❥ 𝕷a Bella Addormentata nel parco

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Per fare un bilancio di tutto quell'ultimo periodo, mi bastava ripensare a quel brandello di fondo di piscina: un luogo che, all'infuori di quattro fogli chiusi all'interno di una cartellina, sembrava essere senza traccia di redenzione, ma con in compenso ben visibili tracce di sperma a imbrattarlo.

Nelle mattine seguenti, mi sentii esattamente così, come quella parete.

Ci furono soltanto due diversivi, entrambi entusiasmanti quanto un'appendicectomia: Mannoni che mi fermò al termine di una lezione di sala per farmi mille salamelecchi sulla mia capacità di elaborazione del progetto, e sempre Mannoni che mi chiese di andare con lui nell'ufficio del preside per metterlo al corrente in via ufficiale.

Ovviamente la parola "chiese" era un eufemismo. Ero obbligata ad andarci.

Quei due, assieme, avevano un modo di fare che metteva a disagio. Il preside era una persona estremamente burbera che parlava solo per circolari. Probabilmente ambiva a un trasferimento in un luogo più consono alle sue capacità ed essere relegato nell'alberghiero di quel buco del culo della periferia che era il Chernobyl lo frustrava al punto da ridurre al minimo i contatti con gli studenti. Come biasimarlo, d'altronde.

Il vicepreside Mannoni, invece, era il maneggione, il doppiogiochista dalla voce flautata che all'occorrenza sapeva diventare una bestia se tutto non andava esattamente come voleva. Erano leggendarie le imitazioni che ne faceva il Sardo al cesso nelle giornate successive ai catering o alle cerimonie, che rappresentavano un Mannoni che urlava i peggiori epiteti e le più violente minacce agli studenti e poi gli bastava semplicemente ruotare di centottanta gradi per apparire, un attimo dopo, il cinguettante maitre apprezzato da tutta la buona borghesia del circondario.

In presidenza, fui costretta a spiegare nuovamente tutta la storia del progetto e, dopo aver concluso, rimasi in silenzio in attesa che qualcuno facesse domande per un tempo che parve lungo quanto il pleistocene, solo con più ansia.

Il preside guardò a lungo Mannoni, che però non osò aprire le danze, poi puntò le sue iridi di un marrone insignificante, circondate da cespugliose sopracciglia sale e pepe e pronunciate rughe di espressione, su di me.

«Baccini.» sospirò, il viso perfettamente rasato come dal primo giorno in cui aveva messo piede a scuola e gli occhiali da lettura che gli penzolavano al petto, dimenticati. Si girava e rigirava tra le mani una di quelle stilografiche boriose in una specie di movimento ripetitivo, cadenzato e continuo che, unito alla nuova pausa che riverberò, mi fece venire voglia di infilzarmela dritta nel cervelletto, la penna, pur di non sottostare oltre a quella tortura psicologica.

«Come le è venuto in mente di presentare un progetto del genere a una fondazione senza avvisare la scuola?» Espirò infine, in un tono piatto e inespressivo che, lo confesso, ebbe la fottuta capacità di confondermi ancora di più le idee.

Rimasi a bocca aperta.
Che cosa avrei dovuto rispondere? Di certo non potevo dire che me lo aveva scritto l'irreprensibile tizio della Fondazione che si divertiva a scoparmi a tempo perso.

Cercai di pensare rapidamente. Così rapidamente che di sicuro fu in quell'occasione che almeno uno dei due criceti che vivevano nel mio cervello crepò di infarto a furia di correre su quella dannata ruota in cerca di un'idea.

«Io, ecco... ehm, non so come dire.» buttai fuori simulando un imbarazzo da verginella che proprio non mi apparteneva.

«Provi col mettere le parole in fila, Baccini. Non leggo nel pensiero.»

Fottuto stronzo empatico come un pilone dell'autostrada, pensai, ma scartai l'ipotesi di ripeterlo ad alta voce.

