Capitolo 11

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Era ormai mezz'ora che se ne stava fermo sulla soglia dell'aula. La lavagna pulita, la cattedra occupata e i posti della facoltà quasi pieni. Ad occhio e croce mancava sia lui che Sunford. Leonard strinse i libri al petto, incapace di decidersi ad entrare. Il giorno dell'esame era finalmente arrivato e avrebbe dovuto dare il meglio di sé, solo così avrebbe continuato negli studi. Ma dove si era cacciato Sunford?

Maledizione!

Leonard imprecò mentalmente, osservando il corridoio deserto ancora una volta. Non c'era nulla da fare, doveva solo entrare e dare quel fottutissimo esame. Eppure, all'inizio dell'estate, non gli sembrava un'impresa così impossibile, non pesava sulle sue spalle come un peso. Ma questo, ovviamente, era prima. Prima della partenza improvvisa di suo fratello, prima della tragedia del Lusitania, prima di tutto. Anche lui, come il fratello defunto, era affondato in un mare in tempesta. Se si guardava intorno non vedeva professori, studenti pronti a tutto per laurearsi e iniziare una brillante carriera, ma pezzi di metallo che galleggiavano in acqua, urla di genitori e figli che imploravano aiuto. E lui era solo, su una scialuppa vuota, lontano da tutti e incapace di aiutare qualcuno.

Ad uno ad uno, si lasciavano trasportare dalle onde verso le profondità marine e un eterno sonno. Leonard chiuse con forza le palpebre. Quei pensieri e quei demoni erano il risultato dell'alcol che beveva quasi tutte le sere. Ed ora faceva anche fatica a ricordarsi l'argomento dell'esame che, in teoria, doveva aver preparato. Era già un miracolo che ricordava che si trattava di medicina.

Una pacca sulla sua spalla lo riportò alla realtà, per quanto assurda poteva essere. Ed era convinto che non potesse peggiorare, almeno fino a quando il suo sguardo non cadde sull'amico dai capelli rossi, vestito di tutto punto con la divisa dei marines. La camicia bianca spiccava ancor di più della sua pelle, che assumeva una tonalità quasi diafana.

Leonard si sforzò di rimanere calmo. "Che mi significa questa pagliacciata?"

Rupert Sunford fece finta di togliersi dalla giacca un granello di polvere, puntando uno sguardo fiero in direzione dell'amico. "Quello che vedi, Putnam."

"Non è questo il momento di giocare, Sunford! Hai preparato l'esame?"

"Sì, ma io non lo darò." Diede un'occhiata nell'aula e annuì. "Vedo che i leoni sono già nell'arena."

"Che diavolo stai dicendo? Non mi dirai che ti sei arruolato sul serio!" Tuonò in un tono basso il giovane Putnam, più che altro per non far sentire la sua voce e manifestare così la sua presenza, era ben nascosto alla vista dei professori seduti in fondo all'aula.

Rupert stette in silenzio per due minuti d'orologio. "Non volevo dirtelo così. Ma sì, avevo deciso da qualche giorno. E dovresti arruolarti anche tu, Leonard."

Putnam lo guardò come se avesse perso il senno. Doveva essere per forza così per proporgli chiaro e tondo di arruolarsi con lui. Sapeva come la pensava sui marines e su tutta l'organizzazione militare americana. La maggior parte di colpa era la loro, se suo fratello Samuel non era tornato vivo dall'affondamento del Lusitania.

"Come puoi chiedermi una cosa del genere? Dopo tutto ciò che è successo? Ti facevo più intelligente, Sunford!" Gli disse, colpendolo nell'onore. Leonard aveva sempre saputo le idee rivoluzionari che scorrevano nell'amico, ma mai avrebbe pensato di vederlo in un'uniforme dei marines di servizio. La guerra, così come la competizione, portava gli uomini a trasformarsi completamente. L'aveva visto in Samuel, quando annunciò di volersi arruolare, l'aveva visto nei compagni di quest'ultimo che aveva conosciuto, e adesso lo vedeva in Rupert.

Determinato e fiero, espose le sue idee: "Libero di fare come meglio credi. Ma c'è una guerra, lì fuori, buon cielo, e noi siamo qui per combatterla!"

