Ora può sorridere

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È buio. Il pavimento bianco distrae. Il corpo è ancora caldo ma lui non lo avverte. Non avverte più niente in realtà. Solo un indistinto rumore di pensieri e parole. Il sangue sgorga. Letteralmente. Lo percepisce, è ovunque. Ora lo sente tra le mani, ma è un attimo, poi gli sfugge. È caldo o è freddo? Non importa. Più niente ha veramente importanza. La pace sta per giungere. Gli rimane solo un rimpianto: non aver avuto figli. Il mondo, però, grazie a lui è un posto un poco migliore. Ora può sorridere. La fine non la teme. È morto credendo in qualcosa, ed è la cosa più bella del mondo.

***

Il sole ha appena cominciato a solcare le tende, ma in quel giorno non ci sarà il tempo di ammirare le bellezze della natura. Non ci sarà nemmeno il tempo di sentire il suo tepore, perché quel giorno sarà il più freddo della sua vita. Ti stai lavando la faccia dopo una notte insonne. Pensi alla tua Italia, dove il giorno che verrà è ancora un ricordo lontano. Vi sono ancora gli ultimi bagordi che ritornano a casa. Donne solitarie che hanno appena consumato il loro lavoro con uomini che cercano di curare le loro disperazioni.

Ripensi alla tua Puglia. Tra qualche mese avresti risentito l'odore dei tuoi ulivi, del tuo mare, della tua terra bruciata dal sole, ma per ora avresti dovuto accontentarti dell'odore di Kabul, sperando che non si mischiasse con un altro profumo. Eppure, ahinoi, avevi un brutto presentimento. La tua anima ti stava chiamando, ma non avevi paura, nel tuo cuore avevi scelto molti anni fa, quando lo avevi comunicato alla tua ex moglie, eri nato per questo, eri nato per loro. Il tuo scopo era aiutare i disperati. I condannati a essere nati nella parte sbagliata del mondo.

Fin da piccolo avvertivi un senso di disagio a tavola, non perché il cibo non ti piacesse, ma perché tu ne avevi troppo e altri neppure un po'. Sentivi un malessere quando giocavi con gli altri bambini mentre altri, invece, imbracciavano un fucile. Ed ora sei lì, in quell'albergo, con la tua aria da intellettuale, colpa degli occhiali, e quel gilet color cachi. Sei in piedi già da un po', quella tua brutta inquietudine ti perseguita da ieri sera, avevi provato ad allontanarla a cena con gli amici ma poi si era ripresentata una volta che era stata l'ora di coricarsi. Avvertivi un qualcosa di non ben definibile, una specie di nodo allo stomaco, io lo chiamerei "senso di marcio"; l'odore sgradevole stava per giungere.

***

26 Febbraio, il mese più corto di sempre. Ore 6.30 di mattina. Hotel Park Residence Guesthouse di Kabul, la capitale dell'Afghanistan, un paradiso terrestre se solo l'uomo fosse diverso. Le prime luci illuminano le ultime tracce di neve. Nell'aria si avverte il profumo del silenzio. Un aquilone solitario sembra perdersi nel cielo limpido, ma tutto questo dura un attimo.

Boom. Un boato. La terra sembra tremare, dei vetri si spezzano, l'aria pare fermarsi, i respiri sono trattenuti, la babele sta per arrivare, ma non c'è tempo. Un altro schianto, la stessa sequenza, la mente comincia a schiarirsi, le domande ad accavallarsi con ordine. Eppure quando comincia a delinearsi un piano, arriva un altro ordigno, perché ormai è chiaro, siamo nel bel mezzo di un attentato.

Siamo tutti nel caos, tranne Cesco, che con la sua aria da posto sbagliato non direste mai. Eppure è così. Nell'etere si avverte un odore nuovo, quello tanto temuto è arrivato. Si mischia alla polvere, e al terrore. Udiamo un pianto. Una madre disperata. Un bambino appoggiato al suo ventre. Non li vediamo, sono per strada, ma è come se fossero lì con noi, e dalla nostra mente non andranno più via. Avvertiamo delle urla intorno a noi. Eravamo appena scesi nella hall per la colazione, e invece, siamo lì, a tastarci per sentire come stiamo. Non abbiamo ferite gravi. Solo qualche escoriazione. Solo Cesco sembra sofferente, ma è un attimo. Dobbiamo salire ci dice Cesco. Dobbiamo allontanarci da lì.

