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C'è un giorno, nella vita di ognuno di noi, nel quale capiamo che non ha senso ciò che stiamo facendo.

Un giorno in cui ci accorgiamo che non stiamo vivendo la nostra vita, ma quella di un altro.

Un giorno nel quale la nostra mente ci mostra la realtà. La fa emergere dai grovigli di nervi e sinapsi e ci apre gli occhi sul mondo.

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Una notte mi svegliai di soprassalto. Ero in un bagno di sudore e le lenzuola mi stavano soffocando come dei serpenti avviluppati al mio corpo, pronti a stritolarmi.
Le scalciai via malamente e mi tirai su, appoggiando i piedi sul pavimento ghiacciato, che mi diede un po' di sollievo.
Spostai lo sguardo verso il comodino dove riuscii a distinguere la sagoma del cellulare nonostante l'oscurità in cui era avvolta la stanza.
Contrariamente a quanto pensavo da bambina, il buio non mi faceva più paura.
Era quasi rassicurante nascondersi nei suoi anfratti.
Potevo essere me stessa perché le tenebre coloravano di nero ogni parte del mio corpo, celandomi a occhi indiscreti.
Potevo respirare finalmente.

La luce, invece, la odiavo.
Da quel giorno la detestavo.

Ero diventata un animale notturno: non mi sarei sorpresa se, specchiandomi, avessi intravisto due iridi dorate, degne di un felino.

Mi decisi a raccogliere il telefono e, dopo averlo sbloccato, constatai fossero le 03.51; dopodichè lo riposi dove lo avevo trovato.
Erano notti che non riuscivo a dormire otto ore di fila.
La mia quotidianità era stata completamente scombussolata e da quel giorno non avevo più riposato adeguatamente.
Mi diressi in cucina, cercando di non sbattere contro gli stipiti delle porte. Una scossa lancinante mi trapassò il cranio: strinsi le palpebre mentre cercai di arpionarmi alla parete. Si trattava di un capogiro improvviso che mi portò a bloccare un conato di vomito con la mano libera.
Il mio malessere mentale aveva raggiunto un nuovo livello: persino il corpo stava da schifo e io desiderai solo porre fine a tutte quelle sofferenze a qualsiasi costo.
Perché dovevo stare così male?
Perché l'Amore deve essere così doloroso?
Mi sentii una cretina a pormi quei quesiti alle quattro di notte, mentre me ne stavo rannicchiata sul pavimento del corridoio.
Cercai di alzarmi e mi diressi in cucina per bere un goccio d'acqua. Il caldo era tornato a tormentarmi la gola e io necessitavo di qualcosa di fresco che potesse dissetarmi e liberarmi dalle pene dell'inferno in cui ero finita.
Perché ero stata così stupida a fidarmi?
Ogni momento, dopo quel giorno, me lo chiedevo e richiedevo.
E pensare che mi ero sempre considerata astuta... che sciocca!

«Mai fidarsi troppo degli altri» mi vennero in mente le parole di mio nonno, «mai fidarsi di un uomo che ti promette di tutto».
Questa frase risaliva a sei mesi prima del fatidico giorno. Ricordo che quel commento mi sorprese non poco: mio nonno aveva sempre approvato le mie scelte amorose. Alle cene natalizie era sempre il primo a chiedermi se avessi un fidanzatino perciò, quando ero andata a casa sua, annunciandogli che mi sarei sposata alla veneranda età di trentatré anni, pensavo rimanesse contento della notizia. E invece mi stava rimproverando di essere troppo precipitosa e che avrei dovuto aspettare a legarmi definitivamente a un'altra persona.
Sulle prime avevo riso perché credevo fosse uno scherzo: era sempre stato un burlone; ma notando che l'espressione seria e quasi collerica non svaniva dal suo volto capii che era fermo sulla sua posizione.
Mi dispiaque molto e gli chiesi per quale motivo pensava non fosse il momento giusto e lui mi rispose solamente una frase.
Una frase che non compresi.
Non riuscii mai a chiarire con lui perché una settimana dopo morì e si portò via con sé anche la mia sicurezza.

Finalmente raggiunsi il lavello, azionai il rubinetto ma l'acqua non aveva alcuna intenzione di uscire. Forse anche lei stava dormendo o, molto più probabile, non avevo pagato la bolletta.
In effetti era una settimana esatta che non trovavo più la forza di uscire di casa: aspettavo che la vera me uscisse dall'armadio e si riprendesse la sua vita.
Io ne ero solo una squallida ombra. Mi aveva abbandonata senza darmi spiegazioni su cosa avrei dovuto fare, come avrei potuto reagire. Se ne era andata quel giorno senza lasciarmi neppure un messaggino.
Mi sentivo persa in queste mura che non sembravano riconoscermi come loro padrona: l'appartamento me lo aveva regalato lui.
Perché ci vivessi ancora era un mistero per la parte razionale del mio cervello, ma per l'altra no. Non volevo lasciare la sensazione che avevo provato quando mi aveva detto:«Questa è la nostra casa. Tua e mia. Qui cresceremo i nostri figli e invecchieremo su quell'orribile divano».
Io lo amavo veramente. Ogni parte di lui. Perciò non riuscivo a disfarmi di questo appartamento. L'anello, invece, era stato facile ridarglielo: lo avevo sfilato lentamente e come se fossi l'attrice di una terribile commedia drammatica glielo avevo lanciato addosso. Chi l'avrebbe mai detto che mi sarei ritrovata a "recitare" una scena del genere. Con l'appartamento non ci sarei riuscita, anche se avrei voluto tanto.