Leonard strinse gli occhi ancora più forte, formando delle righe centrali sulla fronte. "Noi? Noi chi? I burattini dell'esercito americano? Oppure gli uomini che si arruolano per un ideale? Ti rendi conto che l'America non è pronta ad entrare in guerra? Almeno non ancora. Altrimenti Wilson non ci metterebbe così tanto a dare il suo contributo e ad abbracciare le armi."

Rupert, dall'aria calma e tranquilla, unì le mani dietro la schiena assumendo già una posa da ufficiale. La divisa che indossava rendeva a disagio l'amico, lo sapeva, ma voleva essere certo che capisse le motivazioni che l'avevano spinto ad una scelta simile. "Noi siamo pronti, Leonard. E abbiamo bisogno di uomini come te, eroi del domani. Esattamente come lo era tuo fratello." Leonard non parlò, lasciando che le parole di Sunford sfocassero nell'aria. "Tu potresti essere il suo degno erede. Ci hai mai pensato? Potresti essere più utile nell'esercito che in un ospedale."

"Ho già fatto questo discorso a Lovett e non intendo ripetermi. Non darò a quei addestratori da circo qualcosa su cui manipolare. Io non sono Samuel e non intendo emularlo. Io non sono un soldato, benché meno un eroe." Onestamente non ci si vedeva proprio, nel bel mezzo di una battaglia, abbracciare un fucile per far fuoco su un nemico. Un nemico che poteva essere un figlio nella sua patria, un marito o un fidanzato. Quando Sam era morto il desiderio di vendicarlo era forte, ma quanti tedeschi dovevano cadere? Quante vite dovevano essere ancora spezzate? Esattamente come sua sorella, egli avrebbe dato il suo contribuito in ospedale. Avrebbe dato i vari esami e avrebbe conseguito la laurea. Eppure, c'era qualcosa, una forza astrale forse, a bloccarlo sulla soglia di quella dannata aula. Particolare che Sunford notò.

Rupert mise un ghigno sul suo volto soddisfatto. Era sempre stato il classico amico dalla faccia da schiaffi e, se il contesto sarebbe stato diverso, forse gliene avrebbe tirati due. Giusto per fargli capire l'antifona. "Allora non vedo cosa aspetti ad entrare e a dare l'esame. Sarà il primo di una lunga serie." Oltre che prendersi gioco di lui, sembrava che la vocina che si era insinuata nella mente di Leonard prendesse vita alle sue orecchie. Sunford gli mollò una pacca amichevole sulla spalla, superandolo per attraversare di nuovo il corridoio. "Stasera sono all'Hendel's Room. Raggiungimi e ci prendiamo qualcosa da bere. Chissà... magari avremo modo di festeggiare anche il tuo successo." C'era ironia nelle sue parole e lo sapeva, ma Leonard preferì lasciarsi scivolare addosso le parole dell'amico. Lo osservò attraversare il corridoio da dove era venuto e sparire nel nulla, girando l'angolo.

Rimasto di nuovo solo con i suoi pensieri, Leonard guardò l'aula ancora una volta. Uno studente si era appena alzato e aveva stretto la mano del professore con un largo sorriso stampato in faccia. Sospirò, facendo due passi indietro per non farsi vedere. I libri sembravano andare a fuoco tra le sue mani, la testa sembrava scoppiargli e faticava persino a ricordare il suo nome. L'aria tesa cercò di serrargli il collo in una ferrea morsa con l'obiettivo di soffocarlo. Senza volerlo prese ad imitare Sunford, uscendo sul cortile dell'università. Respirò a pieni polmoni l'aria, ancora afosa, di fine estate e trovò riparo dal sole sotto una quercia. Si accasciò proprio ai piedi della pianta, lasciando cadere i libri al suolo, alcuni fogli scarabocchiati e con essi qualche certezza.

Batté un pugno nel terreno secco. Perché diavolo non sono entrato lì dentro? Perché? Si ritrovò a chiedere all'altro sé stesso, quello che lo stava convincendo ad andare incontro a morte certa.

