❥ 𝕮'era una volta

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Dovevo ricalcarli.

Quasi mi venne da ridere per quanto fosse fuori luogo pensarci in quel momento.

Beh, a dirla proprio tutta, dall'occhiataccia che mi scoccò la prozia Bice, voltata di tre quarti dalla panca antistante, mi accorsi di essere scoppiata davvero a ridere.

Okay, lo ammetto, forse non era stata una buona idea spararci quelle due pillole di Prozac, sul sagrato della Chiesa.

Ma, fanculo, era il funerale di mio padre: probabilmente non avrei mai più avuto nella vita un'occasione migliore per ingoiare quella merda.

La bara color legno spiccava sul pavimento di marmo, spoglia. Nemmeno un misero fiorellino.

Quella vista, squallida oltre che triste, mi fece pentire all'istante di non aver raccolto la margherita che avevo visto sbucare sul ciglio del marciapiede. «Ci pisciano sopra i cani.» la bocca di Luca si era contorta in una smorfia di disgusto quando mi aveva visto chinarmi verso quel piccolo sprazzo di natura in mezzo al grigio del cemento. «Che schifo.»

Così avevo lasciato perdere.

Tornai a fissarmi le mani.

Non avevo mai tenuto particolarmente a loro: le maltrattavo sin da piccola, da quando già solo vedere da lontano un pennarello equivaleva a macchiarmele di dieci colori diversi. Le rosicchiavo quando ero più nervosa del solito e le rovinavo di continuo riempiendole di minuscoli e fastidiosissimi graffietti a furia di seviziare biglietti dell'autobus timbrati e girare cartine. Insomma, non ero proprio una di quelle fissate con la cura delle proprie mani, perciò credetemi se vi dico che erano in condizioni davvero merdose.

Più me le guardavo e più pensavo che era arrivato il momento: i tatuaggi che mi costellavano le dita della mancina erano sbiaditi da far schifo. Dovevo ricalcarli. Per forza.

Me li ero fatti da sola, nella mia cameretta, dopo aver comprato una macchinetta per tatuaggi old school qualche anno prima da un compagno maneggione che si rivendeva le cose che riusciva a portare via da casa dello "zio". Non si è mai capito se questo fantomatico zio esistesse davvero o se fosse solo una scusa per non dire apertamente che rubacchiava cose qua e là per comprarsi del fumo nei limiti della decenza.

La macchinetta era d'ottone, ma visto che quello schizzato del vecchio proprietario ci aveva inciso una svastica sopra, ero riuscita a ottenere un ulteriore sconto. Che schifo i nazi-fascisti, certo, però vi assicuro che se avessi saputo prima che gli occorreva pure una molla posteriore nuova, avrei potuto contrattare ancora di più sul prezzo.

All'epoca ero solo una sprovveduta tredicenne col pallino per il disegno, che ne sapevo io.

Il disegno. Che talento inutile.

Dio, o chi per esso, si era proprio accanito di brutto su di me: non gli era bastato avermi fatto nascere nel quartiere più malfamato di quella latrina di città, né di aver fatto il tirchio munendomi di una evanescente prima di seno. No, la sola e unica cosa che mi riusciva bene era il fottuto disegno.

Così avevo comprato la macchinetta per i tatuaggi, l'unico modo che mi era venuto in mente per cavare fuori qualche soldo da quella mia stupidissima capacità. Davvero un vero peccato che tutto ciò che avevo da investire era stato a malapena sufficiente per l'aggeggio e una misera boccettina di inchiostro nero. Per questo poi ero stata costretta a impratichirmi sulla mia stessa pelle e non su quella di un maiale stecchito come fanno tutti.

Non c'erano nemmeno, in quel buco di culo di quartiere, i maiali. O meglio, c'erano eccome, ma camminavano su due gambe, e ti guardavano il culo.

Lezione numero uno: la tequila non aiuta a tenere la mano ferma. Soprattutto se è la prima volta che poggi un ago sull'epidermide e se quell'epidermide è la tua. Quel piccolo teschio accanto al polso, che tutti scambiano puntualmente per una "graziosa coccinella", me lo ricorderà a vita.

Già, sorpresa.
È un teschio, non una coccinella.

Luca mi prendeva ancora per il culo ogni volta che gli posava gli occhi sopra. Diceva sempre che io non ero il tipo da coccinella.
Che, poi, che cazzo vorrebbe dire?

Dall'angolazione in cui mi trovavo, potevo ammirargli il profilo. La luce gli cadeva direttamente sui capelli e li illuminava di un colore che sembrava cioccolato fondente alla paprika, un'oscura linea di confine tra il nero corvino e il rosso sangue. Odiava che gli venissero toccati, i capelli. Era capace di prestare zero attenzione al modo di vestirsi, ma quando si trattava del suo taglio ribelle diventava un vero fissato, al pari di una gatta che soffia quando ti avvicini alla sua cucciolata di micetti appena sfornati.

Non so neanche io perché o per come, ma a un certo punto mi ritrovai la sua mano premuta sulla bocca.

Cazzo, ero in una Chiesa e tutto quello che riuscivo a immaginare in quel momento era come sarebbe stato sentire premute quelle dita sul mio secondo paio di labbra.