«Non sono una delle migliori studentesse della scuola. Anzi, forse sono una delle peggiori. Però penso che questo posto meriti di avere una possibilità di riscatto, l'intero quartiere la merita. Io... io avevo solo paura, ecco. Paura che presentando il progetto a voi, non venisse preso in considerazione proprio perché proposto da me.»

Mancavano le note strazianti dei violini, per il resto tutto era al suo posto, occhioni lucidi, voce tremolante e compagnia bella.

Il preside mi sorrise. «Posso capire il suo ragionamento da adolescente sfiduciata, ma sappia che noi, come istituzione, ci siamo e ci saremo sempre quando ne avrà bisogno. Soprattutto per questioni importanti e costruttive come questa.»

Certo, come no. Pensai a tutte le volte che c'erano stati mentre Fava mi palpeggiava nel cesso, o quando uno dei loro studenti mi spacciò lassativi per ecstasy, oppure ancora quel giorno in cui due stronze dell'ultimo anno non aspettarono neanche che varcassi il cancello della scuola per prendermi a calci e sputi per motivi di rilevanza prossima allo zero assoluto. Mandai a cagare mentalmente tutta la loro esimia "istituzione", ma soprattutto la faccia da culo del preside che aveva il coraggio di venire a fare proprio a me il suo discorsetto del cazzo.

«Ora, Baccini, ha già pensato a un piano per trovare cofinanziatori?»

«Oh, beh» dissi, con un po' di impaccio, «speravo che magari la scuola, con i legami con le altre istituzioni sul territorio-»

«La fermo subito.» mi interruppe con un gesto eloquente della mano e voce secca. «Se questi canali fossero percorribili, avremmo già finanziato altri progetti negli anni scorsi, non trova?» Annuii debolmente. «Secondo la mia modesta opinione, la Fondazione è il miglior punto di partenza per trovare investitori. A tal proposito, la affido a Mannoni: non si faccia problemi a chiedere aiuto a lui, in caso di bisogno. Contiamo moltissimo su di lei, Baccini.»

Sì, col cazzo, al preside fregava il giusto, e lo venni a sapere solo qualche tempo dopo, quando a settembre si trasferì in un professionale per il commercio. Non era un liceo classico, certo, ma sempre meglio del nostro alberghiero, secondo lui.

Prima di congedarmi, non mi risparmiò dal suo vanesio discorso finale sull'importanza del ruolo della scuola nella riqualificazione non solo del quartiere, ma dell'intera società. Quanta ipocrisia: era facile in quel momento riempirsi la bocca, con il buon nome della scuola che appariva su pagine e pagine di un'importante iniziativa senza nemmeno aver perso mezzo secondo a impegnarsi a fare un cazzo, nè doversi sobbarcare l'incombenza di cercare qualcuno disposto a investirci.

Mi veniva da vomitare, in quel modo completo e totale che solo le omelie dei preti cattolici erano capaci di eguagliare. Fosse dipeso da me, non mi sarei neanche curata di stringere la mano sudaticcia e pelosa del preside, eppure lo feci, riempiendo immediatamente dopo la distanza fino alla porta in poche falcate decise, con le suole che stridevano sul linoleum consumato e la luce che tagliava in due la stanza poco ariosa, dal vago odore di dopobarba del discount.

Così, appena fuori scuola, cercai la via più breve per uscire dal mio tunnel di pensieri e dimenticare quella fantastica giornata di merda: un po' di erba di qualità decente e dell'alcol che non fosse scarto di produzione della filiera del petrolio.

Avevo ancora nello zaino i rimasugli dei soldi che mi aveva messo Bobbi dopo aver messo me a novanta, così mi recai al parchetto, dove già sapevo che avrei trovato Seb, incastrato in mezzo a qualche giostra dalla vernice sbiadita e posticcia. Già, perché quell'unica area verde del Chernobyl, che nella mente di chissà quale idiota dal cervello fritto di buoni propositi e utopia sarebbe dovuta essere destinata ai bambini e al loro svago, in realtà era solo il punto vendita al dettaglio di un manipolo di spacciatorini di quartiere.

