sfarfallante della ragazza, provando a trattenerla con sé. Avrebbe voluto passare ancora qualche istante con lei, forse per la paura di rimanere da solo coi propri pensieri, forse per via del senso di connessione che aveva iniziato a provare.

Le luci attorno a lui si fecero più soffuse, accompagnando l'affievolirsi dell'adrenalina che aveva sentito camminargli sulla pelle. Eddie si mise più dritto sulla sedia a rotelle, strabuzzando gli occhi un paio di volte.

Poco prima che la breccia fra loro si richiudesse, isolandoli irrimediabilmente, poté udire la voce di Eve per l'ultima volta. Sembrava stesse parlando tra sé e sé, e se non ci fosse stato solo silenzio attorno a loro, era sicuro che non l'avrebbe udita.

Trés musical – disse. Il suo accento era impeccabile, e lui sentì il respiro abbandonarlo. – Mi piace molto.

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