Il signor nessuno

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Mi capita spesso di pensare che non sia vero. Mi sveglio la mattina e sono convinto di essere la persona più normale del mondo. Con una moglie, dei figli, una casa normale, un aspetto comune.
Quando mi guardo in faccia non vedo una persona poi così particolare.
Mi considero comune, ma non è una brutta cosa. Mi piace essere comune, non uscire dall'ombra, impegnarmi in ciò che faccio ma lasciare che siano altri a stare sotto le luci della ribalta.

Non mi interessa ricevere sguardi adoranti, partecipare a feste folli, essere il primo a rispondere, il primo a essere considerato. Non sarei bravo a farlo e non sarei felice.

Mi piace fare ciò che faccio. È un bel lavoro, che mi permette di passare il mio tempo con delle belle persone. È questo quello che mi importa. E, per la maggior parte del tempo, mi considero un signor nessuno. Un padre, un marito, un amico, un artista forse, ma non qualcuno destinato a essere ricordato. Quelli sono altri, persone che ammiro ma il cui desiderio di amore da parte di sconosciuti senza volto è a me incomprensibile.

Solo l'idea di paragonarmi a uno qualunque di coloro che so che resteranno nella storia per me non ha senso. Perché non mi interessa. Quello che mi interessa è alzarmi dal letto, salutare i miei bambini, baciare mia moglie, uscire di casa e andare in studio, suonare quello che so e che voglio suonare, uscire con i miei compagni, i miei fratelli, prendere qualcosa da mangiare.

Mi piace, perché anche se il mio è considerato il lavoro di un virtuoso, per me è semplice, familiare, quotidiano.

L'unico momento in cui mi rendo conto di chi sono per gli altri è sul palco. Certo, non sono quello su cui si puntano gli occhi. Quello è Freddie, che quando tiene il palco sul palmo di una mano ha gli occhi che brillano di gioia vera, o Roger, o Brian, quando fanno i loro assoli.

Eppure, quando fisso la massa infinita di gente che ci sta davanti, impegnata a sentirci, a cantare, a battere i piedi con e per noi, mi coglie un senso di vertigine e mi si secca la gola. È una gioia diversa, la mia.

Una gioia che quasi, in fondo, nasconde la paura. È l'unico momento in cui capisco davvero di chi sono per il resto del mondo, in cui mi rendo conto che il mio viso non è comune per il semplice momento che è il mio viso, che le persone vedono sui giornali, sui dischi, in televisione.

Una gioia che mi mette le vertigini, perché rivela una realtà a cui non sono abituato.

Quando un concerto finisce e torno in camerino respiro a lungo, cercando di calmarmi. Torno in me e mi godo la calma che mi circonda.

Non sono infelice del mio successo, apprezzo il fatto di aver creato insieme agli altri qualcosa di bello.

Ma mi dico che quella sensazione lì, quella provata sul palco, non deve mai diffondersi nel resto della mia vita, perché potrebbe romperla.

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