Capitolo 33

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Aveva promesso a suo fratello che non si sarebbe mossa da lì, fino allo scadere del tempo stabilito, e così fu. Con il cuore chiuso in una morsa, Amelia aveva provato a mangiare, mandare giù un po' d'acqua per placarne una secchezza improvvisa. Ma niente. Per quanto ci provasse, era troppo agitata, troppo con il cuore in tumulto, sebbene mai impaurita. La paura non l'aveva attraversata neanche una volta, né durante il volo e né al loro arrivo.

Si era più volte accucciata nella vegetazione, poco distante dal biplano, per evitare che qualche soldato di ronda o in avanscoperta, potesse vederla e quindi far saltare tutta la copertura. Meditò, nei lunghi minuti seguiti alla separazione da Samuel, ciò che avrebbe detto a Cameron per farlo riflettere e calmare. Perché era cosciente del fatto che, dal momento in cui si sarebbero rivisti, lui si sarebbe scagliato su di lei come una furia con le parole. "Irresponsabile!" Avrebbe detto. "Cosa ti è saltato in mente di fare?!" E così via. Ma Amelia avrebbe resistito, l'avrebbe sfidato a tono e avrebbe manifestato le motivazioni che l'avevano spinta a farlo. Principalmente, aveva sorvolato i cieli della sua America, per lui. Ma dubitava fortemente che il tenente colonello lo avrebbe compreso.

Passarono due ore e, dal punto in cui Samuel era sparito, non vi era altro che il silenzio. Sempre con il sedere a terra nella vegetazione, ben nascosta, Amelia mangiò un pezzo di carne essiccata. Iniziava a temere che qualcosa fosse andato già storto.

Passò un'altra ora. Il fischio di un treno la mise in allarme ma, quando Amelia rialzò la testa verso Spincourt, vide che vi era nient'altro che del fumo bianco. Ci fu un rumore assordante che arrivò fino a lei. Un rumore di qualcosa di pesante. Armi. Pensò subito la giovane e da ciò che udì nell'aria, degli spari e dei canti in lingua tedesca, dovette darsi ragione.

Quando passò un'altra ora ancora, Amelia iniziò ad abbracciarsi, fregandosi le mani sulle proprie braccia per scaldarsi. Iniziava a fare un freddo tremendo! Un vento leggero aveva iniziato a soffiare sui pochi alberi presenti e sui cespugli. Battendo i denti, si rannicchiò su sé stessa come un gatto davanti al fuoco, e nascose la testa e il naso -ormai simile ad un cubetto di ghiaccio- nel tessuto della camicia bianca, chiudendo gli occhi. Avrebbe dovuto essere già primavera e invece, come ad unirsi al clima cimiteriale della guerra, Febbraio donava ancora le sue raffiche di vento e i geli invernali.

Resisti, Lelia! Resisti! Sei sopravvissuta ad un dolore maggiore, resisti! Si ripeté mentalmente, usando quel mantra come se fosse un salvagente e lei sul punto di annegare.

"Ptss! Amelia?"

La bionda spalancò le palpebre, sentendosi chiamare. Ma non uscì subito dal suo nascondiglio. Voleva accertarsi che non fosse frutto della sua mente infreddolita a giocarle un brutto scherzo.

"Amelia? Vieni fuori!"

No, non era la sua immaginazione. Una voce la stava davvero chiamando! Ma non era quella di suo marito, né quella di suo fratello. Questa era bassa, simile al sibilo di un serpente, e poi era femminile. Avrebbe dovuto svelarsi? E se poi era una trappola?

"Mi manda Cameron! Lelia, dove sei?"

Tutti i suoi dubbi svanirono nell'istante in cui sentì chiamarla con il suo diminutivo, usato solo dai suoi famigliari e da suo marito. Si tirò su in pochi minuti, benché fosse colpita ancora dalle arie gelide come una secchiata d'acqua fredda. Si ripulì la testa bionda da dei rametti che le erano caduti. Nascondersi nei cespugli non era stata proprio una scelta comoda, ma era l'unica che le potesse permettere di nascondersi alla vista.

"Vi manda mio marito?" Chiese per conferma, manifestando chiaramente la sua presenza.

Avrebbe dovuto dar retta alla sua testolina, una buona volta, perché si ritrovò faccia a faccia con la canna di una pistola. Di buona fattura, dall'argento splendente. Il cuore di Amelia balzò in gola quando riconobbe chi c'era dietro l'arma. Riconobbe il sorrisetto divertito, lo sguardo freddo e assassino che la minacciava.

