❥ 𝕴l principe e la camionista

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Luca Morelli masticava sempre una gomma, che fosse per smorzare la nausea o per passare il tempo, e si rigirava una vecchia moneta da cinquecento lire tra le dita quando si annoiava.

Ce ne stavamo chiusi nel bagno dei maschi durante l'ora di matematica, come sempre. La professoressa si era arresa già da un pezzo all'evidenza che eravamo quello che più si avvicinava alla definizione enciclopedica di "cause perse", ormai convinta che già fosse una punizione divina abbastanza severa dover marcire in quella scuola di merda per gli ultimi anni della sua squallida carriera senza dover sprecare il suo prezioso tempo con noi.

Si chiamava Corinna Schifano, e il cognome già diceva tutto quello che c'era da dire sul suo conto.

Pur di avvicinarsi a casa, aveva lasciato un tranquillo tecnico commerciale per calarsi in quel girone infernale spacciato per professionale alberghiero. Ed eccola lì, a soffrire in tailleur logoro, in mezzo a gente che non distingueva il dentifricio dalla crema per le irritazioni intime.

Ma, a onor del vero, in quel preciso momento non mi sfiorava minimamente l'anticamera del cervello l'immagine stereotipata di quella donna trascurata e fuori tempo massimo. Erano ben altre le immagini che mi affollavano la testa, molto meno adatte ai minori, perché il movimento di quelle abili dita, impegnate a giocare con la moneta, che si flettevano, si stiravano e si piegavano ancora e ancora, mi aveva completamente ipnotizzata.

Le immaginai sulla mia pelle.

«Cazzo.» imprecai, quando un pezzo di cenere ancora rovente cadde e mi scottò la coscia, creando l'ennesimo forellino nei collant già smagliati. Imbambolata com'ero, avevo dimenticato di scrollarla e la forza di gravità e la sfiga avevano fatto il resto.

«Sboccata come sei, hai un futuro da camionista. Garantito.»

Luca, di tanto in tanto, mi rimproverava che dicevo troppe parolacce. Almeno quando era abbastanza lucido da connettere le sinapsi e farci caso.

Anche lui si faceva troppe seghe, ma io non stavo lì a ricordargli che da un giorno all'altro sarebbe potuto diventare cieco.

Punti di vista.

Con uno sbuffo di protesta feci svolazzare i capelli che mi coprivano la fronte e riuscii incredibilmente ad assumere una posa ancora più scomposta e sgraziata, appoggiando la schiena al muro. Non dovevo essere un bello spettacolo là, seduta sul coperchio abbassato della tazza, con due occhiaie da fare invidia al conte Dracula e una varietà infinita di peni stilizzati a farmi da sfondo, scarabocchiati sulle mattonelle.

Più ci pensavo, più non riuscivo a capacitarmi di come fosse possibile che la miseria in cui galleggiavamo rendesse me una sottospecie di derelitto umano, sciatta e priva del benché minimo garbo, mentre Luca, con i vestiti ancora più logori dei miei e i polpastrelli leggermente ingialliti dal fumo e dalle varie sostanze che ci capitavano sottomano, ne uscisse fuori ancora più disarmante.

Era come uno di quei germogli che bucano l'asfalto e riescono comunque a fiorire a lato della tangenziale. Tutto quel disagio gli stava bene addosso, lo vestiva di quell'aria da bello e dannato che gli faceva avere successo con le donne. E, in fondo, era con quello che lui mandava avanti quel rottame di famiglia che aveva.

A me, invece, era toccato il fottuto disegno.

«Che è, ti sei incantata?» mi colse in flagrante a fissarlo con le labbra piegate in una smorfia per la gran rabbia che mi montò dentro, unita al forte senso di ingiustizia.

Mi limitai a sventolare il dito medio in faccia al suo magnetico sorriso da canaglia. Molto elegante da parte mia. A ben vedere, forse Luca non aveva tutti i torti, ero davvero un'aspirante camionista provetta.

Non ebbe modo di ribattere che la porta del bagno si aprì e quello sfigato di Fava irruppe in quella enclave dove le regole scolastiche erano sospese e le puzze di piscio vecchio e ormoni si mischiavano.

Millantava di farsi chiamare Fava non tanto per via del cognome, Favino, ma per una sua caratteristica fisica "importante". Tutte balle, ovviamente, era un essere così inutile che credo di non aver mai saputo neanche il suo vero nome, o, se l'ho fatto, l'ho dimenticato.
E questo la dice lunga sullo spessore umano e intellettivo del Fava.