Cesco non sarebbe il suo vero nome ma si offende se non lo chiamiamo così. Dice che non sa di vero, non sa di rapporto. Noi non siamo semplici colleghi, siamo soci dell'anima. Aiutiamo chi ha bisogno ma vorremo non c'è ne fosse.

Saliamo le scale, l'ascensore non funziona; la città è in preda all'ennesimo blackout. Lo vedo tirare fuori un cellulare, forse quello funziona. È lucido. Noi no. Siamo nel panico. Vorremmo urlare ma è come se le nostre corde vocali si fossero spezzate. Quando apro la bocca fatico a respirare. La mia gola è un ammasso di aridità. Arriviamo al primo piano. Dobbiamo andare verso l'uscita di emergenza. Ne siamo consci, ma siamo come bloccati. I nostri muscoli faticano a obbedire al nostro cervello. Anche perché pure lui è nel panico, vorrebbe essere a miglia di distanza: magari al mare con una piña colada in mano, o sui quei laghi afghani bellissimi che nessun turista vedrà mai, perché la zona di guerra è off-limits.

Cesco ci dice cosa fare, dobbiamo solo ascoltarlo. Vorremmo obbedirgli ma le nostre orecchie odono solo un rumore, un crepitio infinito dal sapore di morte. Nuovo gusto sempre in tendenza da queste parti.

***

Occhi rossi. Denti squamati. Barbe incolte ed ispide. Capelli arruffati sotto i turbanti. Vestiti polverosi; sorrisi folli. Parole incomprensibili; kalashnikov in mano. Pronti a turbinare morte. La missione è chiara: uccidere quanti più occidentali possibili. E soprattutto ammazzare quella spia italiana. Quel cane ci ha tradito. Faceva l'amico ma era il contrario. Il commando ha detto che si trova in questo hotel. Entriamo nella hall. Lo spettacolo è magnifico: il panico si mischia alla morte come nel dipinto di Picasso. Gente che urla, che piange, che si dispera. Ora non devono avere più paura. Allah è giusto. Noi siamo nel giusto.

***

Ta Ta Ta. Ta Ta Ta. Ta Ta Ta. Tre raffiche che sanno di tante cose. Sembrano lontani ma anche così, dannatamente, vicini. Francesco si asciuga la fronte. È sudato ma non è questo a preoccuparlo. Sa cosa è successo ed è conscio di cosa succederà. Eppure deve restare lucido. I destini di almeno quattro persone dipendono da lui. Il telefonino che ha in mano è rovente. C'è campo. Prova a digitare le cifre, ma i tasti scivolano sotto le sue dita umide, sbaglia un paio di volte il numero da comporre. Sa che molte cose dipendono da quello, e solo lui può farlo, solo lui conosce la lingua locale. Tuttavia, tutte queste responsabilità non lo calmano affatto, anzi. Deve respirare. Chiudi gli occhi Francesco. La chiamata parte. Drin. I compagni italiani lo guardano come fosse un dio. Drin. Ma lui in realtà è solo un uomo. Drin. Che ha paura come tutti. Drin. Finalmente rispondono.

***

Cesco parla al telefono in quella lingua incomprensibile ma dai suoni bellissimi. Noi lo guardiamo ammirati come se fosse un'opera d'arte. Anche senza capire sappiamo che ci sta salvando la vita.

***

Una scarica. Due scariche. Tre scariche. Cazzo se ci sentiamo forti, persino fighi. La vista del sangue ci acceca. Siamo come cavalli pazzi con la bava alla bocca. I cani occidentali temono la morte perché sono infedeli, e fanno bene. Allah è dalla nostra parte, vi troveremo. Tutti. Scappate, perché nessuno è al sicuro.

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L'uscita d'emergenza è in fondo al corridoio, dopo aver svoltato a sinistra. Le porte si aprono. Persone stralunate si affacciano. Le pareti gialle sembrano stringersi. Il tempo sembra fermarsi, lo spazio dilatarsi. Ci chiedono qualcosa, ma la risposta, ahi loro, già la conoscono. La porta verde è là in fondo. La scorgiamo ormai. Il maniglione antipanico. La scritta EXIT. La speranza. Udiamo dei passi. Sono feroci. Sono ancora sulle scale ma avvertiamo la loro presenza crescere minacciosa. Cesco ci parla. Vuole dirci qualcosa ma non capiamo. Credo abbia detto: "Andrà tutto bene". Ci guardiamo nelle iridi, sembra beato. E mi sorride.

