❥ 𝕴l pifferaio magico

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Feci del mio meglio, cercando di aggiungere del mio a quello che avevo trovato scritto su quei fogli che riportavano comunque il mio nome in fondo: l'importanza del movimento, il recupero delle aree degradate, la speranza per un quartiere migliore in un futuro.

Mannoni mi guardò più volte con l'aria di uno che non credeva del tutto alle sue orecchie e sono quasi certa che dentro di sé attribuì il merito di quel mio sproloquio dotato di un senso logico al suo inossidabile corpo docente e ai metodi di insegnamento che molti suoi superiori avevano tacciato di obsolescenza, e che invece ora lo facevano gongolare per la certezza che fossero semplicemente ben rodati. Non fece domande, non fece commenti, si limitò a dire entusiasta, al termine della mia spiegazione, che avallava tutto e che si sarebbe premurato il prima possibile di sottoporre il progetto anche al consiglio scolastico per allargarne la partecipazione.

Ursula mi tenne gli occhi puntati addosso per tutto il tempo, li distolse solo al termine del mio discorso, per scambiare uno sguardo con suo marito. Non capii se d'intesa o se per interrogarlo in qualche modo.

«Parto da un elemento ineliminabile e dirimente: la spesa.» aggiunse subito dopo in tono greve, affondando di nuovo gli occhi nei miei. «Piuttosto importante, sebbene tu, cara, giustamente non hai gli elementi per quantificarla, non essendo un'esperta di edilizia pubblica.» le sfuggì una risatina leggera. «Ma al netto di ciò, che comunque, ribadisco, è dirimente, trovo questo progetto assolutamente, e ripeto, assolutamente, lodevole.»

Una specie di sospiro di sollievo abbandonò silenzioso le mie labbra e automaticamente il mio sguardo volò su Bobbi, che mi sorrise vagamente.  Come al matrimonio, mi parve uno che sapeva mimetizzarsi alla perfezione in quei contesti dorati e arzigogolati; sembrava nato per quella vita e al contempo aveva negli occhi un labile disinteresse.

«La ringrazio, signora.» mi affrettai a dire.

«Chiamami Ursula, cara. Non siamo amanti dei formalismi, noi.» quando pronunciò quel noi, strinse la mano che Bobbi teneva adagiata sul tavolo e gli estorse un cenno di conferma. «Da parte della Fondazione c'è il completo avallo del progetto, ma una valutazione di carattere economico, fatta a tempo di record dal nostro consulente, stima un costo di circa ottocento milioni per la sua realizzazione.»

Quasi sbiancai a sentire quella cifra, impattò su di me e sulle mie aspettative dopate dal contesto come una raffica di vento su un castello di carte. Mi scoraggiò all'istante, dandomi l'idea di una cosa inattuabile; chinai la testa, a mormorare qualcosa relativamente all'impatto benefico che avrebbe avuto sul quartiere.

«Ma cara, questo è esattamente il motivo per il quale, nonostante l'esorbitante cifra preventivata, considerando il ritorno di immagine, i benefici per il territorio e le innumerevoli possibilità di impiego, alla fine abbiamo deciso comunque di finanziare parzialmente il tuo progetto.» aggiunse Ursula soddisfatta di sé stessa, contro ogni pronostico.

«Porca tro...» Mannoni ridimensionò il mio entusiasmo con un'occhiataccia. «Cioè, voglio dire, è grandioso!»

«Ovviamente la Fondazione non può concentrare tutto quel denaro in un unico progetto, sarebbe contro i principi della Fondazione stessa.» aggiunse lapidario Bobbi, richiamando su di lui tutta la mia attenzione. «Abbiamo bisogno di trovare sostenitori che possano cofinanziare parte della realizzazione e il professor Mannoni è stato immediatamente d'accordo con me nel volerti parte attiva anche in questa fase di ricerca.»

Non riuscii a proferire nessuna parola in risposta, perché nel frattempo, ben coperta dalla lunga tovaglia di lino immacolato, la mano di Bobbi era atterrata sul mio ginocchio. «Ovviamente questo implica la tua massima dedizione e disponibilità. Pensi di potercele concedere?»

Annuii con vigore, senza riuscire a razionalizzare, mentre la sua mano risalva pian piano lungo il mio interno coscia, che tutto stesse avvenendo letteralmente sotto gli occhi di sua moglie.

Continuavo a ripetermi che se non se ne faceva un problema lui, men che meno quella sarebbe dovuta diventare una mia preoccupazione. Tanto sarei finita all'inferno lo stesso, probabilmente in quel modo mi stavo solo guadagnando il gintonic di benvenuto.

Fu strano ritrovarmi a pensare che proprio quella fu la parte più intrigante di tutta la serata. La cena, infatti, proseguì in maniera vagamente penosa, con Bobbi, consorte e Mannoni che gareggiarono a chi tirava fuori dal cilindro più problemi del mio quartiere e, in generale, della periferia. Bobbi vinse a mani basse, snocciolando così tanti guai che pensai di abitare a Sarajevo senza essermene mai accorta.