Le orrende illustrazioni religiose alle pareti mi guardavano con i loro occhi da ipertiroidei. Sarei andata all'inferno. Garantito.

«Smettila di ridere, cretina.» il suo fiato caldo mi solleticò il lobo e mi zittii all'istante. Stavo ridendo un'altra volta senza accorgermene. «È sconvolta.» mi giustificò Luca, sottovoce, con la persona seduta alla sua destra. Una donna che nemmeno conoscevo, o così credo, ma le sue borse sotto gli occhi mi fecero subito immaginare fosse una collega di mio padre.

Lavorava a nero in una fabbrica di tessuti, la buonanima, l'unica attività pseudo legale nel raggio di qualche chilometro da quel buco dimenticato da Dio. Era un uomo onesto, lui. Uno dei pochi onesti che avevo mai conosciuto, e non lo dico solo perché mi ha generato. Quando non era impegnato in uno dei suoi turni estenuanti, avvizziva insieme a mia madre davanti al tubo catodico. Piccolo, rugoso e senza domande o pensieri da ruminare.

Uno può pensare che la classe operaia del Blocco fosse piena di belle speranze, che tirasse su i figli con sani principi e valori utopistici come l'educazione, il rispetto e la famiglia, che li incitasse a inseguire i propri sogni perché, in fondo, erano felici già così, anche senza giardino, senza nessun tipo di assicurazione, senza cestino della merenda di Candy Candy.

Balle.

A me, tutto quello che mio padre mi aveva insegnato spaccandosi la schiena per vent'anni, otto ore al giorno, sei giorni su sette, per poco più di cinquemila lire l'ora, era che l'unica cosa che dovevo sognare era di non diventare come lui.

Almeno a me non era toccato un fottuto alcolizzato come padre, comunque. Luca non era stato altrettanto fortunato.

Suo padre aveva tirato su lui e suo fratello a suon di calci e pugni, finché un rigurgito di giustizia divina non lo aveva ridotto a un vegetale su una merdosa sedia a rotelle. Restava pur sempre un mostro - nessuna caduta da un'impalcatura avrebbe mai potuto cambiare questo dato di fatto - ma loro almeno un padre ce l'avevano ancora.

Io, invece, il mio non l'avrei rivisto più.

Fu solo in quel momento che realizzai che il mio papà ci aveva lasciato per sempre. Lui e il suo salario stentato, a malapena sufficiente per pagare le bollette, avevano lasciato, in un battito di ciglia, me e quell'altra sfigata di mia madre nella merda più totale.

I medici lo definirono "infarto", per me fu semplicemente l'ennesimo sgambetto del destino.

«Se sapevo che ti prendevano così a male, non avrei sprecato due caramelle per darle a te.» sbraitò aspra la voce al mio fianco, distogliendomi da quei pensieri. Mi voltai verso Luca quasi a rallenty e la sua immagine apparve tremolante nei miei occhi. Neanche il tempo di sistematizzare il velo di lacrime che mi offuscava la vista, che il ragazzo mi afferrò il polso - il polso, non la mano - e mi trascinò per tutta la navata centrale fino all'uscita.

C'erano poche persone, ma la disapprovazione che quel giorno lessi nei loro occhi mi sarebbe bastata per tutta la vita.

Per fortuna ero nata equipaggiata di una scorta extra di strafottenza, sufficiente a ignorare i loro sguardi pungermi la schiena. Anzi, se avessi potuto, avrei alzato un dito medio contro ognuno dei loro insulti taciuti, ma ero troppo concentrata a stare dietro alle ampie falcate di Luca per poterlo fare. Con le mie gambette, cortissime rispetto alle sue, sarebbe bastato solo un attimo di distrazione per rovinare sul pavimento freddo della Chiesa.

Una folata di ossigeno ci investì insieme all'odore di fritto stantio del kebabbaro di fronte al cortile della parrocchia.

Non pioveva.

C'è gente che pensa che ai funerali dovrebbe sempre piovere. Atmosfera, cultura pop, immaginario collettivo, non so come mai, ma sembra che il rumore, l'odore, la consistenza stessa della pioggia, rendano tutto più romantico.

E invece quella era una cazzo di giornata di sole. Serena, sterile quasi, nonostante il freddo. Quasi ti faceva dimenticare di essere a due passi dal Blocco in cui vivevo, il Blocco Chernobyl.

Nome piuttosto calzante, vi assicuro.

Trattenni un'altra risata a quel pensiero. Luca mi dava le spalle; teneva le dita aggrovigliate alla rete di metallo che delimitava lo spiazzo e la testa piegata in avanti, leggermente inclinata da un lato, la fronte appoggiata al metallo. Rimasi imbambolata a guardare il vento come gli scompigliava i ciuffi per un tempo che parve infinito.

«Falle 'ste due gocce, Pulce. Oggi ci sta.»

Se ne andò via prima che fosse troppo tardi. Prima che la richiesta di restarmi a fianco per tutta quella giornata difficile mi rotolasse via dalla bocca, dribblando i pochi filtri che mi erano rimasti. Luca se ne andò, scappò via giusto un attimo prima che il desiderio di tenergli la mano come fosse il mio unico legame col mondo terreno, mi divorasse viva.

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