⁷⁹. 𝘛𝘦𝘮𝘱𝘦𝘴𝘵𝘢

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Ci siamo, pensò Dianne, valicando la porta dell'infermeria. Sentì il pensiero farsi scintilla, e le mani imperlarsi di adrenalina. Augurami buona fortuna, Nicholas.

L'ambiente emanava lo stesso odore di lattice della volta precedente, mescolato a quello del deodorante scadente dell'uomo tarchiato che si muoveva nella stanza. Dianne ignorava il nome di quel medico, nonostante in un paio d'occasioni lo avesse aggredito per cercare di sottrarsi all'iniezione di tranquillante.

L'uomo le indicò la solita poltrona rossa, che aveva la pessima abitudine di irritarle la schiena coi suoi gancetti di feltro ruvido. Sul soffitto facevano capolino alcune telecamere, probabilmente preposte a controllare che non accadesse nulla di strano. Ma oggi farò la brava, si disse lei, accomodandosi silenziosamente sulla seduta. Oggi niente problemi.

Dianne metteva piede fuori dall'isolamento in una sola occasione: l'iniezione giornaliera di tranquillante. Se la cella non avesse integrato i servizi igienici (per fortuna celati da una porta), con tutta probabilità non l'avrebbero mai fatta uscire, come nel caso di Nicholas. Paradossalmente, cercare di riportarla all'ordine intorpidendole la mente aveva fornito a lei e allo psichiatra la possibilità di mettere in atto il loro piano. Seppur Dianne non adorasse l'idea di agire a mente annebbiata, sapeva che non avrebbero avuto altre opportunità.

Quel pensiero le fece gonfiare il petto di trepidazione. Non deve succedere per forza oggi, si disse, cercando di rallentare il flusso di pensieri. Le sovvennero le parole di Nicholas, sussurrate decine di volte nel buio, mentre ripassavano il loro piano. "Il dubbio è un seme", aveva detto. "L'importante è iniziare a coltivarlo."

– Allora – disse il medico, sorridendo viscido, – come andiamo oggi, signorina Smith?

Dianne lo vide pasticciare con una siringa, riempiendone la pancia di liquido trasparente. – Una meraviglia – rispose, sbuffando. – Non potrebbe andare meglio.

– Mi fa piacere – ribatté lui, ignorando il sarcasmo nella sua voce. Diede un paio di colpi all'oggetto, liberandolo dalle gocce di liquido in eccesso. – E mi dica, si trova bene col suo nuovo amico?

Lei sentì un moto di rabbia bruciarla dall'interno. Serrò istintivamente i pugni, ma si costrinse a mantenere la calma. Non poteva lasciare che l'atteggiamento del medico la irritasse, non quando le era stato dato quello spunto su un piatto d'argento. Devi volgere il discorso a tuo favore. Fa' come ti ha insegnato Nick.

– Benissimo – sputò fuori, cercando di ostentare un tono neutro. – È una persona piuttosto interessante. Anzi, abbiamo anche scoperto di avere qualcosa in comune.

Stette in silenzio, attendendo che l'uomo assorbisse quelle parole. Lo vide sollevare lo sguardo su di lei, mentre avvinghiava un tubo di gomma al suo braccio disteso. Sentì il bicipite contrarsi, gonfiando la manica del suo abito leggero.

– E cioè? – chiese lui, distrattamente.

Dianne stirò le labbra. – Niente di che. A quanto pare io e Nicholas condividiamo una certa informazione.

L'ago si insinuò nell'incavo del suo gomito, creando un bassorilievo con la sua pelle dorata. Le nebbie dei tranquillanti sgusciarono dentro di lei, indolenzendo rapidamente l'involucro del suo corpo.

Il medico ritrasse la siringa dal suo braccio. Qualcosa in lui le suggerì un barlume d'interesse, giunto a colorargli lo sguardo.

– Che tipo di informazione? – domandò infine, sfuggente.

Dianne fece un lieve sbadiglio, tamburellando con le dita sul feltro ruvido del bracciolo. "Il dubbio è un seme", ripeté la voce calma di Nicholas.

– Diciamo che entrambi conosciamo un certo codice d'accesso... Un codice che potrei aver divulgato più del dovuto.

Vide l'uomo bloccarsi a mezz'aria, col tubo di gomma ancora in mano. Nonostante stesse compiendo le solite azioni, a Dianne parve vacillare sul posto, come un ramoscello curvato dal vento.