Poche certezze, tanti dubbi. Per ogni domanda che si poneva, se avesse cercato con attenzione avrebbe potuto trovare subito una risposta. Non era entrato nell'aula perché lui non era certo di voler dare quell'esame. Anche se ogni certezza aveva iniziato a vacillare, da quando Samuel era venuto a mancare. In un primo momento, accettare la proposta del tenente generale Lovett, gli era sembrato un oltraggio alla memoria di suo fratello, un tradimento. Lui non sarebbe mai stato abile come Sam, non avrebbe avuto la stessa scaltrezza e intelligenza. Non tutti nascevano per fare la guerra e non tutti sopravvivevano.

Una sera si era ritrovato a chiedersi se sarebbe stato d'accordo con il suo superiore. Avrebbe preferito di gran lunga una saggia risposta dal fratello maggiore che parole di circostanza dettate solo dagli interessi. Si passò una mano sul volto stanco, giungendo alla conclusione che non avrebbe mai dovuto stare a sentire i deliri del suo amico, ma entrare in quell'aula e dare l'esame. Leonard pensò di essere ancora in tempo e, alzandosi, vide l'ingresso dell'edificio. Ma non era di un professore che aveva bisogno, non era così che si sarebbe liberato dai dubbi. Attualmente, Leonard conosceva solo due vie per disintossicarsi dalle incertezze che lo tormentavano: l'alcol e le donne. Entrambi, però, non erano molto consigliati. Eppure, una su tutte, avrebbe potuto dargli sollievo.

Gli sarebbe bastata solo una parola. Non chiedeva altro. A testa alta, Leonard uscì dal cortile dell'università per recarsi all'auto parcheggiata in strada.

Guidò per almeno venti minuti, il tempo necessario per raggiungere il centro ospedaliero di Riverdale, che aveva visto la luce solo all'inizio del '900 e che, negli anni, era andato di pari passo agli eventuali sviluppi sulla medicina. I dottori che prestavano servizio lì erano qualificati con il massimo dei voti, capacità che non avevano nulla da togliere o invidiare a quelli che esercitavano a New York. I vari sviluppi sulla medicina avevano permesso l'accesso a orizzonti nuovi, malattie che sembravano incurabili che trovano una soluzione e una risposta, sicurezza per i pazienti. Ed era proprio in mezzo a tutto quel trambusto che Leonard sperò di trovare la sua voce amica. Come la receptionist gli suggerì, arrivato nell'atrio, il giovane salì le scale che conducevano al primo piano, nel reparto di suture e bendaggi per ferite superficiali. Si fermò sulla soglia di una stanza piena di letti. C'erano tre infermiere che cercavano di cibare i pazienti che non potevano farlo da soli, chi per stanchezza o chi per un braccio malridotto. Le pareti, di un bianco sporco e da angoli anneriti per via del tempo, erano in perfetta unione con il colore delle divise delle infermiere e le loro cuffie per capelli. Non c'era traccia di altre tonalità, se non per un ricciolo bruno che fuoriusciva dalla cuffietta bianca della capoinfermiera. Fu la prima cosa che notò quando se la ritrovò davanti, neanche l'avesse chiamata mentalmente.

Il volto di Jennifer Kelly parve illuminarsi, sorridendo al suo visitatore e assumendo un tono confidenziale. "Leonard, che sorpresa! In ansia per vostra sorella? La sua lezione dovrebbe essere ormai ultimata."

In verità, venendo lì, aveva sperato quasi di vederla. Da quando Amelia gli aveva annunciato quella sua decisione non l'aveva mai veramente vista in un camice da infermiera, anche se immaginava che non ci fosse poi così tanta differenza. "A dire il vero pensavo di parlare con voi, mrs. Kelly." Benché Leonard aveva assunto un tono cordiale, per un orecchio allenato si poteva chiaramente udire dell'incertezza nel timbro profondo della sua voce.

E Jennifer parve intuirlo. "E' successo qualcosa di grave?"

"Non ancora." Andò sul vago il giovane. Non riteneva i suoi pensieri negativi qualcosa di grave, ma aveva urgenza di parlare con qualcuno. E chi meglio di qualcuno che passava le sue giornate in mezzo ai feriti e ai moribondi? Era andato lì con l'intento di capire, comprendere la scelta di un uomo di arruolarsi nei marines. Non era riuscito ad andarci in fondo quando Samuel era tornato a casa con la sua bella divisa da ufficiale in servizio, ma sperava di rimediare quella mattina. "Posso parlarvi in privato?"