Si capiva che fuori stesse piovendo dall'impennata che subiva, come per magia, la presenza di certi coglioni a scuola: si riparavano nelle classi dalle due gocce d'acqua che piangevano dal cielo, proprio come i topi nelle loro tane, e così, per pura coincidenza, scoprivano che si stava facendo lezione di qualcosa.

C'è da dire che la pioggia riusciva nell'impresa, all'apparenza impossibile, di rendere il Blocco Chernobyl ancora più schifoso di quanto non fosse di solito. Faceva puzzare tutto di acqua stagnante, e le converse bagnate erano quanto di meno tollerabile esistesse sul pianeta Terra.

Perciò, quando pioveva, noi andavamo a scuola.

Che cosa inutile, la scuola. Si innestava a forza sulla nostra dose personale di guai, con tutte quelle menate sul futuro e sull'importanza di avere un'istruzione in quel mondo di squali che era la vita adulta. Sentir parlare di futuro quando ti sentivi mancare anche il presente, era piuttosto deprimente. Avrei preferito più onestà da parte dei professori verso gente che poteva ambire al massimo a non finire al gabbio prima di aver compiuto vent'anni. Ma, si sa, l'onestà in questo mondo è pura utopia.

«Ma guarda un po' chi si vede. Come butta, Pulce?» il Fava mi leccò con lo sguardo da capo a piedi, nonostante in quel momento sembrassi più un incrocio tra un chihuahua bagnato e una mazza di scopa che una persona.

Sempre. Schifosamente. Viscido.

Eppure, gli feci posto lo stesso, un sorriso condiscendente appena abbozzato nel frattempo che lui scavalcava la tazza con una gamba per posizionarsi dietro di me, come se fossimo sulla sella di un motorino anzichè su un cesso portatore sano di una qualche misconosciuta forma di epatite.

Tra una cazzata e l'altra, finiva sempre per gettarmi un braccio attorno alle spalle, o per posarmi una mano sul fianco, oppure per avvicinare le labbra al mio orecchio. Faceva tutto con studiata noncuranza, i nostri contatti sembravano del tutto casuali, gesti innocui dettati dal mero entusiasmo della conversazione. Dall'enfasi, dal trasporto. Tra un commento sull'ultima partita della Juve, qualche ridicola battutina da film di Neri Parenti e il simposio sulla legalizzazione delle droghe leggere, io però mi ritrovavo puntualmente il suo bacino dietro il sedere, che, con movimenti millimetrici che di fortuito avevano ben poco, premeva sempre di più.

Eppure, ciò che più mi disgustava, più di tutti quegli strusciamenti indesiderati, più della sua vergognosa erezione, era il fatto che io non riuscissi a sottrarmi.

Me ne stavo lì a fingere.
Fingere di non accorgermene.
Fingere che non me ne importasse.

Ero io quella sbagliata, quella che aspettava che le spuntassero le palle per reagire.

Ero io quella che restava immobile, con quelle mani che piano piano saccheggiavano indisturbate pezzettini di me. Ferma come una bambola, proprio io che di bambolesco non avevo un cazzo di niente.

Era la mia reazione a ripugnarmi di più. Mi facevo schifo da sola perché l'unica cosa che riuscivo a rendere inutilizzabile era il filtro della sigaretta che stritolavo tra le dita, anziché qualcosa di poco più spesso che meritava quel trattamento di gran lunga di più.

Forse ero davvero una troia, come mi definiva la maggior parte delle tipe a scuola. O forse era perché io quelle mani non le vedevo - le sentivo, quello sì - e se non le vedevo potevo far finta che fossero altre mani, di un'altra persona, mani che mi avrebbero fatta sentire meno sporca.

E forse, dico forse, una piccola parte di me sperava che fosse proprio la persona che tenevo davanti, sotto i cui occhi si svolgeva tutta la scena, a intervenire. A salvarmi.

Ma Luca di azzurro non aveva nulla, se non forse qualche francobollino in tasca il sabato sera. E di sicuro non era un principe, solo uno spettatore privilegiato della disfatta della mia dignità.

Se ne fosse consapevole o no di ciò che passavo, di sicuro non lo diede mai a vedere.

«A Pù, rientriamo che mo' inizia Alimentazione.» mi richiamò al terzo mozzicone che buttavo per terra ancora fumante. Salutò il Fava che, guarda caso, ci disse che rimaneva in bagno a "pisciare", e ci riversammo nel corridoio, diretti in classe.

«Sai, i mozziconi. Schiacciali, se no non li spegni.»

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