Cercò di sciogliere i muscoli delle gambe, stendendole oltre la poltrona. I flash di una delle conversazioni avute con Nicholas si incunearono prepotentemente nella sua testa.

"È solo una diceria, anche se mi è capitata tra le mani diverse volte", aveva detto lo psichiatra, col viso grinzoso illuminato dalla Luna. "Non ho idea se per fuggire nel Lethe servano davvero dei codici, né ne conosco uno. Ma se vogliamo spingerli a farti un test con la macchina della verità, dobbiamo fargli credere di sapere qualcosa che loro non sanno."

Dianne si era sporta verso di lui, facendo ciondolare una gamba dal davanzale della finestra. "Ma questo non basterà a farli allarmare. Siamo già rinchiusi, siamo già innocui." Aveva sentito il viso irrigidirsi, sporcato da un accenno di rabbia. "Non gliene importerà nulla. Anche se avessimo delle informazioni, morirebbero con noi in questa fottuta tomba."

Nicholas si era limitato a sorriderle, grattandosi la barba canuta. "Non hai tutti i torti", aveva risposto, tranquillo. "Ma ricorda che l'efficacia di un virus sta nella sua capacità di replicarsi."

– Quale codice? – chiese con noncuranza il medico, dandole le spalle. Nonostante il suo tono, la sua postura iniziava a tradire un certo nervosismo.

Lei decise di rispondergli a mezza voce, fingendo indifferenza. – Uno dei codici di accesso del Lethe – disse. – Non sapevo fosse giusto, sin quando Nicholas non me l'ha confermato. È stata proprio una fortuna, incontrarlo sulla mia strada. Anzi, se possibile vorrei ringraziare chi ci ha messi insieme in isolamento. Sei stato tu, per caso?

L'uomo sembrò non registrare appieno quelle parole. Si voltò verso di lei, senza neanche impegnarsi a dissimulare il proprio stupore. – Prima ha detto "divulgato". Che intendeva?

Dianne contrasse il volto, costringendosi a rimanere impassibile. Non ha espresso dubbi sull'esistenza del codice. Vuol dire che le dicerie raccolte da Nicholas potrebbero anche essere vere. Quell'idea ebbe il potere di stupirla, seppur solo per un attimo. Poco male, si disse, euforica. Andrà solo a mio vantaggio.

Fece un altro sbadiglio, nascondendovi un lieve sorriso. – Sai che lavoro facevo io, prima di arrivare qui?

Lo vide riflettere un istante, prima di rispondere. – Sì, me l'hanno riferito. Era operaia in una fabbrica di InfanTech.

Lei curvò le labbra. – Esatto. Ottima memoria – rispose. – Chissà quanti bambini meccanici, in questo momento, stanno ripetendo il mio codice ad alta voce. E chissà quanti cittadini della capitale, nascosti nelle loro case, lo stanno ascoltando.

Si prese una piccola pausa, gustandosi lo sguardo esterrefatto dell'uomo. – Per fortuna che Nicholas me ne ha confermato l'esattezza. Credevo di aver corrotto tutti quei software per nulla.

L'infermeria fu pervasa da un infrangibile silenzio, che calò prepotentemente su di loro. Dianne continuò a sbirciare lo sguardo subdolo del medico, senza comprendere cosa si celasse al suo interno. Il silenzio durò al punto da farle chiedere se non avesse fatto un buco nell'acqua, e la spinse a ripercorrere le proprie frasi a ritroso, saggiandole parola per parola. Quando ormai era certa di aver fallito, l'uomo proruppe in un'unica parola.

– Sciocchezze.

Lei trattenne un ghigno, seppur impigrita dai tranquillanti. – Affatto. È la pura verità.

– È impossibile – continuò lui, incrociando le braccia al petto. – Qualcuno se ne sarebbe accorto, prima o poi. Il controllo degli InfanTech è serratissimo, e quelli malfunzionanti vengono immediatamente ritirati dal mercato. L'avrebbero arrestata, per una cosa del genere.

Dianne scrollò le spalle, sorniona. – Mi hanno arrestata comunque, a quanto pare. Noi Disallineati non abbiamo poi molto da perdere. Ma almeno ora so di aver lasciato qualcosa di mio, all'esterno. – Assottigliò la voce in un sussurro, tingendola di una sfumatura glaciale. – Qualcosa che il vostro schifoso Regime non potrà mai controllare.