Jennifer annuì. "Sì, va bene. Tra dieci minuti finisco il mio turno. Aspettatemi giù nell'atrio e facciamo una passeggiata fino al Van Cortlandt Park, vi va?"

Leonard accettò senza pensarci due volte. Il bisogno di sfogarsi, legato all'esigenza di sapere, era più forte di ogni pensiero interessato. "Sì. Vi aspetto giù." E così dicendo si avviò lì dove era venuto, riscendendo di nuovo le scale. Non chiese di sua sorella, non voleva disturbarla e poi doveva prima parlare con Jennifer, l'unica donna disinteressata con la quale confidarsi, ignaro che quell'invito, probabilmente, stava facendo fare le capriole al cuore della capoinfermiera.

****

Spazientita, Amelia sospirò gettando l'ultima benda riavvolta nel vassoio poggiato sul tavolo della sala, al terzo piano. Lì era dove le aspiranti infermiere andavano ogni giorno per le lezioni, teoriche e pratiche. Ed erano proprio quest'ultime a mettere a dura prova la pazienza non ancora matura della giovane. Insomma, tra presentazioni con i vari pazienti, la conoscenza con le altre ragazze, la goffaggine nel maneggiare aghi e somministrare medicinali, non riusciva proprio a capire perché toccasse a lei imparare come riavvolgere le bende. Perché non lasciarle lì srotolate? Tanto avrebbe dovuto usarle, prima o poi.

Che seccatura! Si ritrovò a pensare, togliendosi la cuffietta bianca e lasciando respirare i capelli biondi che scesero lungo le spalle.

Durante la lezione aveva cercato di fare amicizia con le altre aspiranti infermiere, senza molto successo, giacché tutte sembravano conoscersi già da un po'. L'unica che l'aveva aiutata a medicare la ferita di un paziente arrivato lì nella giornata, era stata Carrie Evans. Originaria di Yonkers, una delle città confinanti a Riverdale, si era trasferita nei pressi del fiume Hudson dai nonni dopo la morte dei genitori. Motivo per cui, anche lei, aveva deciso di intraprendere la carriera di infermiera. Si erano trovate subito in sintonia, rispetto alle altre ragazze. Rispetto ad Amelia, Carrie risultava più paziente, più misurata, non era una ragazza che buttava la spugna al primo sbaglio. Senza contare che il tono della sua voce, quando parlava, era armonioso e tranquillo come il suono di un carillon. Anche il suo aspetto suggeriva una persona pacifica. Dei mossi capelli biondi, di una tonalità più chiara a quella di Amelia, erano intrappolati nella cuffietta bianca del camice, due occhi grandi e celesti ispiravano tranquillità e pazienza. Le ciglia, lunghe e fine, erano nere e davano più volume alle palpebre. La bocca, invece, era piccola e rosea che sembrava formasse un cuore. Nell'insieme, Carrie Evans era il ritratto di una pacifica ragazza americana. Cosa che non si poteva dire di Amelia, testarda e con la pretesa di imparare tutto e subito.

Fortunatamente, però, quella giornata era volta al termine ed erano solo le tre del pomeriggio quando si affacciò alla reception per salutare la capoinfermiera. Ma non la trovò.

"Mentre andavo a prendere altre bende l'ho vista che chiacchierava con un giovane, di bell'aspetto. Sono andati via insieme circa una mezz'ora fa." La informò Carrie, uscendo con Amelia sulla porta dell'ospedale.

"Che peccato! L'ho vista parecchio in movimento oggi e volevo invitarla a prendere qualcosa da bere."

"Ci sono stati alcuni incidenti nella segheria qui vicino. Essendo capoinfermiera è logico che sia sempre in movimento, specialmente da quando hanno trasferito alcune di loro nell'ospedale di New York. Come se qui, i pazienti, non fossero in punto di morte!" Si lamentò Carrie, credendo che le emergenze non fossero così gravi da levare infermiere abili al loro ospedale.

