WINTER 1 - Una vita normale

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"Ehi, Raven... tu pensi mai a come sarebbe una vita normale?".

Il ragazzo socchiuse appena gli occhi grigi e quel pigro movimento fu l'unico a testimoniare che non stava dormendo. Per il resto rimase immobile, disteso sul letto con le braccia intrecciate dietro la nuca. I suoi capelli d'inchiostro si confondevano con la luce notturna della stanza, ma il suo viso perfetto riluceva d'alabastro mentre increspava le labbra in una lieve smorfia ironica.

"Che cosa intendi con normale, Swan?", si limitò a rispondere.

La ragazza corrugò le sopracciglia, come se non avesse pensato bene al valore da attribuire a quell'aggettivo, e si tormentò le labbra con un dito.

"Intendo la vita com'è là fuori. Senza addestramenti, senza segreti, senza orari impossibili e regole da rispettare".

"Senza mistero e senza bellezza, quindi?".

Lei parve riflettere un istante su quella provocazione.

"Senza pensieri", ribatté. "Senza bugie".

Rivolse i suoi occhi chiari all'altro occupante della stanza, un giovane biondo che per tutto il tempo era rimasto in silenzio, a seguire quello scambio di battute.

Come se avesse intercettato quella muta comunicazione, Raven si sollevò di scatto e si mise a sedere, squadrando i compagni con un'espressione furba.

"Io non me ne farei un cruccio", sentenziò. "In fondo non è poi così male, la vita da Prescelti. Possiamo avere tutto quello che desideriamo e non dovremo mai preoccuparci dei soldi o di roba simile. Abbiamo il meglio di ogni cosa... chiunque vorrebbe una vita così!".

Rivolse un'occhiata all'altro ragazzo con aria di scherno.

"Non sei d'accordo, Eagle?".

"Sì, ma...".

La voce calda di Eagle sembrò scontrarsi con il tono freddo di Raven e la sua indecisione con la sicura eloquenza dell'altro.

"A volte mi chiedo se ha davvero senso, una vita vissuta solo in balia di una profezia. Che accadrebbe se un giorno uno di noi volesse mettersi uno zaino in spalla e partire a esplorare l'altro capo del mondo, senza dire niente a nessuno?".

Di fronte a quell'interrogativo, Raven non rispose. Intrecciò le dita, vi affondò il mento e rimase a studiare l'espressione di Eagle come se volesse leggergli l'anima. Quello sostenne il suo sguardo senza alcun timore di rivelare il suo vero pensiero, e per qualche minuto nessuno parlò.

La stanza, lasciata affogare nel silenzio e nella penombra, sembrava ancora più aliena di quanto non lo fosse già di norma. La carta da parati damascata, il letto a barca di legno intagliato e le lampade stile Tiffany che troneggiavano ai suoi lati donavano a quell'ambiente l'aspetto di una sala da museo arredata ad arte. Con l'unica differenza che non si trattava di un museo, ma della stanza di Swan. E quello era il suo arredo originale da più di cent'anni.

Forse la ragione per cui la ragazza insisteva tanto nel voler tenere le luci spente quando si ritrovavano tutti e tre insieme a parlottare di notte stava proprio lì: quando era buio i contorni perdevano la propria definizione, la luna gettava un quieto bagliore opalino sugli oggetti e lei poteva dare loro la forma che preferiva. In quell'universo selenico e immateriale, il mondo non sembrava così distante come appariva alla cruda luce del giorno.

Londra, che si muoveva instancabile al ritmo luminoso del Terzo Millennio al di là di quelle finestre, diventava di colpo più desiderabile, ma anche più raggiungibile.

Una vita normale...

Era un pensiero che l'assaliva spesso, soprattutto negli ultimi tempi. Fantasticava su cosa ne avrebbe fatto, se ne avesse avuto una, e non si rendeva conto che, in verità, non aveva nessuna idea di cosa farsene. Perché è difficile desiderare in maniera esatta ciò che non si conosce, e i risultati di questi sogni sono spesso deformi e imprevedibili. Swan, però, non lo sapeva e continuava a proiettare le sue fantasie oltre i vetri dell'antica dimora di Fulham Palace, oltre i viali pettinati del suo immenso giardino, oltre le siepi e le mura che la circondavano. Pensò una volta ancora a dove le sarebbe piaciuto essere in quel momento e sospirò.

Quel soffio lieve fu sufficiente a spezzare l'incanto. Eagle le rivolse uno sguardo sollecito, ma non ebbe il coraggio di chiederle cosa stesse pensando. Raven, invece, parve ignorarlo e prese a stiracchiarsi pigramente sul letto come se ne fosse stato il legittimo proprietario.  

Senza alcun preavviso, il suo sguardo corse a cercare Swan e le sue labbra si schiusero nel sorriso scaltro e seducente di chi ha appena avuto un'ottima idea.

"Vuoi andare a una festa, Swan?".

Lei lo squadrò con sospetto, ma non riuscì a nascondere la luce che le aveva acceso il viso al solo udire quella parola.

"Una festa?", ripeté, assaporando il piacere di un frutto proibito.

"Vuoi di nuovo uscire di nascosto?", sbottò Eagle, aggrottando la fronte.

Raven ridacchiò del suo tono che mescolava un velato rimprovero alla preoccupazione.

"Se non sei abbastanza furbo da andare a divertirti senza farti beccare, Eagle, puoi anche restare qui. La mia proposta era per Swan".

Il silenzio cadde nuovamente tra loro, ma quella volta era teso, vibrante, come una corda pronta a essere suonata o strappata. Due paia di occhi - grigio acciaio, oro brillante - si posarono all'unisono sulla ragazza, come se solo da lei dipendesse l'esito di quella serata, che sembrava già destinata a spegnersi nella noia come tante altre che avevano già condiviso.

Swan piegò appena la testa, raccolse i lunghi capelli platino dietro il collo e fissò un angolo lontano della stanza. Si prese il suo tempo per lasciarli friggere un po', quindi guardò Raven e sorrise.

"Dov'è questa festa?".

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