A un certo punto, iniziò a pungolare la moglie per convincerla a effettuare un sopralluogo nella vecchia piscina comunale, il cui recupero edilizio sarebbe dovuto diventare il vero fulcro della sperimentazione del progetto. «Solo tu puoi valutare l'effettivo impatto del progetto nel contesto, tesoro. Non potrei mai fidarmi del giudizio di nessun altro.» le disse in tono adulatorio.

«Sono lusingata della proposta, Bob, ma non intendo utilizzare una mezza giornata per visitare un luogo fatiscente che, ragionevolmente, dovrà essere sventrato del tutto e ricostruito dalle fondamenta. Vai tu, con un tecnico magari, oppure... mhmm. Come te la cavi con le foto, cara?» mi chiese a bruciapelo voltandosi di scatto verso di me. «Immagino che tu conosca bene il posto, chi meglio di te potrebbe effettuare  lo shooting per integrare la documentazione già in nostro possesso! Te la sentiresti?.»

Annuii pensando che le ultime foto che avevo scattato risalivano alla gita di seconda: avevo una Kodak fun con cui avevo fotografato ventisette cazzate per poi fargli fare una doccia di birra l'ultima sera nella camera d'albergo.

Doveva pur contare qualcosa a livello di esperienza per fare uno shooting, no?

Beh, qualsiasi cosa fosse, si intende.

Il pomeriggio dopo, Bobbi si presentò alla vecchia piscina comunale in un impeccabile completo giacca e cravatta che stonava con la decadenza del contesto e senza nessun tecnico per le rilevazioni. «L'ho fatto venire stamattina, per guadagnare tempo.» si affrettò a puntualizzare.

Aveva insistito per vedermi immediatamente dopo la campanella di fine lezioni, così ero arrivata lì stanca e ammantata di sciatteria, i vestiti mi cadevano addosso come a un attaccapanni di poco pregio. Mi guardò a lungo, soffermandosi sulla maglietta bucherellata di Blondie, autentico pezzo degli anni 70', tanto che l'etichetta dietro il collo era diventata morbida a furia di lavarla e praticamente si vedeva attraverso il cotone consunto. Ma era una delle poche cose a cui tenevo più della mia stessa capacità polmonare, un regalo di Luca per i miei quattordici anni. Sembrava quasi un souvenir proveniente da un'altra vita, una precedente, o magari solo immaginata per quanto erano cambiate le cose da allora.

Gli feci strada all'interno dell'edificio: tra i corridoi deserti rimbalzava solo lo sciaguattare della suola ormai liscia delle mie converse consumate, con la pelle crepata ai lati e i lacci così lisi che si tenevano insieme solo con nodi improvvisati. Contrariamente a quello che pensavo, Bobbi non si scompose minimamente di fronte a tutto quello scempio edilizio, risultato di abusi di soldi pubblici e inciviltà. Restò alabastro, solo un'antiestetica ruga di perplessità sulla fronte a distorcere la sua maschera di imperturbabilità e rilassatezza.

Quando raggiungemmo la piscina, senza proferire parola, si servì della scaletta sgangherata per scendere sul fondo, dove i cumuli di immondizia apparivano quasi come fiori in mezzo al prato di muffa che imbrattava gli angoli e si arrampicava sulle pareti in alcuni punti.

L'odore della colonia di Bobbi creò un contrasto strano con quello pungente dei rimasugli di cloro, pioggia e abbandono che contraddistinguevano quel posto, mentre i suoi occhi vagavano per tutta la vastità dell'impianto, soffermandosi in alcuni punti senza che io riuscissi a capirne il perché. Seguivo in silenzio il suo ciondolare all'apparenza privo di senso, immaginando che, sotto quello spesso strato di ostentata indifferenza, nella sua testa stesse avvenendo un esame dettagliato e scrupoloso della situazione, come un elenco da spuntare di tutte le misure che si sarebbero dovute attuare per rendere quel luogo qualcosa di completamente diverso, migliore.

E, per un istante, mentre tracciavo con il polpastrello il contorno di una piastrella azzurrognola sbeccata e nonostante la mia fiducia nel genere umano fosse ancora in fase del tutto sperimentale, mi sembrò quasi di vederlo ripartire quel posto, trasformato veramente in quello che c'era scritto su tutti quei fogli.

«Piccola Pulce, ti stai emozionando?» quasi sussultai alle sue parole, ancora immersa nel mio disincantato Paese delle Meraviglie, ma non mi voltai, troppo abituata com'ero a non dare a nessuno la possibilità di scorgere neanche il benché minimo bagliore di una speranza risplendere sul fondo delle mie sclere. Le speranze, per me, erano da sempre un vezzo che mi concedevo solo nella mia sfera più privata, qualcosa di troppo intimo da mostrare a chiunque. Erano coltelli a serramanico, le speranze: innocue finché restavano ben riposte ed etichettate nella propria mente, pericolose e capaci di farti sanguinare se manipolate da altri. Ero fermamente convinta che se qualcuno fosse stato in grado di scovare la giusta leva, sarebbe bastato un attimo per ritrovarmele tutte conficcate al centro del costato, nel cuore.