***

Le scale, hanno preso le scale. Se è necessario, rastrelleremo tutto l'edificio, sfonderemo ogni porta. Urleremo Allah Akbar a ogni persona, e poi, spareremo. E ancora. E ancora. Il suolo impuro dell'Afghanistan reclama sangue di uomo occidentale. Oggi è il giorno dell'olocausto che Allah ci ha invocato. E avremo una ciliegina sulla torta.

***

Francesco è conscio di cosa deve fare. Dice qualcosa che nemmeno lui capisce, è più un sussurro, un'invocazione tenue di aiuto, e speranza. I suoi compagni devono andare. Lui deve restare. Aiutare la polizia locale. Indirizzare i soccorsi. Rallentare i talebani se necessario, sa perché sono lì. È lui il prescelto. Spera solo che la sua fine sarà breve.

***

Lo scalpiccio aumenta. Sembra di essere all'opera, tranne che qui la scenografia è fin troppo viva. Arriviamo davanti all'uscita. Tergiversiamo. Cesco mi urta. Dice che dobbiamo muoverci. I soccorsi stanno per arrivare. Non dobbiamo preoccuparci. Ci penso io, dice. Andrà tutto bene, ripete, come fosse un mantra. E tu?

***

I rami d'ulivo sbattono come fossero ali. Un attimo dopo il vento cessa, così com'era giunto. Tutto odora di casa. La terra, il sole, le nuvole, la vecchia che stende il bucato, l'orizzonte costellato di tanti puntini verdi che si estendono al di là della vista, per miglia e miglia. Pure l'antica dimora contadina che si staglia in mezzo a tutto questo sa di famiglia. I segni del tempo sono evidenti, ma nella sua mente tutto è invariato, niente è cambiato.

Sua nonna è ancora lì fuori. Sta sferruzzando a maglia. Suo padre è sul trattore. Alza una mano per salutarlo. Sua madre sta preparando l'ennesima conserva. Gli sorride. Sua sorella invece gioca con le bambole. Ciao dice. E lui? Sì c'è pure lui in quella casa. E sta studiando ovviamente.

Ha bisogno di quel cibo più di quello reale. Tutti i suoi familiari, i suoi compagni di scuola, e persino i suoi amici non lo capiscono. Perché hai quella strana passione, continuano a domandargli. Solo una persona lo comprende. Lo incita persino a non mollare. A mettersi le mani per coprire le orecchie. Non sentire fuori, ascolta solo quello che hai dentro.

È la sua insegnate di italiano. Anche lei ama le lingue orientali, e lo comprende. Alcune persone sono fatte per conoscere gli altri, altre per restare ferme. Il suo destino è quello. Glielo ha predetto pure una zingara, ma di quelle c'è poco da fidarsi dicono. Eppure basta guardarle quelle mani. I segni sono evidenti. Nessuno le ha come lui. Il suo destino era lì, come pure la sua fine era lì, annunciata. La zingara lo aveva avvertito: "Troverai la pace e la morte nello stesso luogo". Ora la risente quella voce suadente, rivede persino i suoi occhi castani. E gli sta sorridendo. Come lui.

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Kabul è nel caos. Eppure non è una novità. Intere generazioni non hanno visto altro che guerra. Prima i sovietici, poi i talebani e infine gli americani. In realtà, la città è talmente abituata a svegliarsi la mattina vedendo emergere del fumo nero che oggi le sembra una giornata di ordinaria routine. Ed è un peccato perché la valle di Kabul, su cui scorre l'omonimo fiume, è una delle cose più meravigliose che la natura può offrire. Come pure l'omonima città, che si estende su quest'altopiano fertile, circondata da alte montagne che di stagione in stagione fanno sembrare Kabul una cartolina sempre nuova, e sempre bella.