L'uomo si bloccò in un solido mutismo, scrutandola sin nel profondo. L'ago della siringa era ancora in bilico su un ripiano, inutilmente proteso verso la spazzatura. Dianne si sforzò di sostenere lo sguardo indagatore del medico, sin quando non lo vide sciogliere le braccia, rimettendosi a compiere le operazioni che aveva lasciato in sospeso.

– Non le credo, signorina Smith. Lo dice tanto per dire. Chissà che non sia anche mitomane, oltre che sociopatica.

Dianne lo sentì calcare un certo disgusto su quell'ultima parola, e si trattenne dal torcere la gamba per colpirgli lo stomaco. Le immagini del suo viso tumefatto premuto contro il pavimento le fecero fibrillare il sangue, e si morse l'interno della guancia per sopprimerle.

– Potrò anche essere una sociopatica – rispose, sforzandosi di apparire affabile, – ma ti dò la mia parola che non sto mentendo.

L'uomo sbuffò, sfilandosi i guanti di lattice. – La sua parola non vale molto, qui dentro – disse, maligno. Ancora una volta, Dianne usò tutte le proprie forze per impedirsi di spaccargli la faccia.

– Non valeva molto neanche là fuori – rispose, sprezzante, – dal momento che mi facevano continuamente test con il poligrafo.

Poté percepire l'adrenalina pomparle nelle vene, e sperò con tutta se stessa che l'uomo non se ne accorgesse. Stettero in silenzio per un tempo che parve interminabile, sin quando il medico non si voltò nuovamente verso di lei, studiandola. Senza averlo deciso, fu colpita dalla confortante immagine di un insetto intrappolato nella tela di un ragno.

– Stia ferma qui – le comandò, severo. – Vado a fare una telefonata.

Erano passate circa due ore da quando il medico l'aveva lasciata sola. Nonostante Dianne avesse esaminato ogni anfratto di quell'infermeria, la stanza offriva ben poco. Pur ammettendo che non ci fossero state le telecamere, non c'era alcun materiale che avrebbe potuto tornarle utile nel caso il loro piano fosse fallito. Niente da fare, Nick, pensò. Abbiamo ancora una sola strada.

Il rumore della porta le fece sollevare lo sguardo di scatto, nonostante i sedativi. I suoi occhi misero a fuoco il solito medico tarchiato, questa volta accompagnato da altre due persone: una donna primario coi capelli raccolti in una crocchia e un infermiere calvo dall'espressione nervosa.

– Andiamo, signorina Smith – disse il medico, facendole cenno di alzarsi. Sembrava piuttosto seccato, seppur si stesse sforzando di non darlo a vedere. – Adesso verificheremo se dice davvero la verità.

Lei si finse intimorita, tirandosi su a fatica dalla poltrona. – Dove volete portarmi? – mugolò.

La donna primario si scostò dallo stipite, facendola passare. Dianne ebbe quasi l'impressione che non volesse sfiorarla neanche per sbaglio. – Faremo una breve visita al poligrafo. Avanti.

Lei si trattenne dal sorridere, mantenendo invece un'espressione smarrita. Procedettero lentamente lungo il corridoio, tappezzato da un'orribile carta da parati a righe gialle. Alle pareti erano attaccate le stesse litografie di Malthesia che decoravano anche la sua stanza, e alcune finestre sigillate davano sul cortile esterno, come di consueto costellato da pazienti intenti a gironzolare senza una meta.

Osservando lo stato generale della struttura, Dianne non poté fare a meno di constatare quanto Nicholas avesse avuto ragione anche su quel punto. "Guardati attorno. I muri, le sbarre, le decorazioni. Questo ospedale psichiatrico risale al quarto dopo-guerra", le aveva detto. "È un posto dove i Disallineati vengono mandati per restarci. Se riuscirai ad arrivare a un poligrafo, sarà anch'esso un pezzo da museo. A quel punto sarà fatta."

A quelle parole, lei si era racchiusa in uno sguardo sin troppo dubbioso. "Cosa ti dà tanta fiducia?" gli aveva chiesto, sbuffando.

"Nulla", aveva risposto lui, calmo. "Ma qualcuno mi disse che possiamo solo dar fiducia a noi stessi."

