Capitolo 1: Akrasia

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Akrasia: mancanza di autocontrollo

Le strade di Londra ribollivano di ragazzi. Sabato sera, liceali e universitari si riversavano nei locali, con l'unica speranza di dimenticare, legalmente o meno, l'ansia causata dagli studi, dai genitori, dal semplice respirare.

Anthony J. Crowley non faceva affatto eccezione. Era un ragazzo di diciannove anni, con i capelli rossi lunghi fino alle spalle e abiti esclusivamente neri, composti da un paio di pantaloni attillati e una camicia nera. Sulla spalla destra aveva uno zainetto e sulle unghie dello smalto, sempre rigorosamente monocromatico.

E quella sera voleva solo bere e non pensare a nulla, perché in quel periodo aveva pensato fin troppo. Il fatto che il giorno dopo si sarebbe trovato ad avere un gran mal di testa e una serie di aneddoti imbarazzanti da raccontare era l'ultimo dei suoi problemi.

"Questa sera chi suona?" chiese, con il proprio drink stretto in una mano. Normalmente era un fan del vino, ma quello di certo non gli impediva di godersi una Piña Colada.

Il locale in cui si trovava era stretto ma ben tenuto, con un piccolo palco davanti alla pista dove si erano già radunati vari ragazzi, più o meno minorenni e più o meno sobri.

"Non ne ho idea- rispose la sua coinquilina, che cercava di compensare alla propria statura infima con la più retta delle posture - Hanno cambiato la programmazione all'ultimo momento, adesso ci sono dei tipi nuovi, i Queen, sembra."

Crowley alzò gli occhi ambra al cielo "Ci mancava anche questa. Che rottura."

Se la sua amica faceva fatica ad arrivare oltre le spalle della maggior parte delle persone attorno a lui, Crowley sentiva di stare fin troppo in alto. La sua testa rossa spuntava in mezzo alla maggior parte delle altre e i suoi occhi dovevano sempre guardare verso il basso.

"Oh eccoli." disse, vedendo un quartetto di ragazzi magrolini salire sul palco.

Crowley strizzò gli occhi per cercare di individuarli, ma non ne riconobbe nessuno, se non il biondino che stava dietro la batteria. Doveva essere un gruppo nuovo, non aveva mai sentito parlare dei Queen.

"Tu li conosci? - chiese Anthony, abbassando lo sguardo verso Beelzebub - Mai sentiti nominare."

"Neanche li vedo, figurati."

"Ha, che nana del cazzo." disse Crowley, guadagnandosi immediatamente un pugno sulla spalla. Il commento non era stato molto gradito.

"Crowley?"

"Sì?"

"Quello è il tuo secondo drink?"

Crowley fece vagare lo sguardo alla propria destra, mentre il frontman della band iniziava a cantare, agitandosi sul palco come un pazzo "Possibile."

Quando Crowley aveva voglia di bere, voleva dire che aveva voglia di bere moltissimo. Non pianificava di tornare a casa con un neurone intero, quella sera, non dopo aver avuto l'ultima amorevole conversazione con suo padre quella sera stessa. Non solo amava bere e il sapore dell'alcol, ma lo considerava una perfetta medicina contro i brutti pensieri.

"Non sarò io a portarti a casa in macchina, sappi solo questo - commentò Beelzebub, battendo a ritmo un piede a terra - Non sono male, questi tizi."

"No, infatti." Crowley alzava continuamente lo sguardo verso il cantante dai capelli corvini.

"Listen, are you gonna listen ?
Mama I'm gonna be your slave
All day long
Mama I'm gonna try behave
All day long"

No, non erano niente male, pensò il ragazzo, finendo anche il secondo drink. Era giunto però il momento di spendere altri soldi per i drink.

°°°

Un'ora dopo, i Queen erano scesi dal palco e un'altra band aveva preso il loro posto. In più, Beelzebub era sparita nel nulla. Un'attimo prima era lì e quello dopo... svanita. Come un'ombra, era sgusciata via.

Probabilmente il fatto che Crowley avesse in mano il sesto (o forse settimo, tenere il conto era diventato complicato) drink aveva aiutato a perderla di vista.

"Che rottura di palle - borbottò Crowley tra sé e sé, uscendo dal locale con una camminata più storta del solito e decidendo che se ne sarebbe felicemente tornato a casa perché non aveva voglia di cercare Beelzebub - Ultimo drink della serata."

Buttò il bicchiere e si allontanò dall'edificio da cui veniva ancora la musica quasi inascoltabile di chissà quale altra band.

I Queen, invece, erano vicino a un camioncino, tutti occupati a discutere animatamente. Crowley passò loro di fianco, lanciando un bacio volante al cantante "Siete dei fighi!" esclamò, dopodiché si allontanò lungo il marciapiede.

Si rese però presto conto del fatto che aveva sbagliato strada, quindi tornò indietro, passò di fianco ai musicisti per la seconda volta (con tanto di occhiolino casuale al cantante) e se ne andò.

Crowley aveva un piccolo problema con i locali dove ballare e conoscere persone nuove.

Quando era insieme a Beelz, che forse era considerabile la sua unica amica, poteva stare con lei e andava tutto bene, ma fare amicizia con persone nuove era abbastanza fuori discussione.

Crowley non era molto bravo a farsi piacere le persone, e poi in tanti lo guardavano piuttosto male. Nella zona di Kensington la gente si conosceva, si parlava, tutti sapevano quasi tutto di tutti.

In sintesi, a Crowley era bastato fare coming out con Beelzebub e un paio di suoi conoscenti che metà del quartiere lo aveva iniziato a guardare storto, persone che lui non conosceva assolutamente ma che sapevano. Sapevano e in gran parte non gradivano affatto.