In quel giorno, nonostante il sole, la città era ancora parzialmente ricoperta dalla neve caduta pochi giorni prima. I bambini stavano giocando quella mattina. Palle di neve rimbalzavano nel caos mentre palle di ferro balzavano nei cuori degli uomini. I talebani, lo sapevano tutti in città, non avrebbero mai perso quella guerra, conoscevano troppo bene quei luoghi, quelle montagne dalle gole strette e infarcite di anfratti. Era avvenuta la stessa cosa in Vietnam, eppure gli americani non avevano imparato dai propri errori. Il problema era che, questa volta, avevano coinvolto la NATO e gente come Francesco, che voleva solo aiutare.

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Il maniglione antipanico si è inceppato. Non vuole sapere di aprirsi quella maledetta porta. Deve essere stato il blackout, eppure ci deve essere un sistema di sblocco manuale. Cesco mormora qualcosa al telefono. Ci dice di avere pazienza, ma come possiamo averla? Mentre sentiamo le porte sfondate. Urla concitate. Risposte ancor più concitate. Corpi spinti; altre urla. Spari. E poi pace. Ancora un attimo dice. Udiamo uno scatto. Provate ora. La porta si apre. L'aria ci scombussola. Il metallo delle scale è quasi accecante. Mi giro. Piero ed io ci guardiamo negli occhi. Vorrei dirgli qualcosa: "Andrà tutto bene", ma saprei che non sarebbe vero, e taccio. Lui mi osserva con quella sua aria da sognatore. Pat Pat. Una pacca sulle spalle. È lui a consolare me.

***

Gli americani mentono. Dicono che sono venuti qua per prevenire il terrorismo ma è tutta un'enorme menzogna costruita ad arte dai cosiddetti "media liberi". Noi sappiamo la verità. Noi siamo la verità. Loro vogliono l'Afghanistan solo per fini commerciali. Abbiamo risorse minerarie in abbondanza e siamo in una zona strategica per i viadotti e gli scambi. Non gliene frega un cazzo della pace, perché le guerre pacifiste non esistono.

Scorgiamo delle ombre in fondo al corridoio. Sono coloro che cerchiamo. Lo avvertiamo come gli squali percepiscono il sangue a chilometri di distanza. Il corridoio sembra piccolo rispetto alla nostra fame. Tuttavia non vogliamo far capire che tutto questo è solo per lui. Porte spalancate. Persone terrorizzate. Urliamo qualcosa che non comprendiamo nemmeno noi. Siamo eccitati; tutto questo ci rende vivi. Sentiamo il nostro cuore che batte veloce, sembra voler uscire dal petto. Il dito è saldo. Il grilletto non oppone resistenza. Siamo tutt'uno con la nostra arma. Le urla aumentano. Le nostre si coagulano alle loro. Parte la sinfonia. Silenzio.

***

Scendiamo le scale d'emergenza a grandi falcate. I nostri passi risuonano di note metalliche. L'aria della mattina è fresca. La città è un disastro, sembra che la fine del mondo sia iniziata proprio qui. Voci di sirene provengono da ogni dove, ma non attraggono le persone verso la morte, bensì cercano di fare il contrario. Urla disperate. Fumo. Sangue. Voci spezzate. Tutto questo ci avvolge e ci ipnotizza. Il nostro cuore è a mille. Sta pompando sangue in ogni dove. Siamo quasi alla fine. Ripenso a Cesco. Al suo destino. Una lacrima mi verga il viso.

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Francesco apre la porta della stanza 129. È esausto. Si siede sul letto. Si osserva le mani. Sono rosse. La ferita al fianco continua a sgocciolare. Ha fatto finta di niente con gli altri ma non è così. Il telefono è ancora nella sua mano destra. Avverte una voce provenire dall'apparecchio. Per un attimo non afferra il significato. Avverte solo una lunga vertigine. Vorrebbe solo chiudere gli occhi. Dormire un attimo. Svegliarsi e ritrovare accanto sua madre. Gli manca. Vorrebbe piangere ma non ha le forze. Vorrebbe pregare, forse. Ma quale Dio? Lo stesso che dice agli altri che sono nel giusto? Che è giusto ammazzare altre persone, solo perché diverse?

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Siamo giunti in fondo al corridoio. Svoltiamo a sinistra. In lontananza si staglia nitidamente l'uscita d'emergenza. Potrebbe essere scappato, eppure lo sentiamo, lui è ancora qui. Ha svolto la sua ultima missione: mettere in salvo i suoi colleghi ma non lui, perché anche lui ci avverte.