Trovai Seb senza difficoltà, se ne stava seduto su una delle altalene dalle catene arrugginite che tentava un vano approccio con la cartina, impedito da dita rattrappite per il freddo e dall'umidità che incartapecoriva la carta.

Spiaccicai un "Ehi" distratto e mi acciambellai sul sedile di quella vuota accanto alla sua.

«Ehi, Pulce. Tutta sola oggi?»

«Mh.»

Seb era pallido e smunto come sempre, le cinquanta sfumature di viola a contornare quelle pietruzze grigie che teneva al posto degli occhi. Riuscì a girarsi la canna e se la posò tra le labbra. «E che cosa ci fa qui una piccola Pulce tutta sola?»

Mi diede fastidio quel ripetere il fatto che fossi sola.

«Non è che devo per forza avere sempre qualcuno attaccato al culo per sballarmi. Cos'è, hai un codice etico che ti vieta di sganciare la roba a ragazzine sole?»

«Potrebbe anche essere...» ridacchiò vagamente, quasi fossero scuse, e affondò le dita nella tasca interna del giubbotto, litigando per un paio di secondi con l'apertura troppo piccola che andava a cozzare contro i suoi anelli squadrati. «Ma, fanculo all'etica, tu capiti troppo a fagiolo. Ho bisogno di un parere clinico.»

Ne estrasse una bustina di plastica con una manciata di quella che sembrava pietra pomice. Cristalli bianchi e cangianti, trasparenti, delle più diverse forme e dimensioni, ipnotiche. Sollevai lo sguardo, sfiorai distrattamente la confezione, lo guardai di nuovo.
«E perché mai dovrei prendermi sta roba?»

Si alzò in piedi e si posizionò proprio di fronte a me, lo spinello che cincischiava all'angolo delle sue labbra ancora spento. «Perché è gratis. Non è una buona ragione?» Mi fece scivolare un cristallo nel palmo della mano, le dita lunghe e particolarmente curate per uno che quanto al resto sembra credere che l'igiene personale fosse una pratica sopravvalutata nel nostro millennio.

Ketamina.

«Gratis? Dov'è la fregatura?»

«Nessuna fregatura, è più un "controllo qualità".»

«Non lo so, io non l'ho mai provata.» buttai lì con leggerezza, mentre in realtà sentivo ricoprirsi la schiena di una patina di sudore al sapore di panico. Non sapevo se sentirmi offesa oppure onorata per avermi considerata una specialista in fatto di merda cotta alla cazzo di cane in qualche scantinato del Chernobyl.

Seb si morse il labbro con un sorriso storto e soddisfatto e incastrò lo spinello dietro l'orecchio. «Ancora meglio.» si riprese il cristallo adagiato al centro della mia mano e se lo fece scivolare sulla punta della lingua, avvicinandosi lentamente. «Poi mi farai sapere.» premette la bocca contro la mia, adagiando la droga sulla lingua con un unico movimento studiatamente lento, ma fluido. Un tocco da esperto.

Non indugiò un secondo di più nella mia bocca, non la toccò, se non con un colpo di lingua rapido e professionale.

Il cristallo era liscio e freddo lungo la gola, si sciolse in fretta. Deglutii lentamente, inspirando.

«Goditela, Pulce.» sussurrò al mio orecchio prima di portare due dita alla fronte in un ironico saluto militare e allontanarsi con le mani affondate nelle tasche del giubbotto di pelle, suo marchio di fabbrica.