Era il 1970 alla fin fine, i ragazzi guardavano gli omosessuali come a dei predatori sessuali e le ragazze li vedevano come delle possibili amiche. Al femminile ovviamente. Non erano molti quelli a cui Crowley poteva andare a genio e anche l'idea di andare a cercare altri ragazzi come lui lo impauriva un po'. Non voleva cercare nessuno, perché sentiva che con nessuno si sarebbe trovato davvero bene.

Ed eccolo, dunque, a camminare da solo per la strada, passando di fianco a pub e locali e a folle di altri ragazzi che passavano il loro tempo a divertirsi. Crowley avrebbe voluto potersene stare tranquillo insieme a un grosso gruppo di amici, eppure non c'era mai riuscito.

L'alcool, oltre a farlo camminare storto e a fargli fare occhiolini imbarazzanti, lo stava portando ad avere un brutto mal di testa. Quindi, nel momento in cui ebbe imboccato la via di casa decise di fermarsi un attimo. Si sedette sul marciapiede.

Perché se n'era andato? Non lo sapeva dire, se ci ripensava. Forse non piaceva a tutti, ma si era rovinato la serata. Avrebbe potuto provare a parlare con il cantante fuori dal locale. Era bravo, era carino. Però aveva preferito fare l'asociale e andare via. Odiava quando il suo umore si faceva così nero, eppure accadeva più spesso, in quell'ultimo periodo.

Colpa del padre, dei disegni che ogni giorno gli sembravano più pessimi, di quello stupido, strano senso di solitudine che lo prendeva sempre e sempre più spesso.

Si mise una mano tra i capelli, con la testa che sembrava fluttuare nell'aria, leggera. Gli veniva paura che la sua vita potesse essere così per sempre.

"Va tutto bene?" chiese una voce e Crowley alzò lo sguardo.

Davanti a lui, illuminato dal fascio giallo della luce di un lampione, stava un ragazzo che probabilmente aveva circa la sua età. Non era grasso, quanto leggermente paffuto, con dei corti ricci quasi bianchi, un naso all'insù e due occhi molto, molto azzurri.

Indossava solo dei pantaloni beige e una camicia bianca, che sembrava essere stata indossata in tutta fretta.

Crowley lo guardò, per quello che gli parve solo un secondo ma fu invece molto di più, senza sapere cosa dire. Non riusciva a smettere di fissare il suo sguardo preoccupato, le sue sopracciglia aggrottate, le sue...

"Ehi? - il ragazzo schioccò le dita sotto i suoi occhi - Stai male?"

"Ngk - disse Crowley - Err... sì? No, cioè... hai i capelli carini."

Il ragazzo sollevò le sopracciglia, poi sospirò "Vieni, mi sa che non sei nelle condizioni di andartene in giro da solo, finirai per cacciarti in una brutta situazione."

Crowley prese la mano che lui gli porse (gli sembrò morbida e calda, ma forse era solo l'alcool a fargli... sentire cose) e, senza pensarci, lo seguì nel condominio.

Normalmente sarebbe stato più diffidente, ma Crowley era ubriaco e quando era ubriaco la percentuale di decisioni avventate che prendeva aumentava di un solido ottanta percento.

Entrò in casa sua e adagiò maleducatamente su una poltrona. L'appartamento era piccolo, arredato all'inglese, con tanti colori caldi. E, soprattutto, con una montagna di libri ovunque.

"Guarda - il ragazzo dai capelli rossi si passò una mano dai capelli - Spero che tu non voglia rapirmi."

"Voglio solo farti bere un po' d'acqua - rispose lui - E chiederti se posso chiamare qualche tuo amico."

"No. Io odio tutti. Fanculo." Crowley prese il bicchiere, poi alzò lo sguardo.

Se non era carino quel ragazzo! Sembrava così morbido, con quel visino paffuto, quelle mani dall'aria delicata. Aveva proprio delle belle mani, quello sì.

"Benissimo - sospirò il ragazzo - Come ti chiami?"

"Anthony. Ma mi fa schifo. Voglio farmi chiamare per cognome, Crowley. Crr... Cro...wley. Suona figo. Crrrrrrowley." rispose lui, prendendo un breve sorso d'acqua. La poltrona era comoda, ci sarebbe rimasto volentieri.

"Come lo scrittore e occultista, Aleister Crowley?" chiese il biondo con improvviso e acceso interesse.

"E chi cazzo è? Io sono Crowley. Hai una poltrona comoda comoda..."

Crowley aveva abbastanza voglia di addormentarsi. Era morbida davvero, o l'alcol la rendeva morbida. Comunque Anthony ci stava bene sopra.

"Senti, posso accompagnarti a casa se mi dai l'indirizzo."

"Io vivo... vivo con Beelz."

"Beelz?"

"Sì. Beelzezezebubub. Ha un nome così stupido. Più del mio. Molto più del mio. Tu come ti chiami?"

"Aziraphale. Aziraphale Fell."

"Basta, gli Inglesi della scorsa generazione danno solo nomi assurdi. Non voglio vivere in un mondo così." Crowley alzò lo sguardo verso il soffitto.

Gli girava ancora la testa e gli si chiudevano le palpebre. Forse, forse, stava per addormentarsi. Rimase cosciente solo per il tempo necessario ad accorgersi che Aziraphale si era alzato, tornando per adagiare una coperta su di lui.

Dopodiché il sonno indotto dall'alcool ebbe la meglio e Crowley si mise a dormire.









Pubblicherò ogni due settimane, disse Tetra prima di mettersi a scrivere e completare a casissimo un capitolo.

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