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Voleranno più gli aquiloni nei cieli di Kabul? Tornerà mai più la primavera sull'Afghanistan? I bambini potranno ancora sognare? E le donne essere donne? Francesco ormai sogna ad occhi aperti. È febbricitante. Sente la propria fronte scottare. Le tempie pulsano. Sta sudando, ma quel tipo di sudore malsano. Non vuole morire in quella stanza anonima dalle pareti gialle. Non vuole morire giacendo su un letto che non è suo. Vuole morire guardandoli in faccia. Lui non ha paura, perché anche lui crede in qualcosa.

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La porta d'emergenza è socchiusa. La scritta EXIT ci illumina i ghigni. Siamo ancora umani? Non sappiamo dove sia. ma se non è sceso con loro, non può essere troppo lontano; si deve essere nascosto in qualche stanza.

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Con enorme fatica si alza dal letto. Avverte un tremito. Le gambe per un momento sembrano cedere. Le pareti sembrano venirgli addosso. Respira. Si asciuga la fronte con la mano sporca di sangue. Fa un passo. La stabilità c'è.

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Chi sono i cattivi? E chi i buoni? Alla fine anche l'Italiano sta facendo il suo dovere come noi stiamo facendo il nostro. Entrambi crediamo in qualcosa. Nella stessa persona ma con due nomi diversi. Non potremmo essere, semplicemente, tutti cittadini del mondo? Vediamo una porta che si apre molto lentamente. È la stanza 129

***.

La porta di ebano si apre. Francesco viene abbagliato da qualcosa, deve socchiudere gli occhi. Che fatica arrivare fino a lì, pensa. Avverte delle presenze non troppo lontane. Le sente bisbigliare. Tutti sanno. Si fa un segno della croce. Chiede a Dio, solo una cosa, la forza per sopportare quel momento.

***

Imbracciamo le nostre armi. Bisbigliamo in arabo. Ci guardiamo negli occhi: vediamo morte.

***

Sono qui: Francesco li vede. Sono in tanti per uno solo come lui. Gli viene da ridere ma, in realtà, vorrebbe piangere.

***

Siamo vicini, possiamo avvertire il suo respiro. È già ferito: ha del sangue sulla fronte e sul petto. Sembra sorridere. Ci scambiamo uno sguardo d'intesa, ma io non voglio che lo torturino. Non è giusto. Merita una fine da uomo, ma gli altri non comprenderebbero.

***

Gli intimano di inginocchiarsi. Le sue orecchie non odono più nulla, ma lo capisce dai loro gesti. Spera solo di morire presto. Spera di non essere torturato.

***

È lì, a capo chino. Gli altri urlano qualcosa. Quelle urla non andranno più via. Le sento ancora la notte: ai miei lati, dietro di me, davanti a me. Non voglio farlo soffrire. So che merita rispetto per quello che ha fatto, ma noi non sappiamo cosa sia.

***

È lì, Francesco, inginocchiato. Il capo squadra gli prende il viso. Vuole vederlo in faccia. Vuole che le loro iridi s'incrocino. Francesco sorride. Lui risponde sputandogli nel viso. Urla qualcosa ai suoi. Poi Francesco sente qualcosa. Un qualcosa di piccolo che gli entra nel petto. Vede il sangue. Si accascia. Il cuore si è spezzato. Sente delle grida. Non saprà mai dire se siano di eccitazione o di rabbia. Chiunque tu sia ad aver sparato: grazie.

***

Ho il fucile in mano. La canna è ancora fumante. Tutti si voltano verso di me. Nei loro volti leggo inequivocabilmente la frase: "Che cazzo hai fatto?" Dico che mi è partito il colpo. Non so se mi credono, lo scoprirò più tardi. Il capo plotone ci intima di andarcene. La missione è comunque compiuta. Mentre stiamo per andare, mi giro un attimo. Addio Francesco, scusami ma le circostanze mi hanno portato ad essere così, so che comprenderai.


Il corpo rimane lì, la vita di Kabul continua, il mondo continua a girare e noi uomini continuiamo a farci le stesse domande. E le risposte rimarranno per sempre vaghe.

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