Il fruscio della cravatta di Bobbi che venne allentata fu incredibilmente intenso tra le pareti della piscina.

«Te l'ho già detto, non devi nasconderti con me.» fu il suo fiato caldo contro l'orecchio a farmi accorgere sulle prime che si fosse avvicinato alle mie spalle. Solo dopo lo sentii premersi contro la mia schiena - non era cauto come venerdì, non manteneva più le distanze.

Anzi.

Deglutii quando il mio sedere impattò sul cavallo dei suoi pantaloni e lo sentii già duro come una roccia. «Mi piace vederti eccitata per qualcosa. Non siamo qui per questo, in fondo?»

Fece scivolare la mano sul bottone dei miei jeans dall'orlo perennemente sporco di nero, polvere e terra bagnata raccolta sul pavimento, la punta delle sue scarpe eleganti che si scontrava con il tallone delle mie, disastrate. Cozzavano, non armonizzavano.

Le dita di Bobbi ebbero la meglio sulla cerniera precaria, da sempre a metà tra lo staccarsi e l'incastrarsi definitivamente, e la zip scivolò giù in un rumore di vetri rotti.

Pochi minuti dopo mi ritrovai con la faccia schiacciata contro le diverse sfumature di azzurro delle piastrelle, con le mutandine nemmeno del tutto calate. Bobbi dimenava la sua sontuosa erezione dentro di me, divaricandomi le natiche per farmi sentire per bene la sua, di eccitazione. Ansimavamo come due animali che si accoppiano nel mezzo della savana e per un attimo desiderai che continuasse ancora a lungo lì, nonostante il degrado, l'immondizia e un intero quartiere disperato che ruotava attorno a noi due e al nostro amplesso.

Tenevo i palmi ancorati alla superficie fredda della parete, facendo leva sulle braccia per andargli incontro nei movimenti, mentre lui continuava a spingere il bacino contro il mio in una specie di guerra alla conquista del piacere. Finché, con un movimento rapido, non afferró entrambi i miei polsi e li chiuse nella morsa stretta della sua mano, bloccandomeli dietro la schiena. «Cazzo.» imprecai sentendo la pelle della guancia graffiarsi a causa del continuo sfregamento con la parete della piscina, ma lui non se ne curò, continuava a tenermi la testa premuta contro di essa e a perseverare nelle spinte brucianti con cui si faceva spazio dentro di me, sempre più serrate e sempre più a fondo, come se volesse raggiungere un posto inabissato di difficile accesso.

I suoi gemiti arrochiti dal sesso facevano da sinfonia al mio orgasmo.

Nonostante fossi assolutamente la brutta copia di quella che ero stata solo la sera prima, Bobbi sembrava essere finito in un'estasi logorante, mi montò come se non potesse mai averne abbastanza, così rapito dalla voglia di possedermi che dubitai della sua capacità di controllarsi, fino a farmi temere il disastro di una eiaculazione interna.

Ma poi, per un soffio, sfilò la sua turgidezza imbrattando il muro tra le mie gambe. Non so se sbuffai o tirai un sospiro di sollievo nell'osservare Bobbi che se lo reggeva mentre concludeva e gemeva di lamenti arrochiti, scosso da tremori e brividi.

Alzò lo sguardo su di me solo dopo essersi completamente svuotato e mi regalò un sorriso appagato. «Il gioco è stato un tantino pericoloso, stavolta.» decretò con il respiro ancora affannato.

Ci mettemmo poco a rivestirci, considerando che a entrambi bastò semplicemente tirare su i pantaloni, i suoi perfettamente stirati, i miei consumati e sfilacciati in più punti. Gettai un'ultima occhiata a quel suo seme che ancora colava sul muro. In fin dei conti non eravamo molto diversi dai vandali che avevano ridotto allo scatafascio quella piscina, eravamo solo gli ultimi ad averla insudiciata.

«Spero proprio che riusciremo a trovarlo un cofinanziatore.» asserì spezzando il silenzio, e lo vidi estrarre il portafoglio dalla sua tasca posteriore, aprirlo e iniziare a scorrere i polpastrelli sul filo delle banconote al suo interno. «Mi piacerebbe scoparti qui dentro anche quando ci sarà l'acqua.» Infilò i soldi nel mio zainetto abbandonato sul pavimento e subito dopo vidi la sua schiena allontanarsi e risalire le scale. L'ultima cosa a cui pensai, prima di uscire anche io dalla piscina, fu la scritta che avevo visto nel cesso della scuola.

Lo ero veramente?

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