Aprii il frigo in cerca di qualsiasi cosa che fosse allo stato liquido e trovai due dita di vino rosso e un succo di frutta.
Forse avrei dovuto gettarmi sulla bottiglia di alcol senza pensare alle mie convinzioni di una vita: nei film chi riceve una delusione si consola così, no?
E, invece, scelsi il succo perché più cercavo di convincermi che fossi un'adulta e più capivo che ero rimasta una bambina.
Esattamente di ciò mi aveva accusato lui. Di essere una bimba capricciosa che non voleva più sposarsi.

Mancavano cinque mesi al matrimonio e scoprii che aveva riniziato a bere quando usciva con i suoi amici. Mi aveva promesso che non avrebbe più fatto uso di alcol e invece era ricaduto in quella situazione, dalla quale già una volta lo avevo aiutato a uscire.
Scoprii in seguito il motivo per cui vi era ricascato: era stato licenziato e aveva perso il posto di lavoro.
Ma non m'importava: ero certa ci amassimo e che insieme avremmo potuto sistemare ogni difficoltà che si sarebbe posta davanti a noi.

Iniziò a seguire un gruppo di sostegno perché sapeva di aver bisogno di aiuto e io, probabilmente, non bastavo a convincerlo a smettere di bere. Era questo che una vocina maligna mi sussurrava all'orecchio, ma cercai di non darle peso.

Passarono i mesi e lui sembrava essersi ripreso: mi disse che aveva fatto amicizia e che sarebbe uscito con alcuni membri del gruppo. Seppur titubante sul loro incontro e timorosa potesse ricadere nel circolo dell'alcol lo seguii.

Non avevo mai pedinato nessuno perciò mi sentii una pazza.
Sentivo gli sguardi dei passanti giudicarmi. Avevo perso la fiducia in lui e questo mi fratturò l'anima perciò decisi di tornarmene a casa.

Rientrò tardi quella sera e mi comunicò che uno dei suoi nuovi amici gli avrebbe offerto un lavoro.

Ne fui sorpresa ma felice perché finalmente avremmo potuto riprendere in mano il progetto di sposarci, che avevamo accantonato.

Nel frattempo i miei mi facevano pressioni sul rifletterci meglio prima di fare scelte che avrei rimpianto.

Io ero pronta a sposarmi, o meglio, lo ero qualche mese prima. Ricordavo che era l'unico pensiero che mi affollava la mente ma dopo tutto quello che era successo decisi, un giorno, di parlargli e di tirare un freno ai nostri progetti insieme.

Si infuriò tanto, non credo di averlo mai visto così arrabbiato e deluso. Mi accusava di essere innamorata dei soldi che un tempo aveva e che ora, dato che non era più "l'uomo perfetto", non poteva più darmi.

Che ci fossi rimasta male è un eufemismo. Mi sentii umiliata e sbagliata perché un po' aveva ragione. Ero sempre stata brava a dare ragione agli altri. Mi veniva facile incolparmi dei problemi altrui. Ero il capro espiatorio perfetto per ogni situazione. Ed ero io ad averlo sempre voluto essere.
Mi scusai con lui ma non ne voleva più sentire di me.

«Sei così infantile che mi fai pena! Io voglio una donna non una ragazzina che si lascia influenzare dagli altri. Non mi hai mai voluto bene: ora ne sono certo. Me ne vado. Puoi tenerti la casa tanto io andrò a vivere da un'altra. Io so cosa voglio e non voglio una indecisa come te. Addio.»

Rimasi esterrefatta: lui aveva un'altra? Da quanto tempo? Quale vita avevo vissuto fino ad allora? Perché non me ne ero mai accorta?

«A volte le domande sono complicate e le risposte sono semplici», diceva mio nonno, «se conosci la domanda giusta la risposta arriverà da sè».

Finii di bere il succo e qualcosa scattò dentro me. La domanda che aspettavo da tutta la vita mi era apparsa davanti.
"Cosa desideravo davvero?"
Decisi che non sarei più stata succube degli altri perché volevo essere libera. Non dovevo essere schiava delle "tradizioni" che mi avevano sempre inculcato.
Sarei stata me stessa finalmente.

Raccattai le mie cose e abbandonai la casa senza voltarmi indietro.
La vera me era tornata. Ora ero libera.

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