Dopo un tempo che tutt'oggi non saprei quantificare, mi ritrovai infossata tra le pieghe in ferro battuto di una panchina, ricamate dallo sfregare dell'umidità, del vento e dallo strusciare di altri mille corpi prima del mio. Le sensazioni indotte dalla keta galleggiavano un po' sul pelo della coscienza e un po' più sotto, e pian piano vennero fuori immagini stranissime: vidi chiaramente tutte le stronze e gli stronzi che avevo dovuto sopportare nella mia esistenza scolastica, venire da me in processione, a chiedermi scusa e a ringraziarmi per essere riuscita a mandare in porto il progetto, donando a quella città un complesso polifunzionale che offriva molto di più di un parchetto sgangherato pieno di siringhe e pusher pronti a usarti come cavia per una nuova ricetta con cui si erano divertiti a cucinare cristalli. Mi sembrò di averle proprio davanti agli occhi tutte le tipe che pensavano fossi portatrice sana di gonorrea, che venivano ad abbracciarmi per aver dato loro la possibilità di diventare istruttrici per bambini o bariste nel complesso riaperto, al posto di fare pompini a pelli morte pur di cavarsi dalla merda. E anche tutti i ragazzi che mi avevano perculato una vita intera mi guardavano come quella che aveva dato una svolta di guarigione a quel cancro di periferia. Vidi perfino mio padre avvicinarsi e stringermi la mano, ripetendomi mille volte e con le lacrime agli occhi quanto fosse fiero di me, ringraziandomi perché era solo merito mio che fosse diventato l'addetto alla pulizia degli impianti del centro.

Poi però il trip cambiò di colpo, e in un attimo ero di nuovo in quella Chiesa, di fronte a una bara di legno tariffa base, con l'espressione fissa in un punto imprecisato della cassa, senza sbattere nemmeno le palpebre. Che terribile tragedia, il Signore vegli su di lui, ora è in un posto migliore.

Cazzate. Io ero lì che piangevo come una cogliona, chiusa in un bozzolo di vestiti fradici e puzzolenti, in preda a spasmi muscolari fottutamente dolorosi, ma ero comunque in un posto migliore di quello di mio padre, perché era reale, esisteva.

Mio padre era morto; io ero in un trip schifoso, è vero, ma me ne sarei ancora potuta lamentare domani. E chissà, magari rendere davvero quella piscina abbandonata un posto migliore. Il destino mi aveva messo sulla strada quel progetto, un destino beffardo per il modo perverso in cui mi si era presentato, d'accordo, ma avevo comunque l'occasione di cambiare le cose, di fare qualcosa di buono.

Forse dovevo chiamare Bobbi, dovevo dirgli che volevo proprio trovarli quei cazzo di finanziatori, che avrebbe potuto darmi una lista di gente a cui telefonare, a cui chiedere, non lo so.

Ma non potevo chiamarlo perché ero in condizioni talmente pietose che nemmeno me lo ricordavo come si usava un telefono a gettoni. Che poi, c'erano telefoni a gettoni ancora funzionanti lì attorno? E a quell'ora, qualunque essa fosse, Bobbi era ancora nel suo ufficio? O già non c'era più nessuno?

Magari stava scopando un'altra, una di un'altra scuola, a cui aveva dato un progetto dal nome simile, o forse uguale, o forse diverso, anche se il cazzo era lo stesso.

Affondai in una spirale negativa, ci precipitai dentro con tutte le scarpe, finché non mi misi a correre, nel buio che si addensava attorno a me e dentro di me, pregando di ricordarmi dove abitassi. Credetti di essere morta, ma morta davvero. Sentii il respiro mancarmi fino allo svenimento, il cuore stritolato da un dolore opprimente, un bruciore impossibile da lenire, i polmoni dilatarsi e comprimersi alla ricerca di un'aria impossibile da trovare. Correvo, a occhi chiusi e mani avanti, precipitando dentro, in basso, su un fondo limaccioso, pieno di fango, rifiuti e qualcos'altro.

Ricoperta di gocce di umidità, con le calze impregnate d'acqua e la gonna appiccicata alle chiappe, però, dopo un po' mi resi conto che non stavo correndo affatto. Ero ancora su quella panchina, raggomitolata come una senzatetto e la vernice acrilica scrostata dalle doghe di ferro arrugginito puzzava di catrame e di metallo, come il sangue.

Pensai che ero stata una cretina, che avrei potuto morirci là sopra, sola e fatta come un cavallo del Totip.
Era la prima volta che mi facevo un trip in solitaria, prima c'era sempre Luca a correggere i tiri del mio delirio.

E fu la prima volta in cui mi sentii davvero incapace, senza di lui.

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