Le flebili grida della guerra, in lontananza, riuscivano ad arrivare sino a lì, trascinando con loro dei soldati feriti che venivano trasferiti o nell'ospedale di New York, quello più organizzato rispetto a quello di Riverdale, o nell'infermeria della base militare se si trattava di un soldato americano. Sui giornali si leggevano solo belle parole da parte del loro presidente, nessun consiglio riunito, nessuna decisione importante. Daniel Putnam, durante la cena di ieri sera, aveva asserito che l'America si sarebbe ritrovata ad ospitare i sopravvissuti della guerra, se Wilson non si sarebbe mosso a dare il suo contributo. I soldati gli avevano, l'arsenale anche. Eppure, da Washington, era tutto un silenzio costante.

"Finirà tutto, vedrai. Molto presto." Era speranzosa, la piccola Amelia. Lei che vedeva il mondo ancora con gli occhi di una bambina e che sapeva allietare il cuore di un adulto solo con l'uso del suo sorriso.

Attraversando il viale di ghiaia che separava la strada principale dall'ospedale, Carrie prese Amelia per un braccio e, gentilmente, la invitò con lo sguardo a fermarsi. "Penso che quello lì stia guardando te." Accanto al cancello nero, fermo e con il berretto in mano, Cameron Mendel l'attendeva all'uscita dall'ospedale.

Amelia sentì il cuore perdere un battito, quando i suoi occhi incrociarono il suo sguardo neutrale. Non immaginava di vederlo lì, così presto. Certo, in angolino della sua mente, ci aveva quasi sperato. Ma non pensava che le sue preghiere sarebbero state esaudite. Ora quell'uomo era lì e attendeva lei.

La giovinetta si avviò verso di lui, seguita da Carrie. La bionda collega di studi la salutò prima di raggiungere il soldato, varcando il cancello con uno sguardo complice.

"Non aspettavo di vederti così presto." Gli rivelò, rompendo il ghiaccio.

Gli occhi di Cameron parvero sorridere, all'unisono delle sue labbra curvate. "In verità sono qui perché avete dimenticato una cosa, quando siete venuta alla base."

"Cosa?"

Il maggiore alzò da terra una sacca di un verde scuro, parecchio usurata. Solo nel guardarla più attentamente, Amelia si accorse che era quella di suo fratello Samuel. Credeva che non ci fosse più nulla di suo, che i suoi effetti personali fossero andati perduti in mare. La visione di quella semplice borsa da militare gli formava un nodo in gola. Benché avesse ben chiara la realtà che Sam era morto, era ancora un tuffo al cuore ogni volta che si parlava di lui. La ferita risultava ancora fresca e bruciava, come se qualcuno si divertisse a metterci il sale.

"Credevo che non ci fosse più nulla." Quella affermazione era più diretta a sé stessa che al giovane maggiore.

Cameron se la mise in spalla con molta facilità. "Erano cose che venivano lasciate negli alloggi della base. Una camicia in più, l'uniforme da parata e da gala, un paio di scarpe, armi, delle foto che conservava nell'armadietto e anche la pergamena rilasciata dal colonello."

Amelia annuì. La pergamena della quale parlava era quella che veniva solitamente inviata a casa dei parenti dei soldati deceduti in guerra. Delle belle parole di cordoglio scritte su un pezzo di carta curato. Nulla che non fosse stato detto durante la cerimonia di commemorazione, ma l'iter militare ci teneva ad essere preciso in tutto e per tutto. L'avrebbe data a Raissa, non appena sarebbe rincasata. Era l'unica in grato di custodirla. Voleva evitare che quella pergamena fosse allestita come un piccolo santuario in onore del fratello, cosa che sarebbe successa se fosse andata nelle mani della Signora sua madre.

"Vi ringrazio. Lasciate pure a me." Disse, allungando le mani per prendere la sacca che il maggiore aveva già caricato sulle spalle possenti, come quelle di un gigante.

"Non penso sia una buona idea, madame. È estremamente pesante, benché ci siano solo cose di poco conto!"