Dianne trascinò i piedi sino a una porta blindata, la cui fattura antica contrastava con il piccolo schermo olografico attaccato alla maniglia. Il medico tarchiato accostò il proprio badge al dispositivo, provocando un breve suono. Lei riuscì a leggere di sfuggita la scritta "accesso consentito", seguita dal nominativo "Mondego, Luis".

Entrarono uno dopo l'altro in un'angusta stanza dipinta di un verde smorto, simile a quello dell'erba secca. Le pareti non avevano finestre, ed erano decorate da un'unica telecamera sbilenca. La donna primario si accomodò dietro a un tavolo al centro della stanza, sormontato da un ingombrante macchinario di plastica bianca. Nicholas le aveva parlato dei vecchi modelli di macchina della verità, descrivendone minuziosamente i componenti e il funzionamento. Fu per quella ragione che, una volta trovatasi davanti a essa, fu in grado di riconoscerla immediatamente.

– Ivan, collegala – disse la dottoressa, indagando Dianne da dietro degli occhiali tartarugati. L'infermiere dall'aspetto nervoso non se lo fece dire due volte, e si apprestò a farla sedere di fronte al tavolo, scoprendole i polsi con delicatezza. Sembrava piuttosto giovane, e Dianne notò che evitava timidamente il suo sguardo. Dopo pochi secondi, sentì il freddo degli elettrodi posarsi sulla sua pelle nuda, congelandola di colpo.

– Luis, io farò le domande e tu controllerai i risultati. Iniziamo con il settaggio.

Il dottor Mondego annuì, servile. Si accostò al macchinario, tirandosi dietro una sedia sbeccata, e fece cenno alla dottoressa di iniziare.

– Bene. Procediamo – disse lei, sorridendo falsamente.

Dianne sentì il cuore pulsarle nella gola. Spostò il pensiero verso le parole che le aveva detto Florian, illuminato dal caminetto della biblioteca. "Mi bastò intendere a modo mio la domanda, e poi convincermi che quella fosse l'interpretazione giusta." L'uomo le aveva sorriso, arricciando una ciocca dei suoi capelli castani, così morbidi e arruffati. "Significa che le macchine della verità non sanno riconoscere l'auto-inganno. Dovresti provare a raggirarne una, una volta. Sono sicuro che ci riusciresti."

Dianne sorrise di rimando a quella memoria, cercando di rilassarsi. Adesso tocca a te, Ian, si disse. Questo è anche per te.

– Allora, signorina. Il suo nome è Dianne Smith, vero?

Lei osservò gli aghi del poligrafo tracciare una serie di curve e picchi, disegnando delle forme frastagliate sul foglio accanto a Mondego. Un foglio, che a detta di Nicholas, era composto da nitrocellulosa altamente infiammabile.

Aggira la domanda, pensò, vigile. Smith non è il tuo cognome. È il cognome che ti hanno dato in orfanotrofio. Vuol dire che è falso.

– Vero – disse, pacifica.

Attese un istante, con i battiti a mille. Vide Mondego sollevare lo sguardo dal foglio inciso, piantandolo su di lei e poi sulla dottoressa. – È falso, dottoressa Clark. Sta mentendo.

La dottoressa Clark si sporse sul ripiano di metallo, controllando il tracciato. – Non è possibile. Questo è il nome che compare sulla sua cartella clinica ufficiale.

– Non saprei – disse lui, dubbioso. – Forse il macchinario ha bisogno di un po' di rodaggio. Riprovi con un'altra domanda.

La donna tornò al proprio posto, stizzita da quell'imprevisto. Dianne assunse un'espressione incredula, assecondando lo sguardo della Clark. Ottimo.

– E va bene. Proviamo con un altro quesito di base. Signorina Smith, lei fa l'operaia, non è vero?

Falso, pensò Dianne, riplasmando prontamente la domanda. Io "facevo" l'operaia. Adesso sono solo una reclusa.

– Vero – rispose, scrollando le spalle.

– Non ci posso credere – disse Mondego, battendo leggermente un pugno sul tavolo. – È di nuovo falso. Le sue risposte emotive confermano che sta mentendo.

La dottoressa Clark si alzò dalla propria sedia, acida. – Che storia è questa? – disse, rivolgendosi al medico. – È colpa di questo dannato macchinario. Lo dicevo io che la Chiesa non dà abbastanza fondi al nostro ospedale. Che inutile perdita di tempo.