Elmira Becker le era davanti, in tutta la sua soddisfazione nell'averla fatta uscire allo scoperto. Vestita come un soldato tedesco avrebbe fatto fatica a riconoscerla, se non fosse per il particolare dei capelli, legati in alto. "Non proprio." Commentò lei con gli occhi che le brillavano per una vendetta che avrebbe consumato lentamente.

Con la coda dell'occhio, Amelia, gettò uno sguardo alla sua borsa. La pistola di servizio del marito era lì, a pochi passi da lei. Avrebbe potuto accovacciarsi, aprire la borsa e impugnare la pistola, dopodiché far fuoco sulla donna. Ma tutto questo avrebbe richiesto troppo tempo, almeno un minuto e mezzo, ed Elmira era troppo vicino, la teneva sotto tiro. Anche solo tentare sarebbe stato un suicidio!

Ancor prima che potesse pensare di far scivolare la borsa con l'aiuto di una gamba, Elmira le fu vicino con tre grandi falcate. Quando vide la borsa la allontanò con un calcio, facendo rovesciare il contenuto. Carne, acqua, una mappa e la pistola di servizio. "Sei proprio coraggiosa a buttarti nei fiumi della guerra. Vediamo se sai nuotare a dovere, adesso!" Le disse, con il tono pieno di veleno covato per settimane. La prese per un braccio, puntandole sempre la pistola alla schiena. "Avanti, cammina! Amerikanisches Luder!" Tuonò infine, marcando il forte accento tedesco, e spingendola verso Sud. In direzione di Senon.

****

Era giunto solo nel primo pomeriggio all'accampamento tedesco, che ricopriva gran parte della cittadina di Spincourt, occupata nell'Agosto precedente. Cameron si stupì di camminare tra le rovine di quello che doveva essere stato un gran bel villaggio. Non c'erano molti edifici rimasti in piedi. Qualche chiesa che era stata saccheggiata e distrutta, qualche casa che aveva le finestre rotte, qualche voragine sulla strada causata delle bombe. Il fumo e le grida disperate dei francesi sterminati sembravano ancora riecheggiare nell'aria. Dovette reprimere un senso di disgusto quando, nell'attraversare una strada, trovò una fossa scavata con dentro dei corpi ammassati, uno sopra l'altro. Erano tutti i francesi che non erano riusciti a scappare. Tutti cittadini. Esposti come trofei dai soldati tedeschi, come se fossero prede appena cacciate. Sarebbero rimasti poco lì, giacché la loro puzza iniziava ad impestare l'aria e l'ultima cosa che l'esercito tedesco chiedeva era un'epidemia che potesse decimarli. Mentalmente, Cameron recitò una preghiera nella propria lingua, sperando che non risultasse come un'offesa a tutta quella gente morta, e proseguì verso una abitazione in particolare. Una villa rasa al suolo, usata come quartier generale della sua organizzazione che andava a braccetto con il feldmaresciallo Von Falkenhayn e le sue idee.

Entrando nel cortile, Cameron notò subito due soldati posti ai lati. Fece un saluto militare davanti a loro ed ebbe accesso all'ingresso della villa. Sembrava più un bunker che una abitazione normale. Pareti rivestite in pietra, pavimento di legno, finestre sprangate dove la luce del giorno non poteva neanche entrare. Ad illuminare la poca mobilia e il resto vi erano le candele poste sulle pareti, sul soffitto e sui tavolini. Mappe militari, boccali di birra vuoti, piatti sporchi e giacche sparse un po' ovunque, suggerirono al tedesco che ci fosse stata una qualche riunione. Una riunione alla quale lui era giunto troppo tardi.

Dei passi in fondo ad una scala a chiocciola, lo misero in allarme. Quando vide la figura di Dankmar essere illuminata dalla luce delle candele, gli prese quasi un colpo. Sapeva che prima o poi l'avrebbe rivisto ma, onestamente, non immaginava che gli avrebbe fatto un brutto effetto. Il passato, come aveva immaginato, rischiò di riemergere, facendogli andare il sangue alla testa.

"Cameron. Il capo di aspettava ieri." Li fece notare l'ex amico, avvicinandosi e notando come la ruga sulla sua fronte iniziava a diventare profonda e visibile. Segno evidente di nervosismo. "Non mi pare il caso di prenderci a pugni. Almeno non ora che siamo in guerra, non ti pare?"