Amelia mise sulle labbra un sorrisetto furbo, superandolo per uscire dal cortile dell'ospedale, giungendo in strada. "Allora dovrete accompagnarmi voi." Credeva di essere abbastanza capace di trascinare una sacca di quelle dimensioni ma aveva bisogno di passare con lui tutto il tempo necessario, ogni minuto e ogni secondo in più che poteva. Quell'occasione era un dono dal cielo! Altrimenti non avrebbe saputo come attirarlo nuovamente sotto la sua attenzione e presenza.

"Agli ordini!" Esclamò con tono divertito il militare, raggiungendo la ragazza con due semplici falcate.

"Passiamo per il Bell Tower Park. La bellezza gotica di quella torre è qualcosa di gradevole per gli occhi e il cuore! Ci siete mai stato, Cameron?" Saltellò un poco avanti a lui, girando la testa di poco, in modo tale da poter adocchiare le sue movenze con la coda dell'occhio sinistro. Benché avesse del peso addosso, il maggiore camminava con disinvoltura, assumendo un ritmo sciolto e muovendo la testa a destra e sinistra per guardarsi attorno, riportando l'attenzione sulla ragazza davanti a lui solo per risponderle.

"Una volta, quando sono giunto qui con il tenente generale per venire a far visita alla vostra famiglia." Rispose lui, avanzando in modo più rapido per stare al fianco della giovane. Di profilo, Cameron ammirò le gote rosee, probabilmente incipriate, un vestito che di elegante non aveva nulla, neanche il colore verde petrolio, che sapeva di muffa e chiuso.

L'abito non fa il monaco. Concluse mentalmente. Aveva visto molte mise su quel corpicino che di donna non aveva ancora nulla di maturo, tanto da indurlo a pensare che ci voleva ben altro che un abito vecchio per farla passare da aristocratica ragazza a volgare contadina, con tutto il rispetto che egli aveva per quella gente, essendo stato lui stesso uno di quelli.

"Ah, allora dovete proprio vederlo, ancora una volta!"

Cameron la vide saltellare ancora, superandolo di qualche passo. Aveva la delicatezza di una farfalla, ma un tono di voce decisamente troppo elevato. Tuttavia, la sua euforia lo faceva sorridere e riscaldare il cuore.

Non era proprio un parco, ma qualche pezzo ovale di verde, distribuito intorno alla torre in più parti, dove vi erano alberi spogli, siepi scure che non arrivavano al ginocchio, e panchine sul piccolo piazzale, rialzato da quattro gradini larghi, su cui sorgeva la bellezza gotica gradevole agli occhi e al cuore, per citare Amelia stessa. Cameron sogghignò al pensiero, posando il peso della sacca a terra.

"Ah, dovreste guardarla tra qualche settimana, Cameron!" Sospirò sognante la giovane Putnam, sedendosi in modo poco elegante su una panchina e rivolgendo lo sguardo ai rami nudi che sembravano toccare la punta della torre. "Il colore delle foglie si sposerà con la bellezza della torre. Vedete quanto è bella anche adesso, maggiore?"

"Lo vedo, Amelia." Le rispose sorridente lui, spostando rapidamente lo sguardo dal campanile al volto illuminato e sorridente di lei. Invidiava la sua età, la sua voglia di vivere e vedere il bello in ogni piccola cosa, anche in dei mattoni tirati su da chissà chi. Anche sua sorella doveva essere stata così, per qualche periodo, il più brutto della sua vita.

Sentendosi osservata, Amelia abbassò lo sguardo sul maggiore. Doveva sembrargli parecchio infantile, del resto lei si sentiva ancora così. Perennemente bambina, perennemente innamorata del mondo, bello o brutto che fosse, del cielo e della libertà di poter andare dove voleva. Senza sapere perché, però, lo sguardo dell'uomo le provocava un poco di vergogna. Forse per la sua insistenza, per il suo sembrare così maturo e indagatore. Un vento leggero iniziò a soffiare sopra le loro teste, così vicine da potersi studiare a vicenda senza che l'altro se ne accorgesse. Ed era ciò che stava facendo lui a lei e viceversa.

In modo nervoso, Amelia iniziò a far ballare le gambe unite ritmicamente. "Sapete volare, Cameron?" Chiese in modo istintivo, guardando il mattonato sotto i suoi piedi. Se avesse alzato lo sguardo in direzione del soldato sarebbe diventata rossa di vergogna.