Dianne strinse le dita, osservando gli elettrodi sollevarsi assieme ai suoi tendini. – Io sto dicendo la verità. Non so perché escano questi risultati – disse, assumendo un'aria innocente. – Forse sono solo agitata. Magari dovrei rilassarmi un po'.

Mondego si avvicinò al poligrafo, osservandone ostinatamente le linee serpeggianti. – Non dica idiozie, Smith. Due ore fa le ho iniettato del tranquillante. Dovrebbe già essere rilassata.

Lei sollevò le spalle, vaga. – Beh, magari dovrebbe farmi un'altra iniezione.

– Non se ne parla, Luis – disse la dottoressa Clark, rivolgendosi al medico. – Non siamo a una dannata Conclusione. Troppo tranquillante rischia di metterla KO fino a domani, e Jonas mi ha già chiesto di avere i risultati di questo interrogatorio entro stasera.

Mondego sembrò impallidire leggermente, e si voltò verso la dottoressa Clark, osservandola di sbieco. – Non sapevo avesse contattato il dottor Kersson prima di questo colloquio...

La donna sbuffò seccata, attorcigliando un filo del poligrafo su se stesso. – Certo che l'ho fatto. Lo sai che è a lui che dobbiamo riferire, per quanto riguarda lei.

Dianne drizzò le orecchie. Jonas Kersson, si stampò in mente. Se hanno dovuto chiedere il permesso a lui, vuol dire che c'entra qualcosa con la mia reclusione. Quel nome le rimescolò i pensieri, facendola sogghignare lievemente. Una pista. Sapere di avere qualcuno da cercare non fece altro che acuire la sua voglia di andarsene da quel posto. L'adrenalina la colpì con un'intensità ancora più pungente, recidendo anche le ultime briglie che la stavano trattenendo.

Portò un indice alla tempia, grattandosi svogliatamente. Si stupì di quanto la noncuranza di quel gesto contrastasse incredibilmente con l'euforia che le stava aggrovigliando lo stomaco. Ci siamo, si disse. Sei arrivata sin qui. Adesso va' fino in fondo.

– Almeno posso avere una stecca Joy per rilassarmi?

La dottoressa e il medico ammutolirono, ponderando brevemente quell'opzione. Li vide scambiarsi uno sguardo denso, voltandosi poi verso l'infermiere, che stava continuando a ondeggiare irrequieto.

– Prestamene una, Ivan. Non farmi scendere fino all'ambulatorio. Finiamo in fretta questa cosa.

L'infermiere Ivan estrasse un pacchetto dalla tasca, con fare tremolante. Lo vide accendere una stecca Joy col proprio accendino laccato, prima di porgerla alla dottoressa Clark. Lei, a sua volta, girò la sigaretta a Dianne, tornando ad accostarsi al poligrafo dall'altro lato del tavolo. Si mise a osservare il foglio di nitrocellulosa con concentrazione, e Mondego la imitò, ciondolando accanto a lei.

"Lo sai, una volta usavano la nitrocellulosa anche per le pellicole cinematografiche", le aveva detto Nicholas. "La ritirarono subito, quando scoprirono quanto fosse infiammabile. Tuttavia, il calo demografico ha azzerato l'innovazione tecnologica, quindi alcuni poligrafi montano ancora dei fogli composti da quel materiale."

"Questo va solo a nostro vantaggio", aveva risposto lei.

"Già", aveva sorriso astutamente Nicholas. "Va solo a nostro vantaggio."

Dianne diede una boccata alla stecca con la mano che le era rimasta libera, emettendo un verso di soddisfazione. Sentì il meta-endorfene pervaderle le vene, rinfocolando il suo entusiasmo. La sua vecchia allergia al fumo delle Joy le annacquò gli occhi. – Fantastico. Così va molto meglio.

– Mi fa piacere – disse la dottoressa Clark, senza nascondere il proprio disappunto. – Allora, Smith. Di' come ti chiami una volta per tutte.

Dianne le gettò un'ultima occhiata, impugnando la stecca tra i polpastrelli. La brace scintillò rossastra, mentre i due medici osservavano la sigaretta descrivere una curva verso di loro, posandosi sul foglio di nitrocellulosa srotolato oltre il poligrafo. Le fiamme si innalzarono immediatamente sui loro visi, colorandoli di un cieco terrore.

– Certo – rispose, scattando all'indietro. – E tu di' buonanotte.

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