Cameron strinse i denti. "Dov'è Wagner? Ora sono qui." Sussurrò, quasi in un ringhio, mandando giù il rospo e la voglia di spaccargli il naso.

Dankmar ghignò, infilandosi le mani nella tasca dei pantaloni della divisa. "Arriverà presto. È con il suo nuovo trofeo di guerra. Una donna davvero interessante, sotto ogni punto di vista." Come aveva immaginato, il compagno d'armi ignorò anche quel suo sarcasmo. "Perché tutta questa urgenza?" Chiese, accendendosi una sigaretta.

"Non sono affari che ti riguardano." Sputò in risposta Cam, non avendo alcuna voglia di parlare con lui, se non di qualcuno in particolare. "Come sta mia sorella?" Era certo che, ora che era giunto lì, avrebbe potuto vederla. Non era più una grande minaccia per la loro organizzazione e i piani di guerra.

Dankmar sfoggiò un sorriso malefico, tirando una boccata di fumo e passandogli vicino per uscire dalla villa. "Non sono affari che ti riguardano." E, gongolante, uscì.

Cameron lo osservò allontanarsi, ringhiandogli dietro come se fosse un leone incatenato e l'ex amico una gazzella che sfuggiva alla sua caccia. Prima o poi, anche lui avrebbe avuto ciò che si meritava. Non poteva rischiare di far saltare la copertura, altrimenti poteva anche dire addio al suo piano.

Ma dov'è Samuel?

"Oh, tenente colonello! Quale onore!" Tuonò la voce autoritaria di Wagner, in cima alle scale. Il sarcasmo era una delle prime cose che udì.

Cameron fece il saluto militare, sbattendo gli stivali sul legno del pavimento. "Kommandant!"

Brandolf Wagner non era cambiato di una virgola, dal loro ultimo incontro a Berlino. Non aveva più rughe di quanto non ricordava, né capelli bianchi, ma ancora perfettamente biondi come quelli di un angelo. Un angelo dannato. I guanti di pelle nera coprivano le mani ben curate, la divisa doveva essere nuova di zecca, e gli stivali erano stirati a lucido, neri come il carbone. I suoi occhi, però, apparivano ancora più vitrei di come li ricordava.

"Riposo, soldato." Li concesse, facendogli segno di abbassare il braccio. "Ora, ditemi, vi pare questo il modo di giungere qui? Se non sbaglio, vi attendevo ieri." Disse in modo serio, versandosi della birra in un boccale.

Cameron rimase fermo in una posizione neutrale, misurando le parole. "Volevo, Signore, ma ho dovuto evitare di correre il rischio di essere scoperto. Domani mattina mi aspettano a Fort Dumont, da lì vi farò sapere come potete muovervi."

Brandolf annuì, pensieroso e nervoso come sempre. "E come farete, eh? Vi fidate di qualcuno?"

Cameron, stavolta, si prese la briga di sorridere. L'amo era stato lanciato. "Sì, Signore. Quando ero in America ho avuto modo di contattare un mio vecchio amico, a Berlino, e lui sarebbe onorato di lavorare per noi dell'organizzazione e per la patria."

Come un cacciatore che aveva adocchiato una preda, Wagner attizzò le orecchie. "Un vecchio amico?"

"Sì, Signore. In verità dovrebbe essere già qui. Il suo nome è Götz Hoffmann." Rispose Cameron, con una calma quasi surreale. Stava cercando di ingannare uno degli uomini più pericolosi dell'intero esercito tedesco, colui che era riuscito a mettere in piedi un'organizzazione di spie e mercenari. Chiunque, sotto il suo addestramento, riusciva a diventare uno spietato assassino.

Come se l'avesse chiamato con il solo uso del pensiero, alle sue spalle, si materializzò una figura che parlò con un tedesco abbastanza stretto.

"Ich bin hier, um Commander Wagner zu sehen."

Quando Cameron si voltò vide Samuel avanzare verso di loro. "Eccolo, Signore." Lo annunciò, guardando nuovamente verso Wagner.

Brandolf stette in silenzio, osservando come il vecchio amico di Vom Mendelson avanzava nella stanza, faceva un impeccabile saluto militare e lo guardava dritto negli occhi. Annuì, tra sé. "Quindi tu saresti Götz Hoffmann?"

"Sì, Signore."

"Da dove vieni?"

"Berlino centro, nato e cresciuto lì."