Il maggiore alzò un sopracciglio, non riuscendo a trattenere un sorriso. Che diavolo stava saltando nella mente di quella testolina bionda? "Le basi, certo. Perché me lo chiedete?" Aveva quasi paura di ricevere una risposta ma decise di fidarsi.

Amelia iniziò a fare le capriole dentro di sé. Non aveva ancora toccato il suo biplano, da quando aveva ricevuto la visita di mrs. Ferrars. In questo modo avrebbe unito l'utile al dilettevole. Scoprire qualcosa era di rilevare importanza ma doveva farlo con discrezione. Un giro a bordo del suo velivolo sarebbe stato più che sufficiente.

"Perché..." Iniziò a parlare ma poi si fermò. Scosse la testa, saltando giù dalla panchina e piantando gli occhi chiari in quelli profondi e sicuri di lui. "Niente. Ve lo dirò domani, se verrete a farmi visita."

"Ho una esercitazione nella mattina, sarò libero sono nel tardo pomeriggio." Cameron continuava ad osservarla con qualche dubbio e sospetto. A quale scopo andare a trovarla il pomeriggio seguente? Era tentato di chiederglielo, di saperlo, ma poi ci ripensò. Qualche chilometro in più non gli costava nulla e, in questo modo, avrebbe cercato di raggirare Leonard. Forse poteva prendere due piccioni con una fava anche lui.

"Andrà bene per le cinque." Ancheggiò a modo di vittoria, non nascondendo la soddisfazione nella sua risposta. Sarebbe stata curiosa di vedere la faccia che avrebbe fatto nello scoprire che possedeva un biplano tutto suo.

Cameron si alzò a sua volta, riprendendo in spalla la sacca. "Andiamo adesso, non vorrei che vostro fratello si preoccupasse troppo. Senza contare che non è di buon costume, per voi, rientrare sola con un ufficiale militare."

Amelia strabuzzò gli occhi, alzando un sopracciglio finissimo. "E perché mai?"

Il maggiore si grattò il mento con la mano libera, facendo un grande respiro. Quella ragazza era davvero un soggetto fuori dal comune. "Niente. Andiamo." Si limitò a dirle, precedendola stavolta. Mentalmente scosse la testa, dando sfogo al suo cuore di ridere. La presenza di Amelia Putnam lo rendeva di buon umore e, a giudicare dagli eventi, non era una cosa positiva.




Wolf's note:

Con qualche giorno di ritardo, ma finalmente sono riuscita ad aggiornare! Penso che la parola "finalmente" sarà la chiave di ogni note d'autore a fine capitolo! Non fucilatemi, followers e lettori della storia! Posso dire con sollievo di essere riuscita a liberarmi da ogni impegno che mi impediva di proseguire con la storia. Ergo... buone notizie! Gli aggiornamenti saranno spostati ad ogni Giovedì, anziché Domenica o Martedì.

Non avete ancora compreso bene? Blocco notes alla mano, Signori! Il dodicesimo capitolo di "Quante gocce nel mio mare" sarà online  Giovedì 20 Settembre. E sarà così per ogni settimana, salvo avvisi che riceverete per e-mail da Wattpad o sulla mia pagina Facebook dedicata alle mie storie. Non la seguite ancora? Ebbene, cosa aspettate? Potete trovare il link cliccabile dalla mia pagina d'autrice qui su Wattpad. "Le memorie di Wolfqueens Roarlion" vi aspettano per condividere quotes sulle storie, foto, video, booktrailer, link, e molto altro... che aspettate? Mettete un bel "mi piace" o un "segui" per essere sempre aggiornati sulle ultime novità! 

In conclusione, come sempre, ringrazio ognuno di voi che legge la mia storia. Tutti per i complimenti, i messaggi, le critiche (che aiutano sempre a migliorare, quindi tranquilli, accetterò tutto con il cuore e molto volentieri), i consigli e molto altro! Grazie davvero. Col cuore!!! <3 

Non mi resta che darvi appuntamento a... quando? Giovedì prossimo con il dodicesimo capitolo. Segnatelo, mi raccomando! Io vi guardo!

Alla prossima!

Wolfqueens Roarlion.

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