Wagner annuì ancora, perdendosi nei suoi pensieri per un breve istante. "Vedo che Cameron ti ha già dato una uniforme, benché io non abbia ancora acconsentito." Unì le mani dietro la schiena, osservando Vom Mendelson. "Cosa ti fa credere che sia utile alla nostra causa?"

"Perché mi ricorda me agli inizi, Signore, e poi l'ho addestrato personalmente. Con la guerra in corso non mi sembrava opportuno avvertirvi tramite lettera e non potevamo perdere tempo. Lui sarà il mio portavoce quando sarò nell'esercito francese." Dichiarò Cameron, senza alcun timore. Per molto tempo era stato sotto gli ordini di quel pazzo assassino, ora toccava lui dettare qualche legge. E finché era una legge che veniva a favore di Wagner, quest'ultimo non avrebbe osato dire nulla. Al contrario, sorrise, scoppiando poi in una fragorosa risata. Cameron si concesse un ghigno travestito da sorriso divertito. Tutto secondo i piani, fino ad adesso.

"Ho sempre saputo che eravate un genio del diavolo, Vom Mendelson! E sia!" Esclamò, avvicinandosi poi al falso Hoffman per dargli una pacca sulla spalla. "Soldato, benvenuto sulla nostra barca."

A quelle parole, Samuel temette di irrigidirsi, ricordando il momento sul Lusitania quando, a Cameron, fu ordinato di ucciderlo. "Grazie, comandante." Si limitò a rispondere, cercando nello sguardo di Mendel qualche cenno di approvazione, che stava facendo bene il suo lavoro. Non tardò ad arrivare, ben nascosto agli occhi del capo delle spie tedesche.

"Bene, Signori, ora devo lasciarvi. Ho un piccolo impegno al piano di sopra e..." Un urlo arrivò fino a loro, proveniente dal piano superiore. Un urlo di donna, strozzato. Wagner ghignò malefico. "Come non detto. A dopo, soldati." E mentre i due facevano un impeccabile saluto militare al superiore, questi tornò al piano superiore della villa.

Samuel rimase per qualche istante ad osservare la sua figura sparire. Quell'urlo... gli sembrava tremendamente familiare, ma ancora una volta diede la colpa alla tensione e al pensiero che sua sorella era lì fuori, da sola.

"Sei stato bravo. Continua così." Si congratulò Cameron. "Domani mattina mi recherò a Fort Dumont, dal tenente generale Lovett e da tuo fratello. Quando ritornerò qui per riportare a Wagner le informazioni e la pianta del forte, agiremo secondo il nostro piano."

"Potrebbe esserci un problema." Commentò Samuel, tornando alla realtà.

"Quale?"

Samuel tirò di lato Cameron, arrivando in quello che era uno studio con qualche scaffale colmo di libri, una scrivania e un pianoforte. Anche lì tutto illuminato dalle candele. "Amelia è qui."

Cameron sgranò gli occhi, dilatando le pupille. Sperava di aver sentito male ma, vedendo l'espressione del cognato, dovette ricredersi. "Cosa? Dove?"

"Fuori Spincourt, dove mi hai detto di atterrare." Vedendo come l'uomo si prendeva la testa tra le mani, sibilando un'imprecazione nella sua lingua, si affrettò ad aggiungere qualcosa a difesa della sorella. "Lo so, lo so. Ma è voluta venire lo stesso. La conosci com'è testarda, Cam! Niente e nessuno le avrebbe fatto cambiare idea."

"Come è venuta a conoscenza del piano?" Sbraitò poco dopo, iniziando a camminare avanti e indietro per la stanza stretta.

"Penso l'abbia origliato." Rivelò Samuel con sguardo e tono atterriti. "Dio, avrei dovuto impedirglielo!"

"Sì, avresti dovuto." Convenne il tedesco, dirigendosi verso l'uscita. "Vado a prenderla! Non può stare lì fuori."

"Ed io? Cosa farò?" Chiese Samuel, pronto a mettersi all'opera.

"Vai negli alloggi della villa e mantieni un basso profilo. Se ti scoprono, per il noi è la fine. Ci metterò poco." Promise lui, lasciando Sam lì nello studio.

Cameron prese a camminare a grandi falcate fuori la villa, uscendo a passo rapido fuori Spincourt, con la mascella contratta e gli occhi infuriati. Sua moglie avrebbe dovuto dargli qualche spiegazione circa quel suo gesto da irresponsabile.

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